Quattro finali di Coppa Intercontinentale, dal '67 al '70, passate alla storia per un particolare tratto distintivo che le accomuna: la violenza.
Lontano dai soldi degli sponsor e dai riflettori televisivi dei nostri tempi, c’è stata un’epoca nella quale la sfida per designare la squadra di club più forte del pianeta si era trasformata in una rissa di strada. Nella seconda metà dei Sessanta la Coppa Intercontinentale – il trofeo conteso tra la formazione campione d’Europa e i campioni dell’America Latina – è nata da pochi anni ed è già un grande successo. Si gioca su partite di andata e ritorno, di solito in autunno e in casa delle due pretendenti, con eventuale bella. Ma è una competizione figlia di nessuno. Fortemente voluta da Santiago Bernabeu, patron del Real Madrid, non è riconosciuta dalla FIFA perché non può controllarla. La Coppa Intercontinentale è quindi una competizione non ufficiale, senza regole precise (spesso modificate anno per anno) e priva di contatti con il resto della stagione regolare. Tutto ciò non aiuta il fair play. Nel contempo, gli animi sono infiammati anche dal clima di tensione instauratosi fra europee e sudamericane durante gli ultimi due Mondiali. Nel torneo del ’62, Jugoslavia e Uruguay se le danno di santa ragione per tutto l’incontro; Argentina e Bulgaria accumulano la bellezza di sessantanove falli in novanta minuti. Il Cile padrone di casa accoglie l’Italia in uno stadio stracolmo di tifosi, ostilità e rabbia: le scorrettezze si sprecano – è la battaglia di Santiago. Nei quarti di finale, i cileni sfruttano ancora un misto di aggressività e tolleranza arbitrale ed eliminano l’URSS. Così gli europei prendono le loro rivincite, con gli interessi, quattro anni dopo nel corso del Mondiale inglese. Durante la fase a gironi, il Brasile esce dalla competizione subendo le durezze di Bulgaria e Portogallo. La nazionale uruguaiana conclude in nove la sfida dei quarti contro la Germania Ovest, e al termine dell’incontro un loro giocatore rincorre e colpisce l’arbitro. L’altro quarto tra Inghilterra e Argentina vede gli europei imporsi per uno a zero. Il capitano argentino Rattin è espulso ma rifiuta di uscire dal terreno di gioco, mentre i suoi compagni schiumano di rabbia. Devono accompagnarlo fuori le forze dell’ordine. Ramsey, ct inglese, definirà pubblicamente gli argentini come animali, un epiteto che vent’anni dopo toccherà agli stessi inglesi, sempre in ambito calcistico. Sic gloria transit mundi.
1967
Con queste incoraggianti premesse il 18 ottobre 1967, all’Hampden Park di Glasgow, si disputa la finale di andata della Coppa fra il Celtic e gli argentini del Racing. Il gioco falloso e le provocazioni non mancano, anche se è solo un antipasto. Guardando le immagini dell’incontro si può ammirare un intervento killer, una sorta di doppio tackle volante, sul numero sette del Celtic. Uno degli scozzesi prende una testata da un avversario. Nella ripresa Mc Neill fissa il definitivo uno a zero a favore degli europei, i quali festeggiano la rete urlando in faccia agli argentini frasi con ogni probabilità poco gradevoli. Ma almeno questa l’abbiamo portata a casa senza troppi danni. L’incontro di ritorno è in programma il primo novembre all’Estadio Peron di Avellaneda, detto El Cilindro, un enorme catino per centomila tifosi festanti ed esagitati. All’ingresso nello stadio, gli scozzesi ricevono il benvenuto: sono bersagliati da sputi e Simspon, il portiere, è colpito alla testa da un oggetto non identificato, forse una pietra o una bottiglia. Si dice sia stato lanciato da una specie di catapulta, addirittura dal campo e non dagli spalti – le leggende si sprecano, ma in ogni caso Simpson non può disputare l’incontro (e neanche la successiva bella). In campo, il Celtic riesce a procurasi un calcio di rigore. Pare che il tiratore, Gemmell, nel corso dell’esecuzione sia disturbato dai fotografi schierati a fianco della porta; il portiere poi, fa un balzo in avanti di almeno tre metri. Tutto invano, il Celtic passa in vantaggio. Sull’uno a zero viene annullato un gol a Johnstone e il Racing pareggia con Raffo. La squadra di casa cresce, gli europei sono intimiditi e innervositi dall’ambiente, e nel secondo tempo Cardenas mette in rete il due a uno.
