Il calcio che fu, descritto dalla deliziosa penna di Vladimir Dimitrijevic. Uno di quei libri da leggere e custodire gelosamente.
Ogni volta che leggo un libro mi munisco sempre di una matita, in modo tale da poter sottolineare le frasi che più mi colpiscono. Leggendo questo testo di piccole dimensioni – appena 146 pagine nell’ed. Adelphi, ma dotato di un contenuto difficilmente misurabile – mi è capitato spesso di fermarmi a sottolineare. Basta la copertina in questo caso, per essere sicuri che vale la pena avere questa opera nella propria libreria. Perché se si tratta di uno scrittore di origine balcanica, serbo, che parla di calcio, non può di certo essere qualcosa di deludente o noioso.
Il libro corre su due linee parallele: la vita dell’autore, nato nella ormai ex-Jugoslavia ed emigrato negli anni cinquanta in Svizzera e il mondo del pallone in quegli anni.
“Non sono né le tenute eleganti, né i parquet, né i prati ben curati a rendere sano il corpo. E’ il desiderio interiore di prodigarsi, di conoscere la gioia”.
I ricordi la fanno da padrone, Dimitrijevic ci spiega la vita negli anni della seconda guerra mondiale, il comunismo e la volontà di cambiamento, il tutto sognato dando dei calci al pallone. Un tempo in cui le rivoluzioni si facevano rincorrendo un oggetto sferico, con la speranza di emulare gli interpreti di una delle nazionali più forti di sempre, la grande Ungheria. Anni nei quali giocare contro l’URSS significava evitare di vincere per il proprio bene, ma vi erano uomini prima che calciatori, coraggiosi al punto tale da andare contro le “regole”, contro il regime, contro Stalin. Il libro è apparso nel 1998, in concomitanza con uno dei primi eventi in grado di mostrare come il calcio stesse cambiando, i mondiali di Francia. Quella dell’autore è una lucida visione di ciò che il calcio stava diventando: un parco giochi per finanziatori, investitori, multinazionali e campagne pubblicitarie. Un altro strumento per fare soldi, tutto qui. La comparazione tra passato e imminente futuro non riguarda solo l’ambito economico-finanziario, ma anche le caratteristiche fisiche dei giocatori: atleti dotati di differenti potenzialità che col tempo sono stati sostituiti da palestrati in miniatura, più attenti ai muscoli e all’aspetto estetico che al gioco.
“I calciatori valgono dieci, venti, cento miliardi, c’è un’inflazione che tende all’astrazione. I finanzieri, i procuratori, gli intermediari mica si occupano di calcio solo per passione, perché il calcio ha assunto una tale importanza mediatica che le imprese ne hanno fatto un volano pubblicitario strategico. È meglio di uno spot televisivo! Si gioca quindi per giustificare gli investimenti delle grandi multinazionali come Fuji, Kodak, Coca-Cola, che sponsorizzano magliette, calzoncini, scarpe, naso e orecchie dei calciatori. I quali giocano completamente ricoperti di decalcomanie”.
La comparazione effettuata da Dimitrijevic è anni luce lontana da quella dei giorni nostri, che ci sta logorando l’esistenza, portandoci quasi ad odiare i tempi che furono. La sua analisi va ben aldilà del semplice una volta era meglio. Il suo è un vero e proprio studio, effettuato con tatto, sentimento, eleganza e cultura, che solo uno scrittore può avere. Un visionario, capace di comprendere dai primi segnali ciò che si sarebbe verificato ai giorni nostri. Come la stampa abbia il potere di innalzare a divinità un calciatore per una buona prestazione, e la settimana successiva etichettarlo come bollito. Come la figura dell’arbitro abbia assunto sempre più importanza nel contesto del match, portando gli opinionisti a parlare più degli errori di quest’ultimo che delle gesta dei ventidue in campo.
“Che volete, i veri signori abbandonano lo stadio, mentre diventano sempre più frequenti le gare di simulazione e dissimulazione che a quanto pare piacciono alla folla”.
Dimitrijevic ci descrive attaccanti come Müller, Sanchez, Stojkovic, Schillaci e Rossi non ricordandoci il numero di gol o le loro prestazioni, ma narrandoci dei loro sguardi. Sguardi da predatori, pronti a divorare il pallone. Tra un ricordo e l’altro della propria infanzia e degli idoli jugoslavi, ci spiega perché a Maradona tutti offrirebbero da bere, mentre da Beckenbauer ci si aspetterebbe che il giro lo offrisse lui. Mostrando la sua totale ammirazione verso giocatori e uomini come l’argentino, personaggi nati per non rispettare le regole, dinanzi ai quali – secondo l’autore – anche le donne lascerebbero le buste della spesa per osservarli praticare la loro arte, il calcio.
“Il pubblico di Belgrado è esperto ed esigente. Se in squadra non c’è un giocoliere, protesta:
«Che storia è questa? Ridateci i soldi!»”.
Nonostante intorno a questo sport si formi uno spettacolo delle dimensioni incalcolabili, finendo a volte per farci dimenticare lo scopo reale del calcio, ci pensa la penna serba a ricordarci che l’obiettivo è uno solo: fare gol. Utilizzando l’arto meno preciso del nostro corpo, il piede. Dimitrijevic ci narra di un calcio come ragione di esistenza, come una medicina da prendere per superare un lutto familiare e di un oggetto sferico capace di far sparire imperfezioni fisiche, nel momento in cui viene sfiorato.
“Il calciatore vero si riconosce immediatamente, non lo si può inventare né simulare; il suo è un qualcosa di innato, un dono, un tocco inimitabile, l’arte di stoppare la palla; una cosa che non si impara”.
Concludo con le parole di Joël Dicker, che descrivono al meglio la sensazione che proverete una volta aver finito di leggere questa piccola gemma. «Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito».