Le mafie nel calcio sono entrate dal fischio d’inizio, e non subentrate a partita iniziata.
La crisi che da anni caratterizza il calcio italiano sembra aver raggiunto l’apice poche settimane fa, con la dolorosa sconfitta della nazionale azzurra per mano svedese. Esattamente da quella storica serata il vaso di pandora del calcio venne aperto. Nella mitologia greca, il poeta Esiodo racconta di come Zeus offrì in dono a Pandora un vaso, raccomandandole però di non aprirlo. Pandora, che aveva ricevuto dal dio Ermes il dono della curiosità, non esitò però a scoperchiarlo, liberando così tutti i mali del mondo.
Nella cultura di massa lo scoperchiare un vaso di pandora allude quindi all’improvviso sorgere di un problema o una serie di problemi di cui per molto tempo si è ignorata l’esistenza, ma che da quel momento non sono più trascurabili. Pressoché questo è accaduto in Italia i giorni successivi a quella fatidica partita, generando in tutti gli sportivi – giornalisti ed opinionisti – un buonismo smielato e rinnovatore che non ha precedenti. Tutti in fila sul carro dei rinnovatori, con proposte e pareri lanciati il più delle volte a sproposito.
Per pensare di stendere un velo pietoso e ricominciare da zero, tuttavia, è bene analizzare alcuni aspetti che hanno caratterizzato il passato e continuano a caratterizzare il presente. Troppo è il tempo perso dietro a sbiaditi luoghi comuni legati al calcio, un insieme di cliché senza tempo che lo colorano di sogni e speranze proiettandone un’immagine sterile e distorta, colpevole di non rendere “giustizia” alla derivaeconomico-finanziariae soprattutto etica di cui l’intero mondo del pallone si sta indelebilmente macchiando. Perché la tendenza al giorno d’oggi è quella di dimenticare, cercando di far cadere nell’ombra alcune vicende che già in passato hanno negativamente caratterizzato questa mega-macchina da soldi, e che ci dimostrano la fragilità di un sistema che non intende invertire rotta nel presente.
Insomma, come si può pensare di costruire un solido palazzo se le fondamenta son fatte di sabbia? La debolezza del nostro sistema calcio lo rende un porto franco per gigantesche operazioni economiche, che spesso non risultano chiare in primis agli occhi degli inquirenti. In tal senso la mancanza di importanti quadri giuridici di riferimento permette di sfruttare regolamentazioni e norme, talvolta generiche e standardizzate, in maniera spesso illecita, garantendo quindi un facile percorso ad attività di riciclaggio e di copertura. E tutti abbiamo visto come gli enormi flussi economici nel calcio – generati dal trasferimento di giocatori, dai diritti televisivi, dal merchandising, dalle sponsorizzazioni etc – seguano molto spesso vie, per usare un eufemismo, poco trasparenti.
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Sarebbe un grave errore credere che la sgargiante presenza della criminalità e delle mafie nel calcio sia esclusivamente databile al recente passato, alle ultime vicende legate al calcio scommesse, al clan degli zingari, ai vari filoni d’indagine ed alle condanne per associazione a delinquere di molti soggetti fluttuanti attorno a quest’orbita grigia. La realtà è ben diversa: le mafie nel calcio sono entrate dal fischio d’inizio e non subentrate a partita iniziata. Hanno modificato obiettivi e costumi, ma sono sempre lì. Il pericolo più importante contro cui il calcio si è misurato è quello di cadere nella cosiddetta zona grigia, che caratterizza già il rapporto tra politica, mafia ed imprenditoriae che, inevitabilmente, penetra ogni tessuto sociale alla ricerca di profitto.
Se nel secolo scorso il fattore che guidava le mafie ad avere un ruolo, primario o secondario, all’interno del calcio era prettamente di carattere visivo – e quindi legato a logiche di consenso in una determinata comunità – nei nostri giorni la situazione è di gran lunga cambiata, e il fattore economico diventa primario. Le mafie, malgrado continuino ad aver bisogno di un certo consenso sociale, d’altra parte intravedono nella permeabilità del calcio un settore remunerativo in cui investire i propri introiti illeciti, avvalendosi di una maggiore libertà d’azione e incorrendo in minori rischi legali.