Sin dal termine dell’incontro, negli spogliatoi del Cilindro – per altro invasi da tifosi argentini – lo staff del Celtic discute se accettare o meno di giocare lo spareggio. Il presidente Kelly spinge per tornare a Glasgow, in quanto giudica il clima che circonda la partita, e l’aggressività degli avversari, ingestibili. Jock Stein, l’allenatore, vuole restare. Mostra sportività, ma i suoi giocatori non reggono più la tensione: scenderanno in campo demotivati, irritati e paurosamente inclini a provocare la violenza. La terza partita tra Racing Club e Celtic Glasgow si gioca all’Estadio Centenario di Montevideo il 4 novembre 1967. È senza alcun dubbio uno degli incontri di calcio, ad alto livello, più violenti di sempre: si contano sei espulsi, scorrettezze di ogni tipo, risse continue. Il grado successivo nei rapporti umani è direttamente lo scontro armato e passerà quindi alla storia come la battaglia di Montevideo. Il primo tempo scorre relativamente quieto sino al trentacinquesimo, momento in cui la sfida degenera in modo improvviso e definitivo. Rulli entra duro su Johnstone. Poi si allontana velocemente dal luogo del misfatto, inseguito da Clark in cerca di vendetta. Scoppiano tafferugli. L’arbitro perde il controllo della gara ed espelle Lennox e Basile, probabilmente a caso. La polizia entra in campo, pare venga anche sguainata una spada, e i calciatori espulsi sono accompagnati fuori dal campo dagli agenti come criminali. Inizia la ripresa. Dopo pochi minuti Johnstone viene espulso per una gomitata in faccia a un avversario. Il portiere del Racing Cejas riceve una moneta in testa, ma rimane in campo. Al ventesimo il rosso è sventolato a un altro scozzese, Hughes (nel frattempo il Racing ha segnato): Cejas ha la palla in mano e sta per rilanciare l’azione, Hughes si avvicina e gli tira un pugno allo stomaco; Cejas cade, ma una volta a terra il giocatore del Celtic, non soddisfatto, lo prende pure a calci. Nient’altro? Poi è l’argentino Rulli a ricevere un rosso. E ancora, Auld mette la mani addosso a un avversario con la palla distante. L’arbitro lo espelle ma lo scozzese rifiuta di lasciare il campo – e infatti ci rimane sino alla fine.
Scoppia una nuova rissa e la polizia ritorna sul prato verde. Nella confusione, Gemmell affibbia un calcio nelle parti basse a un povero giocatore argentino. E tutto questo per narrare solo gli episodi principali. Volendo provare a inserire un po’ di calcio nel racconto, si può dire che il Racing giochi meglio e giustifichi la conquista del titolo. I giocatori argentini festeggiano – gli uruguaiani sugli spalti, infuriati, tirano loro addosso quel che trovano. Dirà Stein: “Non porterei di nuovo una squadra in Sudamerica per tutto l’oro del mondo”. Identiche parole potrebbero pronunciarle i latinoamericani, se interrogati in merito alla voglia di ospitare ancora la formazione scozzese. Però. Alla fine, dopo quanto è accaduto, si scorgono alcuni giocatori delle due squadre che si salutano, si scambiano le magliette, si abbracciano. Sembra incredibile, ma accade. Perfumo, difensore del Racing, vede avvicinarsi Mc Neill: “Disse che voleva scambiare la sua maglietta con la mia. In quel momento non riuscii a trattenere le lacrime… Pensavo a come dovesse essere triste… Il viso di Mc Neill non mostrava emozioni, mi sembrò quasi di scorgervi un sorriso. Tutte le brutte cose che noi e loro avevamo fatto durante la partita sembravano dimenticate. Mi tolsi la maglietta – un modo per nascondere le lacrime – e lo scambio fu fatto. Lo abbracciai e gli dissi, in spagnolo ‘Questo è come il calcio dovrebbe essere’. Mc Neill sorrise, e in perfetto spagnolo disse ‘Buena suerte. Buena suerte’”. Non tutto è perduto.
