Un morto, diversi feriti, vetrine sfasciate, scontri con la polizia e 74 fermi: ecco il bilancio del modello di integrazione francese.
Come al solito la pratica travolge la teoria, e ne abbiamo avuto una rappresentazione plastica, ieri notte, in Francia: basta osservare ciò che si è verificato in seguito alla vittoria algerina nei quarti di finali della Coppa d’Africa. Da Montpellier a Marsiglia, fino ad arrivare a Lione e Parigi, migliaia di persone sono scese in strada per festeggiare il passaggio contro la Costa d’Avorio. Fino a qui nulla di male, per quanto il fatto che dei “cittadini”, come molti immigrati di terza generazione, debbano tifare così visceralmente una nazionale estera lascia qualche dubbio.
Ma nei festeggiamenti di ieri notte abbiamo visto tutto il fallimento del modello francese di sradicamento mascherato da accoglienza: i “nuovi francesi”, dis-integrati, in molti casi non hanno alcuna intenzione di diventare effettivamente francesi ma preferiscono al contrario ghettizzarsi, sentendosi ancora “ospiti” a tutti gli effetti (come a Barbès, quartiere con alta presenza algerina a Parigi, che è stato letteralmente invaso dai caroselli e chiuso al traffico).
Il punto, ovviamente, non sono tanto i festeggiamenti quanto la forma in cui questi si sono manifestati: 74 fermi, una ventina di agenti feriti, vetrine distrutte e quartieri messi a ferro e fuoco; e per finire una donna uccisa e suo figlio, neonato, in gravi condizioni per essere stati investiti da un algerino, che nell’eccitazione del momento ha falciato una famiglia con la macchina.
Il video di “Le Parisien” descrive bene la situazione
Il fallimento francese sta tutto qui: non solo i nuovi “cittadini” non si sono affezionati alla nuova patria, ma la rifiutano. Non stupisce allora che siano soprattutto gli immigrati di terza generazione gli autori e le vittime di questo processo: alla disperata ricerca di un’identità, essi non la trovano nel modello francese – in cui anzi vedono spesso un esempio di discriminazione e ghettizzazione – ma, vivendo un immaginario scisso, la ricercano con ancora più “violenza” nelle proprie radici.
D’altronde è un processo abbastanza normale, lo viviamo anche noi, molto spesso, da adolescenti: in momenti di difficoltà e di rifiuto del/dal sistema ci diamo all’estremismo, rosso, nero, nichilistico o di qualsiasi altro genere. Si ha bisogno in quei momenti di una narrazione forte, capace di sublimare il rifiuto sociale e individuale, e di sentirsi parte di una tradizione più grande, avversa a quel sistema che ha marginalizzato o tradito.
La Francia, allora, corre il rischio sempre più presente di bruciare sotto le sue contraddizioni: c’è chi afferma che siano solamente i frutti del colonialismo, ma la situazione non è così semplice. Si tratta invece di un modello totalmente fallimentare, e che per di più sta sempre dalla parte dei vincitori: si racconta solo del Benzema che “ce l’ha fatta”, o del Mbappé che grazie al pallone è riuscito ad abbandonare la periferia – per non dire il ghetto. E giù copertine, poster, murales, servizi televisivi e articoli di giornale:il problema è che gli altri 99 non ce la fanno, e quando il sistema non è all’altezza delle loro speranze, quando tradisce tutte le promesse che aveva fatto loro, in questo momento si vive la scissione ed esplode la violenza.
In questo momento i francesi-algerini, o meglio gli algerini in Francia, vivono la vittoria in contrasto con la Nazione che li ospita: non è la prima volta che essi si scagliano contro negozi, simboli e polizia, e non è semplicemente teppismo. È al contrario la consapevolezza ormai introiettata che l’Algeria e la Francia non solo non vanno di pari passo, ma non possono neanche convivere: se la prima vince è perché si prende una rivincita sulla seconda.
Concludendo, comunque, non c’è nulla di nuovo sotto al sole: i giovani francesi che non si sentono tali, quelli di Nique la France (“fotti la Francia”) sono sempre più numerosi e stanno ribollendo dai ghetti in cui sono stati confinati. Non si tratta di musulmani incompatibili con la tradizione europea, ma di scarti del sistema capitalistico occidentale che non ce l’hanno fatta, ma che avrebbero voluto.
Basta vedere la storia di Mohamed Merah, 23 anni e autore degli attentati di Tolosa nel 2013, franco-algerino che faceva il rapper su YouTube mimando il gesto della pistola; o di Chèrif Kouachi, uno degli attentatori di Charlie Hebdo, che sognava anche lui di fare rap, come testimoniato da un vecchio video della televisione francese; lo stesso vale per Omar Ismail Mostefai, stragista del Bataclan, che condivideva anche lui filmati di esercitazioni rap. Non sono soldati di Allah ma scarti di un’Europa senza più identità, pezzi di riserva del capitalismo occidentale che sradica e poi divide tra vincitori e vinti, e quindi tra vincenti e falliti.
“In realtà questi giovani sono il prodotto se non il riflesso di un’Europa priva di cultura e identità: vestono Nike o Adidas, ascoltano rap, hanno il culto delle armi e della prigione, consumano stupefacenti, ostentano beni materiali e macchine di lusso, girano con donne che si credono delle star del cinema, usano un linguaggio violento e apologeta di una cultura ghettizzata, inseguono il mito eroico hollywoodiano. Di sicuro passano più tempo davanti al computer e alla televisione che alla Moschea o sul Corano, che probabilmente non hanno mai aperto”.
Questo andrebbe spiegato, tanto ai fautori dell’accoglienza a tutti i costi quanto ai crociati di una identità europea che non esiste più, erosa e divorata dall’ideologia occidentale dei diritti individuali. La Francia è uno dei principali modelli europei di (dis)integrazione per storia, e adesso ne paga le conseguenze: così anche nel calcio i giovani cittadini, nati nel territorio nazionale e con passaporto francese, volteranno le spalle ai Bleus per ritornare alle proprie radici e sostenere la squadra dei propri genitori, o nonni.
L’importante è che sia chiara a tutti una cosa: coloro che scendono in piazza per festeggiare le vittorie algerine non faranno lo stesso per la Francia e, al contrario, vivranno il confronto con la nazionale campione del mondo come un vero e proprio derby.