Manuel Camassa
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Madrid, 21 giugno 1964. Un caldo torrido avvolge la capitale spagnola in quel primo giorno d’estate, reso ancora più afoso dall’umidità provocata dalla pioggia di metà pomeriggio. Il Generalísimo sorride guardando dalla finestra della sua magione: si sa che i ragni non amano la pioggia. Nel tragitto in macchina verso lo stadio delle leggende, il Santiago Bernabeu, Francisco Franco si lascia andare a pensieri mistici: «Che sia un segno divino preannunciante l’imminente vittoria?». Gli viene subito in mente la mano dorata di Santa Teresa d’Avila, gelosamente custodita in camera da letto di fronte ad un inginocchiatoio. È il 28 marzo del 1939: la Santa era nata proprio lo stesso giorno di quattro secoli prima. Sotto la sua benedizione Franco avrebbe preso Madrid, mettendo sostanzialmente la parola fine alla guerra civile spagnola. Con un misto di eccitazione, paura e fede – gli stessi sentimenti che lo avevano accompagnato in tutte le sue battaglie – El Caudillo fa il suo ingresso sugli spalti. Poco meno di 80mila gli spettatori presenti, circa 600 i giornalisti venuti da tutto il mondo. Il generale sa benissimo di aver puntato tutto su questa partita. Facendola diventare molto più che una finale di un Europeo di calcio si è assunto un grande rischio, che potrebbe costargli caro. In campo infatti si affrontano due mondi: la Spagna filofascista, conservatrice e ultracattolica e l’Unione Sovietica, comunista, proletaria e atea.
Al momento del suo ingresso in campo, Lev Ivanovič Jašin sa di avere di fronte a se la sua più grande sfida mai affrontata. Per la prima volta su un campo di calcio quest’uomo di 189 centimetri per 90 chili sente il peso della responsabilità che gli grava sulle spalle. Mentre percorre il tunnel, che lo porterà sulla stessa erba calpestata da Ferenc Puskás e Alfredo Di Stéfano, i suoi pensieri si riavvolgono nel tempo. Torna alla periferia di Mosca, a quel ragazzo costretto a lavorare in fabbrica a quattordici anni perché, i grandi, erano impegnati al fronte a combattere il Terzo Reich. Poteva essere uno come tanti lui, figlio di operai ed egli stesso operaio; tuttavia certe qualità non possono restare per sempre nascoste, neanche nella fredda Tušino. Il bisogno di mettersi alla prova e la passione per lo sport lo portano ad entrare nella Dinamo Mosca, il club dell’esercito sovietico. Lì non praticò soltanto il calcio ma anche hockey, boxe, tuffi, scherma, pallanuoto. Eppure saranno le sue qualità da portiere, gli straordinari riflessi e la capacità di trovare sempre il giusto piazzamento per neutralizzare i tiri avversari che lo renderanno grande. Un pallone d’oro conquistato appena un anno prima di quella partita, il primo consegnato ad un portiere. Il “ragno nero” fa il suo ingresso in campo e alza lo sguardo: il calcio qui era vissuto diversamente che in Russia (e questo lo sapeva bene) ma nulla avrebbe potuto prepararlo ad un simile spettacolo. Chiude gli occhi e ascolta l’inno nazionale, ma sente soprattutto un’altra cosa. In quella terra così ideologicamente agli antipodi, che solo quattro anni prima si era rifiutata di giocare una partita che li opponeva ai quarti di finale, Jašin sente rispettosi applausi, che sorprendono lo stesso Franco. Ma non c’è tempo per pensare al significato di un tale gesto in quel momento: la partita sta per iniziare.
Il clima afoso, la massiccia propaganda di Franco o chissà quali altri misteriosi motivi sembrano incanalare subito la partita nei binari della Spagna. Bastano pochi minuti per notare quanto i sovietici appaiano fuori condizione. E ne bastano sei alla Spagna per esemplificare questo concetto: Suárez lascia partire un cross che solo lui su quel terreno avrebbe potuto fare. La palla scavalca il povero Mudrik e trova Pereda, che da pochi metri non lascia scampo all’incolpevole Jašin. L’ago della bilancia sembra già pendere inevitabilmente da una parte, ma i sovietici reagiscono e due minuti dopo trovano il pareggio con Khusainov. La partita poi non riserva altri colpi di scena: troppa era la pressione sulle due squadre perché ne venisse fuori una partita spumeggiante e dalle tante occasioni. Nonostante la non invidiabile condizione atletica dei russi, la Spagna non riesce a dare il colpo di grazia. Non era chiaro se fosse questa la precisa intenzione dell’allenatore sovietico, ma sembrava che Beskov cercasse in tutti i modi di arrivare ai supplementari sul punteggio di 1-1. È vero infatti che i russi stavano subendo il caldo decisamente di più rispetto agli spagnoli, ma la fatica, universale, prima o poi avrebbe colpito anche i pericolosi delanteros avversari. A quel punto l’URSS avrebbe potuto giocarsi la sua chance.
Non lo sapremo mai: al minuto 85 un altro magnifico cross dalla fascia destra (stavolta di Pereda) centra la testa di Marcelino, che in area di rigore non sbaglia e regala il definitivo vantaggio alla Spagna. Anche stavolta, Jašin non può nulla. Troppo grande il divario tecnico, troppo diverse le motivazioni degli spagnoli, per i quali questa partita aveva assunto un valore non solo politico ma addirittura spirituale. Il continuo compenetrarsi di queste due dimensioni in Spagna era sempre esistito (basti pensare ai celebri Re Cattolici di Spagna, paladina della cristianità), ma con la dittatura di Franco si era fatto ancor più stretto. Quel match finirà 2-1 per la Spagna, e verrà utilizzato a fini propagandistici per celebrare la superiorità politica della Falange anche in campo internazionale. Perché, la storia ce lo insegna, le vittorie sportive sono molto spesso anche e soprattutto vittorie politiche. Tuttavia la storia stessa non ha occhi per gli avvenimenti a prima vista più insignificanti, e quell’applauso rivolto ai nemici, davanti a Franco in persona, è forse il significato più profondo di unità tra popoli europei che questo torneo ci ha lasciato in eredità.