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1968
È il 1968. Mentre il mondo è scosso da tumulti vari, a livello calcistico fa il suo ingresso sulla scena mondiale l’Estudiantes di La Plata. La squadra argentina è una compagine di indubbio valore, condotta da un ottimo tecnico quale è Osvaldo Zubeldia, ma rimane famosa per le scorrettezze – vere o presunte – e le violenze che dissemina sul suo cammino. In finale affronta il Manchester United nel quale militano Stiles e Charlton, reduci del quarto di finale mondiale tra Inghilterra e Argentina di due anni prima – e gli argentini non hanno un bel ricordo di quell’incontro. Nei giorni che precedono la partita di andata, in programma allo Stadio La Bombonera di Buenos Aires, i giornali locali accusano platealmente Stiles di slealtà e gioco violento. Il 25 settembre è il giorno dell’incontro, l’ambiente è teso e ci sono circa duemila poliziotti allo stadio. L’Estudiantes imposta una partita offensiva e vince per uno a zero grazie al gol di Corigliano. Ma non mancano gli episodi di contorno. Stiles, il rude ed efficace centrocampista inglese, soffre il clima creato attorno al suo nome ed è preso di mira dagli avversari. Riceve diversi colpi, pure una testata, e sostiene di vedere doppio per tutto l’incontro. Al minuto settantanove è proprio Stiles, però, a dover lasciare il campo, espulso per aver mandato a quel paese un guardalinee. Le tre stelle in forza allo United escono dall’incontro malconce: a Law strappano dei capelli, Best prende un pugno nello stomaco, Charlton invece rimedia dei punti di sutura, su una gamba. A un certo punto, Bilardo tira un calcio a Best; l’attaccante nord-irlandese raccoglie platealmente il pallone con le mani e lo porta al suo avversario, quasi a dirgli “Tieni la palla e va’ a cagare“. Come da ragazzini ai giardinetti. Dirà Best “Mi sono disinteressato di almeno la metà dei palloni, preoccupandomi invece soltanto di restare fuori dalla mischia. Non saremmo mai dovuti venire qui, è stato ridicolo”.
All’ingresso in campo all’Old Trafford, il 16 ottobre, i tifosi urlano “Animals!” verso i giocatori argentini. Per la prima volta nella sfida per la Coppa Intercontinentale si conteranno i gol. Pertanto al Manchester United serve una vittoria con due gol di differenza per vincere il trofeo; in caso di affermazione con un gol di scarto, partita di spareggio. Ma non ce ne sarà bisogno. Già al settimo del primo tempo l’Estudiantes va in vantaggio con Veron e pone la gara in salita per gli inglesi. Poi iniziano le botte, as usual. C’è un fallo di Medina su Kidd, il quale viene nuovamente colpito quando è già a terra. Best rincorre l’argentino per il campo. Law è ferito dopo uno scontro con Poletti e deve essere sostituito. Sul finire dell’incontro Best e Medina regolano i propri conti prendendosi a pugni. Sono espulsi, ma cercano di darsele anche all’uscita dal campo. Un guardalinee spintona fuori Medina e sull’argentino piove di tutto. Gli europei segnano a un minuto dal termine, ma il pareggio consegna la Coppa all’Estudiantes – contro ogni pronostico – e i sudamericani celebrano il titolo sul terreno di gioco, bersagliati dalle monetine dei tifosi avversari. Alla fine c’è un giocatore dello United, forse il portiere, che corre verso gli spogliatoi. Incrocia un avversario proprio in mezzo al campo, rallenta, gli affibbia una sberla dritto in faccia, poi prosegue. Evidentemente non l’ha presa bene.
1969
Un altro anno e un’altra Coppa Intercontinentale. Nel ’69 la squadra campione d’Europa è il Milan di Rocco; ad aspettarli ci sono di nuovo i terribili pincharratas (seziona-topi, è il nomignolo che li distingue poiché la società fu fondata da studenti di medicina) dell’Estudiantes. I rossoneri mettono le mani sulla Coppa già all’andata, grazie al perentorio tre a zero ottenuto a San Siro. Ma nella gara di ritorno, la loro principale occupazione non sarà quella di difendere il risultato…
La partita che il Guardian definirà come “il vertice di tutto ciò che c’è di male nel calcio internazionale fra club” si gioca il 22 ottobre, alla Bombonera di Baires. Non appena i calciatori del Milan mettono la testa fuori dagli spogliatoi, ricevono addosso schizzi di caffè bollente lanciato dagli spalti; poi, mentre posano per la foto di rito, vengono presi allegramente a pallate dai calciatori avversari. Al fischio di inizio scatta una sorta di caccia all’uomo, esacerbata dal repentino vantaggio degli italiani marcato da Rivera in contropiede. “La partita è stata tutta così, quando avevi il pallone arrivava qualcuno e ti spaccava”, sono le parole di Lodetti, tanto che il giorno dopo il Corriere dello Sport aprirà a tutta pagina con questo titolo: “Belve!”. Prati, falciato da un avversario, è costretto a lasciare il campo già nella prima frazione, e mentre è a terra il portiere argentino Poletti gli molla un calcio sulla schiena. Particolarmente imbufalito, Poletti colpisce anche Rivera e si azzuffa con i propri tifosi a fine gara. L’Estudiantes chiude l’incontro in nove – Manera è espulso per un fallo su Rivera, a palla lontana e completamente insensato – e ottiene un’inutile vittoria per due a uno. Al termine si assiste al consueto misto di saluti e zuffe, mentre i rossoneri abbandonano il campo alla chetichella.
