Calcio
06 Febbraio 2018

La promessa di Bobby Charlton

Dalla tragedia alla gloria: gli storici decenni del Manchester United.

Londra, stadio Wembley, 29 maggio 1968: finale Coppa dei Campioni, Manchester United-Benfica, ore 22.45. Con perfetto tempismo, Bobby Charlton interviene di destro su un cross di Brian Kidd e segna la quarta rete, quella che sancisce il definitivo 4-1. Corre sotto la curva inseguito da Best. Anche Stiles, Aston e tutti gli altri lo raggiungono per festeggiarlo. Poi Bobby torna verso il centro del campo, scambia un’ occhiata d’intesa con Matt Busby, infine volge gli occhi verso il cielo notturno di Londra, come a voler salutare qualcuno. Per un tempo che sembra sospeso rimane così, con lo sguardo rivolto lassù, poi sul suo volto compare un sorriso, ed è quello il momento in cui Bobby Charlton sa di aver mantenuto la sua promessa. Una promessa fatta dieci anni prima, quando lui non era ancora il capitano del Manchester United, ma solo un ragazzino che si apprestava a proseguire la leggenda dei Busby Babes. Dieci anni prima era il pomeriggio del 6 febbraio 1958, a Monaco di Baviera. La sera prima i Red Devils avevano eliminato la Stella Rossa nei quarti di finale di Coppa dei Campioni, e si apprestavano a far ritorno a casa sul volo charter BE 609 della British European Airways. Ma quel pomeriggio, la dea bendata aveva dimenticato la cornucopia dell’abbondanza e aveva deciso per una di quelle cose che “non avvengono né sempre né per lo più”, come diceva Aristotele. La neve, una decisione avventata del pilota, lo schianto. La fusoliera in fiamme, i corpi imprigionati nelle lamiere, e Duncan, Roger, Geoff, Mark, David, Eddie, Liam e Tommy, che persero la loro partita più importante.

I resti del volo
I resti del volo BE 609

Fra i superstiti c’era lui, Bobby Charlton, che da quel momento sarebbe vissuto con un’idea fissa: vincere la coppa dei Campioni per onorare i suoi compagni. Sarebbe diventato uno dei migliori giocatori del pianeta, avrebbe vinto scudetti e sollevato la Coppa Rimet da campione del mondo, ma, nella sua mente, in quei dieci, lunghi, anni, l’attesa del futuro avrebbe superato la tensione del presente. E quel presente, ora, era sollevare la Coppa dei Campioni. Era mantenere la promessa.

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La Leggenda dei Busby Babes

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Matt Busby, uno scozzese di Orbiston, nel Lanarkshine, iniziò la sua carriera da coach dello United nel 1945. Gli venne affidata la panchina dal presidente James Gibson, un industriale del settore tessile che si era messo in testa di scovare giovani talenti in giro nelle periferie, per poi farli crescere nello Junior Athletic Club, un proto settore giovanile creato nel 1938 dal lungimirante segretario Walter Crickmer. Già discreto centrocampista di Manchester City e Liverpool, e in tempo di guerra allenatore della squadra dell’esercito di Sua Maestà, Busby, a quel tempo solo trentaseienne, strappò il lauto ingaggio di 750 sterline annue e scelse di persona chi avrebbe dovuto supportarlo nella gestione sportiva del club. Lo staff dello scozzese era composto da un ex nazionale gallese, Jimmy Murphy, che si occupava della squadra B e del settore giovanile, e da Bert Whalley, un ex giocatore dello United che si dedicava alla crescita tecnica dei giocatori più promettenti in rosa, insieme con Tom Curry, un ex mediano del Newcastle che prestava particolare attenzione alla disciplina e all’aspetto spirituale, convincendo anche i più riluttanti a frequentare con regolarità le funzioni religiose di rito cattolico. Lo staff: entità lessicalmente impalpabile quanto realmente invasiva. Perché ogni coach sa benissimo che gran parte delle sue fortune dipendono dalla scelta dei collaboratori. E Murphy, Whalley e Curry, e in seguito, Joe Armstrong e Bob Bishop, fecero quelle del futuro baronetto Matt Busby.

 

L’allenatore scozzese giocava con il classico sistema all’inglese WM, traducibile in un 3-2-2-3, inventato dal genio di Herbert Chapman, un ingegnere civile prestato al calcio, da molti considerato il prototipo dell’allenatore moderno, e che fece le fortune dell’Arsenal negli anni Trenta. Il “sistema”, che vigeva in Inghilterra dal 1925, quando fu modificata la regola del fuorigioco, portata da tre giocatori a due, si diffuse in Europa negli anni Trenta e Quaranta, soppiantando o modificando il classico “metodo” a W, il 2-3-2-3. Quando fu presentato alla stampa, Busby promise di riportare lo United ai vertici, e disse che avrebbe raggiunto il titolo in cinque anni. Musica per le orecchie dei tifosi dei Red Devils, dopo le delusioni patite negli anni Trenta, macchiate da sei stagioni trascorse in Second Division. Quello promesso dall’allenatore scozzese sarebbe stato il terzo titolo, dopo quelli conquistati nel 1909 e 1911. Quasi preistoria calcistica da pionieri del football. Si era nel dopoguerra, l’Old Trafford sarebbe stato inagibile per lavori di ristrutturazione fino all’inizio della stagione 1949/50, e i diavoli rossi si dovevano accontentare del campo dei cugini del City, il Maine Road. Busby e il fido Murphy crearono il primo United del dopo guerra basandosi sull’abilità difensiva di Johnny Carey, John Aston e Allenby Chilton, e sulle doti offensive di Charlie Mitten, Jack Rowley e Stan Pearson.

Sir Matt Busby nel suo ufficio
Sir Matt Busby nel suo ufficio

Le successive stagioni portarono tre secondi posti e la vittoria della FA Cup ai danni del Blackpool di Stanley Matthews e Stan Mortensen alla fine della stagione 1947/48. Quel 24 aprile del 1948, i centomila di Wembley assistettero a un grande spettacolo, che vide i rossi di Manchester imporsi per 4-2 dopo un match emozionante e giocato allo spasimo. Era la seconda volta che lo United si aggiudicava la coppa, il bis del lontano successo del 1909 ai danni del Bristol. L’agognato titolo arrivò alla fine della stagione 1951/52, dopo una lotta serrata con l’Arsenal, con un anno di ritardo rispetto alle previsioni di Matt Busby. Dopo una Charity Shield vinta l’anno successivo ai danni del Newcastle, seguirono un paio di stagioni dai risultati altalenanti che portarono a un quarto e a un quinto posto. Durante queste due stagioni non esaltanti, Busby e il suo team fecero esordire numerosi giovani calciatori provenienti dal vivaio e, da quel momento, con in campo i vari Viollet, Clayton, Foulkes, Colman, Cope, Edwards, Whelan, Lewis, Pegg e Scanlon, guidati dal capitano Byrne, e tutti provenienti dal settore giovanile, nacque la leggenda dei Busby Babes, un gruppo di ragazzi poco più che ventenni che s’imposero per temerarietà e predisposizione a un gioco offensivo altamente spettacolare. La coppia d’attacco di quello United era composta da due micidiali calciatori, anch’essi poco più che ventenni: Dennis Viollet e Tommy Taylor. Il primo avrebbe lasciato lo United dopo dodici anni di militanza con uno score di 179 reti in 293 match, mentre la carriera del secondo, acquistato nel marzo del 1953 dal Barnsley, si sarebbe interrotta tragicamente a Monaco di Baviera, con uno score di 112 gol in 166 match. Un tipico schieramento dei Red Devils di quegli anni prevedeva Wood, Foulkes, Byrne e Jones a formare la linea difensiva, Colman, Edwards, Berry e Pegg a centrocampo, Whelan, Taylor e Viollet in attacco.

 

Fra loro, un capitolo a parte merita Duncan Edwards. Nato il 1 ottobre 1936 a Dudley, nelle Midlands, uno dei sette regni anglosassoni medioevali, Edwards fu un talento precocissimo che esordì a soli sedici anni in First Division e a diciotto in nazionale. Considerato uno dei centrocampisti più completi che avessero mai calcato i terreni di gioco inglesi, Edwards era un mix ben riuscito di tecnica e potenza atletica, doti a cui aggiungeva una personalità e un carisma fuori dal comune. Dotato di un tiro fulminante, “Big Dunc” divenne una colonna insostituibile dei Red Devils e della nazionale e, in soli tre anni, assunse al rango di icona calcistica nazionale firmando, fra l’altro, numerosi contratti pubblicitari. Tutti gli preconizzavano una carriera straordinaria e, se non fosse stato per un tragico destino avverso, Edwards sarebbe stato per anni il calciatore più rappresentativo del Regno Unito. Walter Winterbottom, l’allenatore dell’Inghilterra, dichiarò:

“Nel carattere e nello spirito di Duncan Edwards io vedevo la vera rinascita del calcio inglese”.

Le stagioni 1955/56 e 1956/57 portarono in dote altrettanti scudetti, rispettivamente il quarto e il quinto della storia del club, e con essi la definitiva consacrazione dei Busby Babes. Fu soprattutto un impressionante rendimento casalingo a determinare il cammino autorevole dello United, che stupì avversari e critica per il gioco sempre più spettacolare e garibaldino che, nel suo sviluppo, andava oltre le rigidità del classico sistema all’inglese.

Busby e Busby Babes festeggiano il titolo della stagione 56/57
Busby e Busby Babes festeggiano il titolo della stagione 56/57

Il 1956 fu l’anno dell’esordio nella Coppa dei Campioni, avvenuto il 26 settembre al Maine Road, in quanto l’Old Trafford era ancora privo dell’impianto di illuminazione. Il lungimirante Busby teneva moltissimo al palcoscenico europeo, e dovette lottare contro le pressioni delle autorità della federazione calcistica inglese che, memori del passato isolazionista, non vedevano di buon occhio che una squadra inglese si esibisse sul palcoscenico internazionale, dopo aver già convinto il Chelsea, l’anno precedente, a non partecipare alla prima edizione della coppa ideata dalla rivista francese l’”Equipe”. I quarantatremila spettatori accorsi per l’esordio europeo non dovettero credere ai loro occhi quando videro l’Anderlecht, già sconfitto 2-0 all’andata, sommerso da una valanga di gol: 10-0, l’incredibile punteggio finale, con quattro reti di Viollet e tre di Taylor. Poi fu la volta del Borussia Dortmund, vittoria per 3-2 in casa, a cui fece seguito un pareggio a reti inviolate nella gara di ritorno in Germania, e dei baschi dell’Athletic Bilbao che, nel gennaio 1957, vinsero il match casalingo per 5-3 su un terreno di gioco assurdo, coperto di neve e fango, per essere poi nettamente sconfitti al Maine Road per 3-0. Infine, la semifinale contro la leggenda del Real Madrid, a quel tempo troppo superiore per esperienza e classe. I Babes però onorarono l’impegno, perdendo il match del Santiago Bernabeu per 3-1 e impattando per 2-2 a Manchester. Doveva essere quello il primo assaggio di una rivalità destinata a continuare per anni, perché erano molti coloro che ritenevano i Busby Babes l’unica squadra europea capace di rivaleggiare con i “blancos” e insidiarne la schiacciante supremazia continentale. La stagione 1956/57 terminò però con una macchia: la sconfitta nella finale di FA Cup contro l’Aston Villa per 2-0. In quella stagione fece il suo esordio l’ennesimo prodotto del vivaio, un timido biondino di nome Bobby Charlton, destinato a diventare a lungo il giocatore simbolo dei Red Devils. Il futuro baronetto era un centrocampista universale che non disdegnava la conclusione a rete grazie a un tiro forte e preciso con entrambi i piedi. Di una correttezza esemplare, giocava con la numero nove, e per classe ed intelligenza tattica ricordava Alfredo Di Stefano.