“La criminalità organizzata sa che non c’è strumento migliore del calcio per costruirsi un legame duraturo con la popolazione e l’ambiente. Se il grande imprenditore alla Berlusconi, alla Cragnotti, alla Tanzi, decide di investire nella proprietà di una squadra di football (…) è perché si aspetta ritorni di altro tipo: pubblicità, opportunità di mercato, nuovi rapporti. Il fine che muove le mafie è esattamente lo stesso”. (Raffaele Cantone, ex sostituto procuratore DDA Napoli)
CALCIO, CONSENSO ED INTERESSI
La possibilità di infiltrazione nell’economia legale, l’opportunità di entrare in alti circuiti sociali, la maestria nel tessere rapporti politici sono caratteristiche che hanno permesso alle mafie di effettuare quel salto di qualità necessario per svestire una pelle arcaica ed entrare in abiti più moderni. Il consenso e la legittimazione hanno sempre rivestito un ruolo cruciale nei fenomeni di ascesa economica e criminale, ed il calcio ha rappresentato in ciò un elemento chiave, in maniera particolare nei contesti minori e più concentrati. Potremmo definire quindi usuale l’interesse delle organizzazioni criminali verso l’economia calcistica, sia per quanto riguarda quello che viene indicato come l’intervento diretto nel gioco (per esempio nel caso dell’acquisizione di squadre di calcio), sia per quel che riguarda unintervento indiretto nel gioco, come il business del calcio scommesse. Possedere una squadra di calcio, soprattutto a determinati livelli, permette non solo di avere numerosi sbocchi economici ma rappresenta anche –ed è stato più volte provato –una legittimazione del potere da parte della popolazione, l’apertura ad un inevitabile dialogo con diversi apparati pubblici, l’ingresso in circuiti economici importanti. In alcune realtà, le squadre sono così radicate all’interno del tessuto economico e sociale da rappresentare la forma più elevata di aggregazione e coalizione cittadina, garantendo al “presidente” una popolarità pari a quella del sindaco.
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Quando invece vi è un intervento indiretto da parte delle mafie nel calcio – come nel caso delle scommesse clandestine e delle cosiddette combine –l’interesse è concentrato prettamente sull’aspetto economico. Sappiamo che verso la fine degli anni novanta lo Stato decise di aprire e regolamentare il settore dell’offerta legale delle scommesse (fino ad allora limitato al totogol e all’ippica) con l’obiettivo di limitare il business clandestino gestito dalle mafie, e allo stesso tempo di garantirsi un nuovo introito fiscale. Tuttavia, la criminalità impiegò pochi anni ad inserirsi prepotentemente nel settore, facendo affidamento su sistemi corruttivi ed invasivi che, del resto, erano già presenti ai tempi del totonero anni ottanta. Oggi ad esempio si contano diversi siti di scommesse online in mano alla ‘ndrangheta, e già questo ci potrebbe far sospettare che anche nel calcio giocato vi sia chi partecipa attivamente all’organizzazione a tavolino di partite truccate. Ma ragionando sui fatti, partiamo dalle diverse operazioni perpetuate dalle autorità a riguardo, come Last Beto Dirty soccerper citarne alcune, che hanno coinvolto esponenti di spicco sia del calcio giocato che del mondo criminale. Le nostre inchieste andranno a toccare soprattutto questi temi.
