Il giornalista del Sole 24 Ore analizza con precisione chirurgica gli ultimi trent'anni del calcio nostrano, segnato da ogni tipo di scandalo, partendo dallo scempio di Italia '90 fino ad arrivare all'esclusione di Russia 2018. Contrasti recensisce l'ultima fatica di Bellinazzo.
Maurizio de Giovanni lo ha definito un thriller, ma a ben vedere anche la veste del noir non gli sta affatto male. Un thriller termina sempre o quasi sempre con la scoperta dell’assassino, lasciando nel lettore l’illusione del sollievo: il criminale è stato catturato, il mondo è un posto migliore. Mentre nel racconto noir l’obiettivo dello scrittore non è narrare un conflitto tra guardie e ladri quanto piuttosto approfondire uno spaccato negativo della società nell’intento di sensibilizzare il fruitore dell’opera su un determinato tema. La fine del calcio italiano, ultimo libro diMarco Bellinazzo, si tiene infatti alla larga da esiti consolatori. E del resto non potrebbe essere altrimenti. Non solo. In un certo qual modo offusca i primi ricordi calcistici che per molti di noi coincidono con i Mondiali del 1990, inscenando una sorta di sfida tra la verità e la nostalgia con la seconda che si scopre improvvisamente vulnerabile.
L’indagine del giornalista si è resa necessaria dalla mancata qualificazione dell’Italia a Russia 2018 e ha come punto di partenza proprio la kermesse iridata che ospitammo 28 anni fa: a nostra insaputa durante le Notti Magiche ci stavamo innamorando di un qualcosa che stava già morendo. Con una precisione quasi maniacale, Bellinazzo ricostruisce le ultime tre decadi che hanno affossato il calcio nostrano, che, bisogna dirlo, ha spiccato per coerenza. Durante questo periodo non ci siamo fatti mancare alcun tipo di scandalo: dal doping a Calciopoli, dai passaporti falsi al calcioscommesse, dai disastri finanziari alla violenza negli stadi fino ad arrivare al ‘business’ delle plusvalenze fittizie.
E spesso e volentieri sono stati i risultati sportivi – su tutti il Mondiale del 2006 – a favorire la cosiddetta “arte del rinvio”. Ma era solo una questione di tempo. Il fallimentare doppio confronto con la Svezia culminato nell’esclusione degli azzurri dai Mondiali dopo 60 anni ha rappresentato la logica conseguenza di un sistema uso a fagocitare se stesso. Venuto meno il contrappeso del campo, il fiume dei problemi ha esondato con una portata d’acqua senza pari. E dire che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta eravamo i migliori. La Serie A era il campionato più appetibile del mondo con le nostre squadre a dettare legge in Europa, e, al tempo stesso, l’Italia rappresentava la quinta potenza industriale del pianeta: referenze più che sufficienti per ottenere l’assegnazione, nel 1984, dei Mondiali del 1990.
Ma il giocattolo non abbiamo saputo governarlo. Accecati dalla prospettiva di speculare su ogni cosa non appena se ne ha l’occasione (qui un’analisi approfondita dello scempio), abbiamo sperperato gran parte dei mattoncini della Lego giunti a frotte nelle nostre mani, e con i pochi rimasti abbiamo realizzato strutture obsolete coerenti con la nostra mentalità. E le cose sono persino peggiorate con l’avvento della commerciabilità dei diritti tv. Anziché cogliere l’opportunità di sfruttare in maniera imprenditoriale i flussi di denaro che di anno in anno si sono riversati sulla Serie A, non abbiamo fatto altro che indebitarci fino al collasso. Tutti quei soldi ci hanno illuso di essere onnipotenti anche grazie alla (spesso finta) protezione degli istituti di credito. Ma l’obbligo di vincere a tutti i costi e subito, da un lato, e la totale mancanza di visione, dall’altro, ci sono stati fatali.
Già, la mancanza di visione. Questo è forse l’aspetto che emerge in maniera più drammatica dal libro di Bellinazzo. Chi ha governato il pallone – a tutti i livelli – ha pensato solo ed esclusivamente al proprio tornaconto, attuando una sorta di ‘politica’ di prossimità deviata. Peraltro un tornaconto finalizzato al presente. Perché si potrebbe persino sostenere, ricorrendo a un perverso paradosso, che non siamo stati in grado nemmeno di rubare, non riuscendo a cogliere le infinite possibilità insite nel business del pallone. Ci siamo accontentati anche nel campo del malaffare.
E mentre eravamo intenti ad esprimere il nostro proverbiale pressappochismo continuando a millantare un’anacronistica primazia, negli altri paesi si sono dati da fare. E ci hanno superato. Sotto tutti i punti di vista, tanto sportivi quanto imprenditoriali. Ma, attenzione, non perché in Inghilterra, Spagna o Germania ci siano dirigenti benefattori. Tutt’altro. Sono egoisti quanto e più di noi; anche loro mirano al proprio tornaconto. Ma con una piccola differenza: hanno saputo orientare – soprattutto gli inglesi – le loro energie sul prodotto calcio complessivamente considerato.
A differenza nostra hanno compreso che solo facendo crescere un movimento – ad esempio attraverso una più equa ripartizione dei diritti tv, la costruzione di stadi di qualità e una reale valorizzazione del settore giovanile – è garantito ai club un fatturato più alto: pensare in generale per migliorare nel particolare. Ciò traducendosi in una maggiore competitività media che non solo finisce col rafforzare le rispettive nazionali – i successi mondiali di Spagna, Germania e Francia non sono certo casuali -, ma rende più appetibile il prodotto all’estero in sede di cessione dei diritti tv. Il confronto con le altre realtà europee suona dunque impietoso, e le cifre riportate con precisione chirurgica da Bellinazzo non consentono di prospettare una riduzione del gap nel breve periodo. Anzi. Il fatto che in Italia soltanto la Juventus sia al passo coi tempi – i cui ricavi sono però circa di 200 milioni inferiori a quello dei top club europei -, potrebbe persino peggiorare le cose, affossando definitivamente la concorrenza, di fatto impoverendo ulteriormente il nostro calcio. Insomma, anche l’arrivo di Cristiano Ronaldo, che sicuramente sulle prime aumenterà la curiosità generale, da solo non è sufficiente a salvare la Serie A. Tanto più che i diritti tv sono stati già negoziati per i prossimi tre anni.
Certo, la lettura de La fine del calcio italiano è angosciante e claustrofobica, e anche le soluzioni proposte da Bellinazzo nelle ultime pagine, benché illuminanti, sembrano una sorta di grido d’aiuto destinato a restare inascoltato. Il lettore, che arriva alla fine ormai maturo e consapevole di tutto il marcio pregresso, vede ridimensionata la sua propensione all’ottimismo. Tuttavia la speranza che un domani il calcio italiano possa riaversi è alimentata da una piccola grande certezza: che è ancora possibile fare del giornalismo d’inchiesta.