 

Nella stagione successiva il dominio in First Division fu ancora più schiacciante, mancando una squadra, come lo era stato il Blackpool l’anno precedente, capace di contrastare lo United nel suo inarrestabile cammino. Ma ormai l’obiettivo dichiarato di Matt Busby e del suo staff era l’Europa, e sembrava quasi che il campionato servisse per prepararsi alla rivincita con il Real Madrid in Coppa Campioni. Nella stagione 1957/58, dopo aver superato Shamrock Rovers e Dukla Praga, il terzo turno prevedeva l’impegno contro i temibili slavi della Stella Rossa. L’incontro casalingo del 14 gennaio 1958 finì 2-1 per lo United, in rimonta, grazie alle reti di Charlton e Colman. Prima della trasferta decisiva in terra jugoslava, i Busby Babes, quasi a volersi congedare alla loro maniera dalle folle acclamanti, vinsero un epico scontro ad Highbury contro l’Arsenal per 5-4. Il match di ritorno a Belgrado fu subito indirizzato su binari sicuri dai rossi di Manchester, che segnarono tre reti nella prima mezzora di gioco, due delle quali messe a segno da Bobby Charlton. La Stella Rossa riuscì a recuperare lo svantaggio, ma a nulla valse il suo forcing finale. Il giorno successivo Crickmer e Busby organizzarono un volo charter di rientro per permettere ai giocatori di recuperare più energie possibili in vista del match del sabato successivo contro il Wolverhampton.

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La tragedia

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Quel pomeriggio del 6 febbraio 1958 il cielo di Monaco di Baviera era livido, e la neve stava cadendo fitta. L’aeroporto Reim sembrava avvolto da un’atmosfera spettrale e, dopo due vani tentativi di decollo, ai due piloti del volo BE 609 della British Airways spettava una decisione delicata: provare un ulteriore tentativo, oppure rinunciare, e rinviare il volo al giorno successivo. E proprio l’idea di trascorrere la notte in Germania accompagnò molti giocatori quando gli fu chiesto di scendere dall’aeromobile. Qualcuno di loro telefonò a casa dando appuntamento ad amici e familiari per l’indomani. Purtroppo, nonostante il parere contrario della cabina di controllo, con una decisione improvvida, il pilota James Thain e il suo vice Kenneth Raymont decisero di forzare l’aereo a elica bimotore per un terzo tentativo, e fecero risalire tutti a bordo. Poco dopo le 16.00 – le 15.00 secondo il meridiano di Greenwich –  il charter tentò un nuovo decollo ma, tutt’a un tratto, perse potenza e proseguì la sua corsa oltre le protezioni esterne della pista perdendo un’ala e la coda, andando infine a terminare la sua tragica corsa contro un deposito in cui si trovava un camion pieno di carburante. L’urto causò l’esplosione e l’incendio della fusoliera, all’interno della quale rimasero intrappolati i corpi di giocatori, tecnici e giornalisti a seguito. Il portiere nord-irlandese Harry Gregg, acquistato dallo United solo poche settimane prima, si comportò da eroe, tornando più volte nella fusoliera e aiutando i soccorritori. Trascinò fuori dai rottami Vera Lukic, moglie dell’addetto jugoslavo a Londra, che era incinta del terzo figlio. Purtroppo, nonostante i soccorsi tempestivi, Roger Byrne, Mark Jones, David Pegg, Liam Whelan, Eddie Colman, Tommy Taylor e Geoff Bent, perirono fra le lamiere. Stessa sorte per lo storico segretario Walter Crickmer. Anche per Bert Whalley e Tom Curry non ci fu niente da fare, così come per otto giornalisti, uno steward e due passeggeri.

La tragica notizia riportata dal Daily Sketch
La tragica notizia riportata dal Daily Sketch

Le prime notizie del disastro aereo arrivarono tramite teleprinter nel primo pomeriggio. La BBC interruppe la programmazione per dare l’annuncio della tragedia. Jimmy Murphy, l’unico dello staff di Busby a non aver affrontato la trasferta di Belgrado a causa di un impegno con la nazionale gallese, arrivò a Monaco il giorno successivo. Rientrati a Manchester, prima delle esequie che avvennero in forma privata, le salme dei giocatori furono portate all’Old Trafford, dove decine di migliaia di tifosi si recarono a rendere omaggio ai loro giovani eroi. Fra i ventidue sopravvissuti, insieme al copilota Kenneth Raymont, Matt Busby, Duncan Edwards, Johnny Berry e Jackie Blanchflower risultavano in pericolo di vita. Berry e Blanchflower, dati quasi per spacciati, riuscirono a sopravvivere, anche se la la loro carriera calcistica si interruppe in quel drammatico pomeriggio di febbraio. Matt Busby fu sottoposto a numerose settimane di cura sotto la tenda a ossigeno. Quando finalmente l’allenatore scozzese fu fuori pericolo, seppe da sua moglie l’orribile fine dei suoi giocatori. Non si diede pace, Matt, proprio lui, che aveva prenotato con Crickmer il bimotore per far tornare a Manchester in tempi brevi i suoi ragazzi. Chi invece non riuscì a vincere la partita con un destino avverso fu proprio colui che era stato soprannominato “The Tank”, per le sue incredibili doti fisiche. Nonostante una volontà tesa come la corda di un arco, e una vigoria ferrea dei nervi, il fisico di Duncan Edwards cedette dopo due settimane per le numerose fratture e le devastanti ferite che avevano compromesso la funzionalità dei reni e quella di un polmone. Poche ore prima di spirare, “Big Dunc” chiese al medico quante probabilità avesse di giocare il match di campionato della settimana successiva. «Duncan è stato l’unico giocatore a farmi sentire inferiore» disse di lui Bobby Charlton,  «e se dovessi giocare per la mia vita e prendere un solo uomo con me, non avrei dubbi e sceglierei lui».

 

La morte di Duncan Edwards fu l’ultimo chiodo sulla bara dei sogni di una città. Tutti caddero in una sorta di deliquio di amara rassegnazione, e fu quello il momento più difficile nella storia del club. Ma fu anche il momento in cui nella mente di un ragazzo scampato per miracolo alla morte, si fece largo un pensiero fisso: vincere la Coppa dei Campioni. Bobby Charlton promise a se stesso di farlo per i compagni scomparsi, e di urlare la sua gioia con quanto fiato avesse in corpo, e poi volgere lo sguardo lassù. Gli antichi greci credevano che coloro che morivano giovani fossero cari agli dei. Di sicuro, quaggiù, erano rimasti in tanti a voler bene a quegli sfortunati ragazzi.

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La Ricostruzione

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Dopo quella immane tragedia, cominciò una paziente opera di ricostruzione. Nonostante i contraccolpi di Monaco, la squadra riuscì in quella stagione a raggiungere la finale di FA Cup, dove fu sconfitta per 2-0 dal Bolton Wanderers, mentre il cammino europeo si interruppe in semifinale contro il fortissimo Milan dell’epoca. Nella stagione 1958/59 arrivò un incredibile secondo posto in First Division dietro il Wolverhampton, a cui seguirono alcune inevitabili stagioni di assestamento.

“Matt, ho trovato un genio”.