“Dove ci sono lucro, denaro e passione popolare, c’è anche la criminalità organizzata. La creazione di un’ampia “zona grigia” dove diventa difficile, anche per le forze dell’ordine, distinguere ciò che è business mafioso da ciò che non lo è”. (Raffaele Lauro, membro commissione parlamentare antimafia)
Diversi sono i casi da analizzare ma è preoccupante notare innanzitutto come, nonostante la platealità delle indagini di questi anni, tutt’ora vi sia sul tema una scarna attenzione mediatica. E saremo noi di vecchia scuola, ma crediamo fortemente che un giornalismo sportivo serio debba provare a scoperchiare questi vasi di pandora, invece di dibattere per ore sull’ultima foto di Wanda Nara o sull’ultimo hashtag di Balotelli. Forse in molti non vogliono, ma più probabilmente non possono. Tornando a noi, alcuni dei più emblematici casi di rapporti diretti tra mafie e calcio – che saranno brevemente delineati in questo articolo – sono solo la punta dell’iceberg; un’introduzione ad una serie d’inchieste che verranno portate avanti nei prossimi mesi e che proveranno a chiarire un macro-argomento rifuggito dalla narrazione sportiva, con lo scopo, come si dice in questi casi, di sensibilizzare l’opinione pubblica.
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RAFFAELE CUTOLO E L’AVELLINO
In quanto ad organizzazioni criminali, la camorraha un carattere meno unitario e centralizzato delle altremafie e si è spesso distinta per la sua notevole appariscenza. Caratteristiche che le hanno permesso, nel corso della sua lunga e travagliata storia, d’inserirsi in moltissimi campi, dall’edilizia alla gestione dei rifiuti, passando per il gioco d’azzardo e le pesanti infiltrazioni nel sistema calcio. Già negli anni ottanta, come ben sappiamo, il totonero condizionò diversi incontri anche nella massima serie, e sempre a quel periodo risale un plateale caso disolidarietà sportiva, se così possiamo definirlo, che riguardò Avellino (città che nello stesso anno aveva subito le tragiche conseguenze del terremoto che distrusse la bellissima Irpinia). Erano gli anni della riapertura delle frontiere, e l’arrivo del talento sudamericano Juary rappresentò il punto d’inizio d’un cammino in Serie A che per i biancoverdi durerà dieci lunghi anni. L’attaccante non segna tantissimo ma ogni suo gol – nemmeno a farlo apposta – è decisivo per la salvezza dei lupi, che ricorderanno sempre la sua esultanza intorno alla bandierina, attesa dagli sportivi di domenica in domenica su 90° minuto e testimonianza di un calcio spensierato e passionale che oramai è un lontanissimo ricordo.
Sono gli anni dei presidentissimi, imprenditori tifosissimi e talvolta folcloristici; proprio come Sibilla, presidente dell’Avellino e impegnato nel campo dell’edilizia, abile nell’allestire squadre competitive ma molto meno nella dialettica. Il 31 ottobre di quello stesso anno il presidente, in compagnia della stella Juary, percorre la tangenziale verso Napoli e si reca nella vecchia sede del tribunale a Castel Capuano. Qui si celebra un’udienza che vede come imputato di spicco proprio Raffaele Cutolo , o professore, capo della nuova camorra organizzata, in forte ascesa nel panorama criminale e con le mani in pasta nella ricostruzione post terremoto. Sibilla e Juary, entrati in aula ed avvicinatisi alla gabbia preposta per il detenuto, sotto lo sguardo attonito di avvocati e giornalisti, scambiano due chiacchiere con l’imputato Cutolo, quando Juary consegna allo stesso una medaglia molto sfarzosa: su una faccia vi è il lupo simbolo dell’Irpinia, sull’altra la dedica
A don Raffaele Cutolo, con stima
Un gesto che, per quanto fosse clamoroso e plateale, nascondeva significati ben precisi, e avvalorava le tesi dei molti che non credevano affatto che dietro quel contatto vi fosse esclusivamente un omaggio ad un tifoso; al contrario, un gesto come quello era rivolto a tutti, mostrava quali erano gli attori in gioco e quali gli interessi in ballo. Non passò ovviamente in secondo piano la vicenda; in maniera particolare il giornalista della Rai, Luigi Necco di 90° minuto, s’interessò alla faccenda (egli si era recato già da tempo e più volte ad Avellino, per investigare sulla forte “amicizia” che legava il presidente Sibilla al boss di Vesuviano Raffaele Cutolo e sui loro loschi affari riguardanti edilizia, riciclaggio e calcio scommesse). Qualche mese dopo il giornalista Luigi Necco verrà gambizzato proprio mentre è inviato dalla Rai ad Avellino per commentare una partita dei lupi. Accanto alla sua auto viene trovato un biglietto con scritto:
Tu vuliv’ fa o criticone??
