L’altopiano meridionale centro-americano rappresenta il cuore geografico e metaforico degli Stati Uniti Messicani. Quasi per tutta la sua estensione, l’area che amministrativamente appartiene al Districto Federal, è occupata dall’espansione progressiva della megalopoli capitale del paese: Città del Messico, per i locali El DeFe.
Tra maggio e giugno, i mesi in cui si sarebbe ospitata la tredicesima edizione dei Mondiali di Calcio, la temperatura raggiunge picchi che superano durante il giorno i 30 gradi per poi beneficiare dell’escursione termica desertica al calare del sole, con serate gradevoli e fresche.
Sebbene non proibitive, le temperature sono gravate dall’alto tasso di umidità esacerbato dall’inquinamento incontrollato della capitale che, nel 1986, aveva raggiunto picchi inaccettabili (ancora oggi lo sfruttamento insensato di quegli anni determina un alone di foschia, quasi perenne, che aleggia sopra al DeFe).
Il Mondiale 1986 si sarebbe dovuto giocare in Colombia. La FIFA revocò l’assegnazione per i problemi di ordine pubblico determinati dalla guerra civile alle FARC e dai conflitti intestini con i narcos. La federazione internazionale per mantenere fede alla promessa di un Mundial latino li dirottò in Messico, che avendo ospitato l’edizione del 1970 aveva le strutture già pronte per la grande kermesse.
Carlos Bilardo, selezionatore perfezionista e maniaco dei dettagli, in carica alla guida dell’Albiceleste dal 1983, sapeva benissimo che le condizioni metereologiche abbinate all’altitudine media dell’altopiano, circa 2.250 metri nella capitale, avrebbero reso l’aria irrespirabile; di conseguenza, la condizione atletica avrebbe giocato un ruolo da protagonista nello svolgimento della competizione. In un’epoca in cui le conoscenze alimentari nello sport professionistico erano praticamente nulla, fanno quasi sorridere i provvedimenti impartiti ai propri giocatori dal Doctór.
Aveva chiesto loro di presentarsi in ritiro insovrappeso di due chili, convinto che poi li avrebbero persi durante la manifestazione, in modo da mantenere un peso-forma ideale. Per abituare la nazionale all’altitudine aveva già portato alcuni calciatori della selezione a gennaio per due settimane nel remoto nord-est argentino, nel paesino di Tilcara, vicino alla Bolivia, dove i 2500 metri di altitudine sarebbero stati un buon test per replicare le condizioni messicane.
Così senza saperlo, Carlos Bilardo aveva fornito le indicazioni a Le Coq Sportif per inaugurare una rivoluzione tecnologica in materia.
Ma certamente il provvedimento più curioso fu quello riguardante le maglie da gioco. Fermamente convinto che ogni dettaglio sarebbe potuto risultare decisivo, Bilardo chiese e ottenne un incontro con gli emissari francesi di Le Coq Sportif, sponsor tecnico della nazionale di quegli anni. A Buenos Aires, dopo una lunga trattativa, Bilardo strappò la promessa, da parte del marchio di Romilly Sur-Seine, che le maglie biancoazzurre della Selección fossero tessute in fibre sintetiche, più leggere del cotone standard, e traforate per consentire una maggiore e migliore traspirazione (provvedimento già rudimentalmente abbozzato dalla nazionale inglese sempre in occasione dei Mondiali messicani, ma del 1970).
Così senza saperlo, Carlos Bilardo aveva fornito le indicazioni a Le Coq Sportif per inaugurare una rivoluzione tecnologica in materia, che avrebbe segnato un progresso irreversibile nel modo di intendere l’abbigliamento calcistico.
Nella storica foto della consegna della coppa a Diego, si può apprezzare il dettaglio della trama traforata richiesta da Bilardo per la maglia albiceleste
Sfortunatamente, la fornitura del brand fondato da Emile Camuset si limitava ad adottare le indicazioni del tecnico di La Paternal esclusivamente sulla divisa albiceleste, ma non sulla seconda maglia blu dell’Argentina. Quando negli ottavi di finale, contro i rivali rioplatensi dell’Uruguay, la squadra di Maradona fu obbligata dal sorteggio a utilizzare la seconda casacca, Bilardo si rese conto del disastro.
Nonostante si giocasse a Puebla, città a sud del DeFe e a quasi 500 metri in meno di altitudine, a fine partita – vinta di misura con una rete di Pasculli – le casacche di cotone della Selección sembravano pesare una decina di chili, impregnate di sudore com’erano, e il collo stretto dava un senso di soffocamento che aveva condizionato le prestazioni della squadra.
