Il mito portoghese del superuomo nasce dalla geografia di un Paese stretto tra la Spagna e l'Oceano Atlantico. Ascesa e declino dello "special one".
“Non sono niente/non sarò mai niente/non posso voler essere niente”. Per parlare di José Mourinho non si può che partire da Fernando Pessoa. Per parlare della mentalità portoghese non si può che partire dalla geografia, da quella piccola striscia verticale come messa in castigo dalla storia, un continente intero alle spalle e un oceano infinito davanti, troppo vasto e troppo alieno per non essere assaliti da quella tristezza che è tipica del fado, definito anche “la stanchezza dell’anima forte che confida nel Destino”.
Per parlare dell’identità portoghese non si può che partire da una “differenza”, quella con la fin troppo ingombrante Spagna, fin da quando, nel 1580, Filippo II entrò da sovrano a Lisbona. Per capire il mito portoghese del superuomo alias “special one” non si può che partire dal suo opposto, dalla sua negazione, ovvero dal pluralismo ontologico di Pessoa, da quell’io multiplo che si confondeva nei suoi stessi fantasmi, che viaggiava nell’animo senza muoversi dalla sua Lisbona. Più che un io multiplo, quello di Mourinho è un ego integro autoalimentato, di dimensioni globali.
«Vi prego di non chiamarmi arrogante, disse nel 2004, quando vinse la Coppa dei Campioni col sorprendente Porto di Deco e Nuno Valente (forse l’unica squadra da lui allenata che abbia lasciato bei ricordi in quanto a gioco), ma sono campione d’Europa e credo di essere speciale». Da allora si porta dietro un soprannome che ammazzerebbe un toro ma che su di lui ha l’effetto di un afrodisiaco, fatto subito suo da una stampa sempre incline al pecoronismo: lo special one.
«Non sono il migliore del mondo, diceva ancora nel 2008, ma penso che nessuno sia meglio di me».
Ecco una serie di “aforismi” dello “special one” quando vita e pensiero andavano ancora d’accordo
Qualche anno fa, dopo lo scudetto e la Champions League vinte con l’Inter, erano in molti a pensarla come lui. Soprattutto i giornalisti, nei confronti dei quali Mourinho non ha mai fatto molto per nascondere un fastidio esistenziale, e che da parte loro hanno sempre fatto ben poco per smentire la propria, strutturale pochezza di pensiero, esaltando così senza volere uno degli aforismi verbali più fulminanti del portoghese: “Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio”. Ora, però, molti osservatori sono stati obbligati a praticare, nei suoi confronti, un certo revisionismo critico. Perché dopo l’Inter Mourinho avrà anche conquistato un paio di titoli (in Spagna col Real Madrid, in Inghilterra col Chelsea), ma tra mille malumori e incazzature.
E’ indubbio che il mito dello special one è ormai più che impallidito, minato da crepe interne in fondo già visibili fin dall’epoca dei fasti: la minuscola capacità di saper vivere la sconfitta (tanto da spedire volentieri in conferenza stampa del dopo-partita i suoi vice); la frequente dimenticanza di quel respect nei confronti di arbitri e avversari così insistentemente richiesto a colpi di costosi spot dalla UEFA; le malcelate idiosincrasie nei confronti di certi suoi giocatori nonostante le proverbiali avvertenze (la prima cosa che ci disse, ha raccontato una volta Hernan Crespo, fu “non tenete conto di quel che dico ai giornalisti”).
La capacità indiscussa di stressare o “motivare” (così i suoi irriducibili fan) lo spogliatoio, tale da farne il precursore di una delle due principali scuole affermatesi in questi ultimi anni, quella che ha il suo più esagitato epigono nell’ex Juve ed ex nazionale Conte che proprio di Mou ha preso il posto sulla panchina del Chelsea, quel Conte a cui paradossalmente un paio di settimane fa Mourinho ha sussurrato all’orecchio, al termine di Chelsea-Manchester United, tutta la propria disapprovazione per il modo in cui il leccese continuava ad aizzare i tifosi perfino dopo la rete del 4 a 0 (l’altra scuola è quella che s’ispira a Guardiola, più manovriera sul campo e più amabile negli spogliatoi, in genere adottata da ex fuoriclasse, vedi anche Zidane o Luis Enrique); la spiccata attitudine a prolungare il suo ego oltre il campo da calcio, come dimostrano le varie campagne pubblicitarie di cui si è reso protagonista (American Express, Lipton, l’Adidas, la sambuca Molinari, fino all’ultima, quella per la Heineken (sponsor della UEFA) in cui invita tutti a godersi lo spettacolo della Champions League dal quale lui è rimasto escluso).
https://www.youtube.com/watch?v=jgZA7pcVZTw
Il paradosso Mourinho
Tutte caratteristiche che tre anni fa avevano sconsigliato i dirigenti dei “red devils”, alle prese con il dopo-Ferguson, dall’arruolarlo. “Quando scegliamo un allenatore, noi non guardiamo solo all’aspetto tecnico”, fecero sapere, quasi a spegnere ogni chiacchiera giornalistica e ogni semiesplicita ambizione del diretto interessato. Poi, gli effetti prolungati della crisi (i Moyes, i Van Gaal, i milioni di sterline distribuiti a centinaia, l’ansia crescente per risultati che non arrivavano mai) devono aver preso il sopravvento, favorendo un matrimonio calcistico celebrato a suon di sterline: venti milioni di sterline all’anno, per tre anni.