Furono queste le parole pronunciate da Bob Bishop, lo scout che gestiva la più grande squadra giovanile dell’Irlanda del Nord, il Boyland Youth Club, e che era stato incaricato dal Manchester United di scoprire i migliori talenti di quelle lande. Bishop aveva visto un ragazzino esile di quindici anni del Cregagh Boys fare mirabilie contro la nazionale studentesca, ed aveva subito avvertito il manager dello United. Busby non perse tempo e si assicurò le prestazioni di quel talento in erba dal nome impegnativo: George Best. Lui, Dennis Law, di ritorno dal Torino dopo una stagione disputata in Italia, Nobby Stiles, Brian Kidd, guidati naturalmente dal capitano Bobby Charlton, furono coloro che presero l’eredità dei loro sfortunati compagni inaugurando una nuova stagione dei Busby Babes. Arrivò la vittoria nella FA Cup del 1963 contro il Leicester City, e il titolo, il sesto, al termine della stagione 1964/65, vinta per differenza reti dopo un’appassionante lotta a tre con Leeds e Chelsea. Il ritorno in Coppa Campioni era naturalmente il sogno di Matt Busby e di tutta la tifoseria mancuniana. Il cammino europeo iniziò con le nette vittorie contro HJK Helsinki e Vorwarts Berlino. Nei quarti di finale i Red Devils incontrarono il fortissimo Benfica, reduce da quattro finali disputate negli ultimi anni (due vittorie e altrettante sconfitte, contro Milan e Inter). Dopo il 3-2 casalingo, Best e soci stupirono l’Europa compiendo la grandissima impresa di andare a vincere 5-1 a Lisbona. Fu lì che nacque la leggenda del “El Beatle”, locuzione coniata dal giornale portoghese “Bola”. Da quel momento Best fu spesso raffigurato come il quinto beatle, e la sua fantasia, il suo estro e il suo spirito anarchico ben simboleggiavano quell’epoca di creatività e di stravaganza naïve. Purtroppo, una volta di più, i sogni si infransero in semifinale contro il Partizan di Belgrado. Sconfitto nettamente in Jugoslavia per 2-0, lo United non riuscì a ribaltare il risultato fra le mura amiche: 1-0 il risultato dell’Old Trafford.

George Best nel 1964, alla sua prima stagione coi Red Devils
George Best nel 1964, alla sua prima stagione coi Red Devils

Alla fine della stagione 1965/66 arrivò un quarto posto in First Division, alle spalle di Liverpool, Leeds e Burnley, e il Campionato Mondiale da disputarsi in patria. Il Mondiale iniziò sotto i peggiori auspici: la coppa Rimet venne infatti rubata e Scottland Yard entrò nel panico. L’onore dei sudditi di Sua Maestà fu salvato dal fiuto di un cane di nome Pickels, che riportò alla luce il trofeo scavando in un parco dove l’aveva sotterrato un ladro buontempone. Fu l’edizione della prima mascotte dei Mondiali, il leone Willie, della rinuncia dei paesi africani, dell’eliminazione del Brasile dopo il primo turno, con Pelé costretto a subire i colpi assassini del bulgaro Yetchev prima, e del portoghese Morais dopo. Dell’Italia eliminata dai dilettanti della Corea del Nord, del Portogallo del capocannoniere Eusebio, del quarto di finale Inghilterra-Argentina e poi della finalissima Inghilterra-Germania, con quel famoso gol/non gol di Hurst ai supplementari, dopo il pareggio al 90° dei tedeschi, e della coppa Rimet consegnata dalla regina Elisabetta agli uomini di Alf Ramsey. La stagione successiva fu quella del settimo titolo conquistato ai danni del West Ham del trio Bobby Moore, Geoff Hurst e Martin Peters. Ormai il Manchester United era tornato a dominare in patria, ma restava l’Europa il grande obiettivo, il grande sogno. Il nuovo cammino in Coppa dei Campioni portò all’eliminazione di avversari come Hibernians La Valletta, Sarajevo e Gornik Zabre. Poi, il sorteggio delle semifinali indicò il Real Madrid. Come nella prima partecipazione del 1956/57, c’erano ancora i “blancos” a sbarrare la strada allo United in semifinale. All’Old Trafford una rete di Best sancì l’1-0. Nella gara di ritorno al Santiago Bernabeu, davanti a centoventimila spettatori, le reti di Pirri e Gento diedero subito il doppio vantaggio ai madridisti. Un’autorete di Zoco rimise in corsa i Red Devils, ma un gol di Amancio ristabilì il doppio vantaggio per i padroni di casa, che chiusero il primo tempo sul 3-1. Nell’intervallo Matt Busby diede la scossa ai suoi ragazzi, cambiò la posizione di David Sadler, e proprio il centrocampista riuscì ad accorciare le distanze. Infine, a dieci minuti dalla fine, un lungo cross di Best pescò il centromediano Foulkes incredibilmente libero nell’area spagnola, e fu il definitivo 3-3.