LA SCALATA DEI CASALESI ALLA LAZIO
Il tentativo del clan dei Casalesi di scalare i vertici della Lazio ha suscitato preoccupazione e sconcerto in tutto l’ambiente sportivo, gettando particolari ombre sui sistemi di riciclaggio di capitali attraverso l’acquisizione di una determinata società calcistica. Nel 2006, quando è partita l’inchiesta, era già nota a tutti la propensione delle mafie negli investimenti riguardanti il settore calcio, ma un tentativo così eclatante di mettere le mani su una squadra di fama internazionale come la Lazio non aveva precedenti. Quando si parla dei Casalesi si parla dell’organizzazione criminale più potente e più innovatrice di tutto il panorama camorristico, che data la fama non ha bisogno certamente di ulteriori presentazioni. Veniamo allora alla partita, che si articola su diversi tavoli da gioco. Vi è innanzitutto Giuseppe Diana, imprenditore legato al clan, che tramite degli emissari avvicina il presidente Lotito offrendogli due milioni in cambio di una sponsorizzazione nelle coppe europee della sua poco nota azienda Diana Gas, con base a Castel Volturno ed operante esclusivamente in Campania. A far saltare l’operazione è l’incertezza di Lotito, che non essendo di certo l’ultimo arrivato si insospettisce della richiesta da parte di una società praticamente sconosciuta, ma soprattutto della proposta di pagamento in contanti.
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Il secondo contatto arriva però in grande stile. Cambiano le modalità d’azione e subentrano nuovi personaggi. Uno in particolare ha il ruolo di tramite tra alcuni fantomatici acquirenti, interessati al rilevamento della società, ed i vertici della Lazio: è Giorgio Chinaglia, il Long John idolo della Lazio di Maestrelli, che ha un ruolo delicato e fondamentale. Di Chinaglia conosciamo le vicende che lo hanno già macchiato in passato, ed anche questa volta sarà lui ad esporsi in primo piano annunciando l’interesse di una cordata di gruppi stranieri. Il veicolo individuato per tutta l’operazione era una conglomerata ungherese che controllava un gruppo farmaceutico ed un’industria siderurgica. Proprio nel momento clou dell’operazione, la procura di Napoli insieme a quella di Roma ne scoprì i reali contenuti, e la transazione non andò in porto. Se tutto fosse andato come previsto dal clan, il quadro potrenziale avrebbe avuto del clamoroso, con i rappresentati dei Casalesi a contatto diretto con le autorità di tutte le sfere civili capitoline e con ingenti somme di denaro sporco riciclate, che attraverso le manovre speculative sul titolo della Lazio sarebbero rientrate magicamente in Italia; una situazione che, a lungo andare, avrebbe sicuramente portato gravi conseguenze anche al club.
COSA NOSTRA ED IL BUSINESS DEL VIVAIO
Per molti il calcio Italiano, dopo le cocenti delusioni legate alla mancata qualificazione ai mondiali, dovrebbe necessariamente ripartire da una nuova struttura, un nuovo modello organizzativo che parta dai settori giovanili e si concluda con la maglia azzurra. Il punto di partenza, ovvero il vivaio, è anche quello più delicato, sia per l’età dei calciatori, sia soprattutto per la superficialità dei controlli.
“I vivai sono un settore che garantisce una buona forma di remunerazione. Azzecchi il giocatore vincente e la sua cessione garantisce immediatamente una forma di guadagno, che possono gestire. Nessun mafioso, però, può gestire la compravendita di campioni di serie A o internazionali, in quel mercato sarebbero subito riconosciuti, a differenza delle giovanili”. (Gianluca di Feo, giornalista e scrittore).