Non appena la sorte impose nuovamente la stessa divisa, per la partita seguente contro la temibile Inghilterra, Carlos Bilardo fu duro e fermo: chiamò il dirigente federale Rubén Moschella e, forando con un paio di forbici le maglie blu in cotone, gli fece capire senza troppi convenevoli di volere delle divise traspiranti per la partita seguente.
Nelle foto di repertorio del match contro l’Uruguay gli aloni di sudori sono ben visibili. Il cotone impregnato era diventato un ulteriore avversario da dribblare.
Moschella convocò Patricio D’Onofrio, distributore Le Coq Sportif in Messico, affinché facesse pressioni in Francia per far arrivare dalla casa madre divise con quelle esatte specifiche. Quella di Moschella era un’utopia: troppo poche le 72 ore a disposizione della casa francese per realizzarle e spedirle. Così iniziò una folle spedizione nel DeFe, una sola missione: trovare 38 maglie blu traforate, con un colletto più largo che consentisse una migliore vestibilità.
“Hola, soy de la Selección Argentina, tienes camisetas azules de Le Coq Sportif?”
Il mantra di un’operazione quasi disperata, che Moschella ripeteva ormai meccanicamente in tutti i negozi sportivi di Città del Messico. Non riuscì a portare nel centro del Club America, dove risiedeva la nazionale, le famigerate maglie traforate – in fondo erano state appositamente create per gli uomini di Bilardo, non se ne sarebbero trovate nei negozi con quelle caratteristiche – tuttavia tornò in ritiro con due maglie di filati sintetici più leggere di quelle in cotone e con ampi colli a V.
La seconda divisa dell’Argentina recuperata all’ultimo da Moschella e scelta da Diego. Nella foto si nota l’assenza degli allori intorno allo scudo della AFA e la tonalità blu/azzurro tono su tono della maglia. Infine l’ampio scollo a V bianco che assicurava maggiore libertà nei movimenti (Photo by Mike King/Allsport/Getty Images)
Il comitato direttivo Bilardo-Pachamé-Benrós, indeciso su quale adottare, chiese il consiglio di Maradona che per caso passava di là. El Pibe, vista la maglia brillante attraversata da strisce verticali tone-on-tone di nuance tra il blu e l’azzurro, a ricordare le tinte del mare, la osservò strabiliato e disse:
“Que linda esta camiseta. Con esta le ganamos a Inglaterra”.
Detto fatto, Diós aveva deciso. Moschella partì ad acquistare la fornitura completa e, nel centro del ritiro, le conoscenze con il Club America di Bilardo consentirono l’allestimento di una task force per la realizzazione e applicazione degli scudi federali e dei numeri sulle maglie.
Per la fretta i crest di stoffa non vennero impreziositi degli allori che inglobano lo stemma della AFA, e allo stesso modo il font dei numeri non era lo stesso delle maglie utilizzate contro la Celeste. Un po’ più spessorati e di colore argentato: il massimo che Moschella fosse riuscito a trovare. Tutto, compresa la necessaria approvazione FIFA delle divise, venne regolarmente eseguito e 10 minuti prima del quarto di finale contro l’Inghilterra ogni convocato aveva regolarmente le proprie 2 maglie da gioco, una per tempo.
La storia del calcio allo stadio Azteca. La maglia blu, il 10 argentato, la mano de Diós (Photo by Allsport/Getty Images)
Il resto della storia si confonde con la leggenda di questo sport. Prima la mano de Diós, poi el gol del siglo, hanno consegnato quella maglia e il suo numero 10 all’Olimpo del calcio. La casacca lucida con i colori del mare di Le Coq Sportif è senza dubbio una delle storie più curiose del mondo del calcio e la maglia più ricercata dai collezionisti di tutto il mondo.
In particolare, le due con il 10 argentato stampato sul dorsale riposano custodite gelosamente. Quella del primo tempo nella collezione personale del Pibe; quella del secondo tempo invece, la più preziosa, fu scambiata con Steve Hodge, protagonista involontario dell’assist per il tocco decisivo di mano di Diego. Oggi quella maglia, esposta in concessione al museo del calcio di Manchester, vale oltre 350 mila dollari ed è forse l’eredità più importante del mediocre centrocampista di Nottingham.
Nascosta nel colletto a V bianco l’etichetta di autenticità della maglia e di questa storia, che riportava il certificato di una maglia qualsiasi Le Coq Sportif di un negozio sportivo di Città del Messico, destinato a diventare il simbolo del calcio:
Hecho en México.
La maglia, sì, ma anche la storia si è fatta in Messico.
Questo articolo è stato scritto grazie all’essenziale fonte ‘Hecho en México’ apparso sulle colonne del periodico Tre3Uno3 (anno 2 n°4), che a tutti gli appassionati di calcio latino manca tremendamente.