 

La finale era stata raggiunta, e Matt Busby avrebbe potuto finalmente saldare i conti col passato. Il senso di colpa per la tragedia di Monaco lo aveva continuato a tormentare, ma ora il suo capitano era pronto a guidare i Red Devils verso la vittoria. Era la primavera del 1968, imperversava la Swinging London, e proprio il Paese più conformista del mondo fu preda di un eccitamento vitalistico che contaminò il costume, la musica, il linguaggio, la sessualità e l’abbigliamento. Da King’s Road a Carnaby Street, un vento rivoluzionario fece vacillare le architravi di una società ingessata da un moralismo in doppiopetto, e Mary Quant, Twiggy, Veruschka, James Bond, i Beatles, e i Rolling Stones, furono fra le icone pop di uno stile di vita “a colori che voleva lasciarsi alle spalle il grigiore post bellico. Tutto mutò rapidamente, e quella breve stagione di fantasia al potere era simboleggiata dall’irriverente spregiudicatezza di un nuovo Busby’s Baby, il nordirlandese George Best.

Come si mantiene una promessa?

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Mantenere la promessa

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Finalmente il grande giorno arrivò. Era il 29 maggio 1968, e c’era la finale di Coppa Campioni da giocare proprio lì, a Wembley. Un match che doveva essere Eusebio contro Best. La “pantera nera” contro il “quinto beatle”, ma forse anche il grande attaccante del Mozambico quella sera capì che c’era un appuntamento col destino a cui lui non era stato invitato: nel primo tempo la traversa ribatté un suo gran tiro di sinistro e, allo scoccare del novantesimo, il portiere inglese Stepney gli parò miracolosamente una conclusione di destro che aveva già fatto gridare al gol. No, quella doveva essere la sera di Matt Busby, era la partita che i tifosi dello United aveva sognato di vincere chissà quante volte, con lo struggente effetto madeleine provocato dall’odore dell’erba e quel funny feeling, quella sensazione strana nell’aria, come se i novantamila di Wembley fossero accorsi allo stadio per essere testimoni di qualcosa che avrebbe trasceso il puro evento sportivo.

 

Cos’è una promessa, in definitiva? Un modo per prevedere il futuro, un filo sottile che, in una sorta di tempo sospeso, lega il desiderio del passato con la necessità del presente. E in quella sera di maggio, niente e nessuno avrebbe potuto impedire a un ex ragazzino timido di tener fede alla sua, di promessa. Bobby Charlton aprì le marcature e le chiuse, come fa un perfetto capitano. Poi volse lo sguardo al cielo, e sorrise. A loro modo, da lassù, scintillanti come astri senza atmosfera, Duncan, Roger, Geoff, Mark, David, Eddie, Liam e Tommy, ricambiarono quel sorriso.

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Maurizio Fierro

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