Lo sfruttamento dei vivai è un business su cui ha messo le mani la criminalità organizzata, con effetti devastanti. Questo sul momento fa venire meno una sana competizione e crescita dei giovani calciatori, e successivamente fa sì che “i calciatori agevolati” rimangano pedine nelle mani delle organizzazioni criminali che, così facendo, avranno “loro uomini” sui terreni di gioco che potranno partecipare ad eventuali combine.
Agli occhi di tutti l’eclatante caso del Palermo Calcio, smascherato da un’istruttoria del 2006 che portava alla luce i tentativi delclan dei Lo Piccolo, storica famiglia di cosa nostra, di mettere le mani sulla primavera del Palermo. Il tutto con l’aiuto dell’avvocato e consigliere della famiglia Marcello Trapani, improvvisato procuratore ed agente che, insieme a Giovanni Pecoraro – già all’interno della società nel ruolo di talent scout e responsabile – avevano l’obiettivo di riuscire a far promuovere in prima squadra i calciatori da loro rappresentati, facendoli esordire, così da accrescere il loro valore e poter guadagnare molto di più da una loro futura cessione. Un sistema ben rodato, nel quale i due si spinsero oltretutto ad effettuare pressioni per l’ingresso nella squadra primavera del figlio di un noto boss locale “amico”, e per la cessione del calciatore Alberto Cossentino – all’epoca diciannovenne, ma con diverse presenze in prima squadra ed in Coppa Uefa – ad una società estera che aveva dimostrato interesse; l’operazione per la cifra di due milioni, di cui uno da dividere tra Pecoraro e Trapani.
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Entrambi riuscirono a piazzare nell’orbita della prima squadra ben cinque giovani calciatori senza che ne avessero realmente le capacità – com’è oltretutto emerso dalle dichiarazioni del presidente Zamparini, che ha collaborato con la DDA di Palermo per far luce su questa faccenda – oltre ad effettuare forti pressioni sull’allora direttore sportivo Rino Foschi che si tramutarono anche in veri e propri atti di intimidazione quando questo tentò di allontanare Pecoraro e Trapani dalla società, come la spedizione di un pacco contenente latesta di un agnello proprio nell’abitazione di Foschi a Cesena, la vigilia di natale. Tutto ciò portò il DS Foschi ed il Presidente Zamparini a denunciare la questione direttamente a Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, spiegando il sistema che già da tempo gravava intorno alle sorti del settore giovanile rosanero – che resta comunque, per dovere di cronaca, il fiore all’occhiello del calcio siciliano ed uno dei più importanti del sud Italia – e denunciando quindi i due portavoce degli interessi del clan Lo Piccolo. La risposta delle istituzioni fu chiara congli arresti di Trapani e Pecoraro nel Settembre 2008.
Questo breve quadro delinea solo una minima parte delle modalità d’ingresso delle mafie nel sistema economico-calcistico. Le grandi discussioni riguardanti il cambiamento, il nuovo punto di partenza, il cataclisma che modificherà il volto del calcio italiano dovranno necessariamente partire da una netta presa di posizione contro queste criticità, che prima ancora di esprimersi nella prassi sono espressione di una mentalità che va radicalmente spazzata via. In ambito tecnico la regolamentazione, quindi l’aspetto prettamente legale che caratterizza il piano economico e finanziario di questo sistema, ha urgente bisogno di essere resa trasparente, facilitando il lavoro di chi ha il compito di vegliare su questo sport e chi lo ama. Nel nostro piccolo non possiamo rassegnarci a una narrazione che racconta il calcio come uno show continuo, celebrandone gli effetti e non ragionando mai sulle cause. Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, diceva Pasolini; e proprio come la mafie sono giunte fino agli altari e nelle cappelle, figuriamoci se potevano risparmiare un fenomeno sociale ed economico sterminato come il pallone. Si tratta in fondo di ciò, un’enorme fonte di guadagno che fa gola a molti; tralasciare questi aspetti non contribuisce a rafforzare l’idea del calcio come spettacolo e passione, ma fa semplicemente il gioco della criminalità organizzata e della disinformazione.