Un ingaggio che dire esorbitante è un eufemismo, paragonabile per una allenatore solo a quello ottenuto da Lippi chiamato in soccorso di una nazionale cinese dannatamente in crisi nelle qualificazioni ai prossimi mondiali; senza contare l’altra vagonata di soldi spesi (sperperati?) per una campagna acquisti già passata alla storia per i 100 milioni di euro per Paul Pogba, come previsto dal sito Paripesa.L’accoppiata Mourinho-Ibrahimovic, per quanto poco efficace in quanto a modestia (o forse proprio per questo), era già data per vincente da molti, con i padroni del club convinti di aver imboccato finalmente, dopo tanti sprechi e tante delusioni, la strada giusta. Sbagliato.
Partito in quarta, il Manchester di Mourinho e di Ibrahimovic dopo dieci giornate sembra sempre quello di Moyes e di Van Gaal: senza gioco, con la chiorba ricciuta di Fellaini che sembrava la prima cosa di cui disfarsi ma che invece continua a vagolare in mezzo al campo, con un Rooney che pareva insostituibile riuscito a fare invece il suo debutto in panchina, con un Pogba che ballonzola su e giù, a destra e sinistra senza far capire a nessuno quale possa essere la sua posizione tattica, forse perché nessuno ancora gli ha detto quale debba essere.
Nel calcio, si sa, è come nella vita: insuccessi e nervosismo sono inversamente proporzionali. Figuriamoci per uno arruolato non certo nel quadro di un’operazione-simpatia ma con lo scopo dichiarato di tornare a vincere costi-quel-che-costi, e che ora si ritrova ad annaspare in Premier League, incapace di contenere gli attacchi di nervi, squalificato e anche multato: 8mila sterline per l’ultima aggressione verbale a un arbitro, nell’intervallo di Manchester Utd.-Burnley (finita poi in parità) più altri 50mila per i commenti fatti su un altro arbitro prima della partita contro il Liverpool.
«Forse ho vinto troppo presto e a volte mi sento vittima del mio stesso successo», ha cercato di spiegare lui tempo fa.
Forse. Certo che ora Mourinho, nonostante i Rooney, i Pogba, gli Ibrahimovic sembra l’ombra di se stesso. E non è questione di schemi, di posizioni o di manovre, visto che il cosiddetto calcio-champagne le sue squadre lo hanno sempre visto in cartolina, esaltandosi invece quando c’era da difendere. Il fatto è che sembra aver perso la sua vera arma segreta, quella dell’ascendente esercitato sui giocatori, come si era capito lo scorso anno al Chelsea, quando a metà campionato, dopo la “spremuta” dell’anno precedente, gran parte dei suoi giocatori gli avevano voltato le spalle, decretandone di fatto l’esonero anticipato, e come si sta capendo anche ora a Manchester, con i giocatori che hanno perso l’entusiasmo e lui che li accusa di impegnarsi quanto in una partitella estiva, e con migliaia di tifosi (magari in parte gli stessi che quest’estate si dimostravano entusiasti del suo arrivo) scatenati su twitter a chiederne l’esonero “prima che faccia troppi danni”…
Mourinho sembra aver ora deciso di ribaltare completamente l’immagine da dare di sé: “La mia vita a Manchester è un disastro”, ha affermato infatti in una recente intervista. Non più lo special one, l’uomo-Denim (quello che “non deve chiedere mai”), ma l’uomo normale, l’uomo che vive solo soletto in albergo senza la famiglia rimasta a Londra, ormai inseguito solo dai soliti giornalisti; non più il superuomo acclamato ma l’uomo qualunque da compatire che per di più si lamenta di non saper cucinare, alle prese addirittura con la sindrome da riconoscibilità.
“Qualche volta ho voglia di fare due passi e non posso. Voglio attraversare un ponte e andare a cena a un ristorante. Ma non posso, ed è decisamente fastidioso”
. Se tutto ciò rientri in un calcolato cambio di strategia personale, o denoti invece, uno sconfortato (e paradossale, visti i compensi e i privilegi davvero speciali) sussulto di sincerità, difficile dire. Certo è che mai come ora le azioni di questo portoghese milionario col mito del superuomo incorporato sono state tanto in ribasso, accusato di non saper più fare nemmeno la cosa che sapeva fare meglio: comunicare.
Chissà che nelle serate passate nella sua lussuosa camera d’albergo di Manchester abbia mai pensato con invidia a un’altra solitudine, quella di Fernando Pessoa, di quel poeta che passò la sua vita a scrivere, a bere e fumare, frantumandosi e esaltandosi nelle diverse identità di alter ego come Bernardo Soares, quello del “posso immaginare tutto perché non sono niente”: con meno glorie e onori materiali, certo ma con un’ “inquietudine” decisamente meno fine a se stessa…