Paolo Stradaioli
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Le classiche vanno interpretate. La Freccia Vallone ha dimostrato tutto il suo potenziale con un percorso diverso, più incerto, più sconnesso, terreno fertile per qualche attacco da lontano. Lo ha capito Vincenzo Nibali, dotato di una gamba eccezionale in questa prima parte di stagione che non manca mai di mostrare alla concorrenza. Il muro di Huy non è roba per lui, meglio partire prima, provare a far saltare il banco e ci è mancato poco che riuscisse nell’ennesima impresa di un 2018 che si presume possa regalargli ancora diverse soddisfazioni.
Le classiche vanno onorate. Lo sanno benissimo Anthony Roux e Cesare Benedetti, protagonisti della fuga iniziale ma restii ad abbandonare la testa della corsa quando nomi più importanti la reclamavano. Il gregariato del ciclismo è la più alta forma di nobiltà sportiva, non solo perché quando c’è da far fatica non ci si oppone, nonostante quel lavoro vada a beneficio di altri, ma anche perché quando l’occasione lo permette anche il meno appariscente dei gregari può prendersi il centro del palcoscenico e aggrapparvisi con le unghie, memore che i treni giusti arrivano e lasciarli scappare sarebbe un peccato. Ci hanno provato, non ce l’hanno fatta, sarà per la prossima volta, c’è sempre una prossima volta in questi casi.
Le classiche vanno gestite. La Freccia Vallone più di tutte. Sarà perché cade sempre pochi giorni prima della Liegi, sarà perché è, sulla carta, la più “facile” del trittico delle Ardenne, alla Freccia Vallone distrarsi non è contemplato. Andare nel panico non è contemplato. Quando Nibali e altri cinque corridori, tra i quali discreti grimpeur come Kangert e Haig, hanno accumulato un vantaggio anche di 50’’, non c’è stato isterismo all’interno del gruppo. Valverde, Alaphilippe, Wellens: i favoriti sono rimasti al coperto, la strada prima o poi presenta il conto, e nell’eterna sfida del “pochi contro molti” di solito sono i molti a prevalere. Un po’ metafora della vita, un po’ no.
Le classiche sono meravigliose. La Freccia Vallone lo è. Non sarà la Liegi, né la Sanremo, né la Roubaix, però 1000 metri (o giù di lì) al 9,8% di pendenza media con punte del 26% rimangono uno spettacolo paragonabile a quelli offerti dalle corse sopracitate. Il Muro di Huy è uno di quegli strappi capaci di tramortire qualsiasi scalatore di livello. Per questo Valverde ha vinto la Freccia quattro volte di fila (cinque in totale): non basta essere esplosivi, non basta essere resistenti, non basta mischiare le due cose, bisogna essere perfetti, di quella perfezione sgraziata che solo cantanti e sportivi possono vantare. Valverde l’aveva messa nel mirino anche stavolta, ma la corsa ha detto altro, eppure stava per ritornare dal suo prescelto, nonostante un imbocco della salita problematico la caparbietà dello spagnolo andrebbe studiata in laboratorio, dove forse si riuscirebbe a capire come ha fatto a chiudere secondo con una rimonta insensata negli ultimi metri.
Roba più da fantascienza che da storia, ma alla fine le classiche vanno vinte, perché la Freccia Vallone se non è il punto d’arrivo per un corridore, risulta comunque una delle corse da un giorno più blasonate del panorama ciclistico mondiale. Ad Alaphilippe mancava un successo di livello per confermare tutto il talento mostrato in questi anni, un talento in cui evidentemente nemmeno lui riponeva troppa fiducia. Arrivato sul Muro di Huy china la testa, conosce già l’esito, pensa che Nibali stia festeggiando e che a lui tocchi un’altra piazza d’onore. Il ciclismo può fare certi scherzi: lo Squalo era già stato ripreso da un pezzo, la Freccia e la gloria sono del francese, le classiche sono anche questo.
Immagine copertina: Iri Greco / BrakeThrough Media | brakethroughmedia.com