Chi riceve il trattamento peggiore è Nestor Combin, l’attaccante del Milan francese di passaporto ma argentino di nascita. Ha lasciato il suo paese di origine senza aver svolto il servizio militare e per tale ragione alcuni lo considerano un disertore. Nella ripresa Aguirre Suarez gli molla un fendente al viso, spaccandogli naso e zigomo. Poi, a fine partita, la polizia si presenta negli spogliatoi e porta via Combin, pare con l’intento di arruolarlo nell’esercito. La squadra rossonera rifiuta di partire, interviene la diplomazia e dopo alcune ore il giocatore è rilasciato. Le foto di Combin ridotto a una maschera di sangue fanno però il giro del mondo. L’indignazione monta anche in Argentina, dove la giunta militare al governo spinge la federazione calcistica ad agire, si dice al fine di preservare l’assegnazione dei Mondiali ’78 (che infatti si giocheranno, nonostante a poca distanza dagli stadi accada ben di peggio). Vengono comminate pesanti squalifiche ai danni di Aguirre Suarez, Manera e Poletti, responsabili delle peggiori nefandezze, ma non è sufficiente. Le autorità la buttano anche sul penale e i tre subiscono la condanna a trascorre un mese in carcere.
1970
La forza (calcistica) dell’Estudiantes è indubbia, la squadra di La Plata colleziona una terza Libertadores e conquista ancora una volta il diritto di giocarsi la Coppa Intercontinentale, nel 1970, contro il Feyenoord. Memori dei trascorsi disastri, nonché del concreto rischio di far visita alle patrie galere, gli argentini accolgono gli avversari olandesi con un’amichevole festa al loro arrivo in aeroporto. In campo però la musica non cambia: Happel, tecnico del Feyenoord, descrive i giocatori dell’Estudiantes come dei veri e propri gangster spaccagambe. Il Feyenoord impatta la partita di andata dopo aver recuperato un doppio svantaggio, e vince il trofeo imponendosi per uno a zero a Rotterdam, al termine di una partita intensa. Il gol della vittoria è realizzato da van Daele, difensore olandese che indossa gli occhiali; mentre festeggia la rete, Malbernat dell’Estudiantes gli strappa gli occhiali e li passa a Pachame, che vi cammina sopra. Malbernat commenta così il gesto: “In Argentina il regolamento non consente di usarli in campo…”. Benché la finale del ’70 sia la meno cruenta della serie, la Coppa è ormai sull’orlo del baratro e dell’oblio. Nel decennio seguente, in cinque occasioni la squadra campione d’Europa rinuncia a giocare la sfida e viene sostituita dalla finalista. Nel ’75 e nel ’78 addirittura l’incontro non si disputa. La Coppa Intercontinentale è salvata nel 1980 dai giapponesi, i quali organizzano l’incontro in data unica a Tokyo e rinominano il trofeo Toyota Cup.
Ben inteso, escludendo dal discorso ogni idealizzazione della violenza e stigmatizzando gli episodi più sporchi e vergognosi, si può dire però che la vicenda raccontata abbia anche un lato romantico. È il fascino di un calcio delle periferie metropolitane – a Buenos Aires come a Manchester o Milano -, di giovani magari appena sradicati dalle campagne pronti a sfogare nel gioco rabbia e frustrazione, ma assieme mostrare passione e ardore. Un calcio nel quale era possibile passare direttamente dai cortili polverosi agli stadi affollati, quasi senza soluzione di continuità. Queste quattro finali di Coppa Intercontinentale, viste a decenni di distanza, rappresentano quindi il tramonto di un’epoca: un ultimo bagliore di un mondo passato, prima che le coppe con il nome di automobili prendessero il definitivo sopravvento.
Quarto caffè al Bar Sport, offre Allegri. La Serie A è un campionato serio. Rectius: è tornato alla serietà. Sì, perché in Europa paiono essersi allineati i pianeti.
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