Se fossimo in qualche secolo del passato, quando i nomi erano tradotti letteralmente o volgarizzati, allora la vicenda di Lancillotto Fortebraccio avrebbe certamente richiamato una bella penna a farne novella o romanzo. Invece no, siamo nell’epoca del transumanesimo e dell’ipercomunicazione globale, e il caso del fu campionissimo Lance Armstrong dobbiamo conoscerlo con gli strumenti aridi della contemporaneità.
L’ultima su di lui ci arriva così per articolo di un francese, Antoine Vayer, che su Mundo Deportivo ha spiegato che il sette volte maglia gialla aveva “inoltre” un trucco per guadagnare velocità a dispetto dei rivali: un minuscolo motore installato sulla bicicletta. Certificando dunque che dopo la fase della sorpresa per la magagna del doping, del corretto sdegno, del trionfo della giustizia e della punizione esemplare, eccoci alla commedia, ovvero alla più classica fra le barzellette sul ciclismo. Appunto, la bici motorizzata.
Il ritratto di un baro (Ph Bryn Lennon/Getty Images)
Eravamo rimasti qualche pedalata indietro, in tempi di pandemia, con Armstrong su Instagram – e dove sennò – che spronava i colleghi professionisti con queste parole:
«Ai ciclisti che stanno aspettando di tornare a gareggiare a casa e che non sanno se riceveranno il loro stipendio alla fine del mese, e se la loro squadra sopravvivrà a questo periodo, io dico: questa è un’opportunità da cogliere».
Il consueto adagio sull’etimologia di “crisi”, che in greco antico si declina anche come “decisione” e blablablà. «Questo è il momento in cui si possono ridisegnare le proporzioni nel mondo del ciclismo, è la possibilità di sedersi al tavolo e di prendere il potere. Se non cogliete questa occasione, potreste non averla mai più. Pensateci, parlatene tra di voi, parlatene in gruppo. Siete gli attori dello spettacolo. E senza attori, non si può mettere in piedi nessuno spettacolo».
Bontà sua, perché Lance mattatore lo è stato sempre, qualcuno avrebbe potuto incriminarlo per il reato di ingenuità. Però Armstrong è di quei protagonisti che un certo mondo, quello da egli citato del ciclismo, tende a volere dimenticare in quanto eroe sì, ma del guaio maggiore che la più epica delle discipline sportive si porta sempre dietro, la “bomba”. Questo per dire insomma che l’atleta statunitense nessuno se lo fila più, e anche la novità del motorino, su cui torneremo, non ha scosso più di tanto i rotocalchi. Eccezione nostra.
Lance Armstrong ha segnato a modo suo la storia del ciclismo (Ph Doug Pensinger /Allsport)
Da questa infatti vogliamo trarre lo spunto per riparlare in breve dello straordinario Lance, uno che per destino e sua volontà normale non è stato. A partire dal cognome Armstrong, Fortebraccio, che volle prendere dal patrigno – era nato Gunderson, come un vichingo qualsiasi sulla mediana di Europa Legue, ma papà aveva alzato i tacchi. Fortissimo da subito in tutto: nel nuoto, a una bracciata dalla selezione americana, e poi nel triathlon, la triplice disciplina che all’acqua aggiunge la corsa a piedi e soprattutto la bicicletta. Dove finisce per sedersi e non scendere più.
Anno 1993, ventiduenne: è campione nazionale a Filadelfia, vincitore di una tappa in un Tour dominato – guardare il caso – da Indurain e anzi, il più giovane vincitore dal Dopoguerra a oggi di una tappa del Tour, e infine campione del mondo su strada a Oslo a fine agosto davanti proprio a Miguelon. Vera gloria? Dai posteri l’ardua sentenza è stata già data. Tre anni dopo, intanto, la sciagura di un carcinoma in fase avanzata, con metastasi quasi ovunque. Addome, polmoni, cervello. Venti mesi a combattere, sia detto senza retorica, e finalmente a sopravvivere.
Così la storia sportiva di questo marcantonio del Texas, talentuoso e tenace, riprende e si fa epopea: l’anno appena dopo vince il primo Tour, succendo a Marco Pantani, poi sette di fila battendo il primato di, ancora lui, Indurain, che di maglie gialle in armadio ne ha cinque. Si sprecano (verbo indovinato) le apologie, gli inni, Armstrong supera in fama gli omonimi Louis e Neil, e per un po’ tra il pubblico incitante al traguardo fa capolino Sheryl Crow, diva della musica con cui Lance ha una relazione. Un esemplare di “mito di oggi”, se Roland Barthes lo avesse visto.
La caduta di Lance Armstrong dalla sua bicicletta riecheggia ancora oggi (Ph Doug Pensinger/Getty Images)
E siccome di mito vero si tratta, ecco pure l’immancabile insegnamento dai classici: tanto più in alto si arriva, quanto più lunga e rovinosa sarà la caduta. La scoperta dell’uso di sostanze dopanti, i processi con inequivocabili prove, i silenzi e la goffa difesa, sono tutte cose note e sulle quali non vale tornare. Come anche ribadire la condanna, morale prima di tutto, che però dispettosamente ci permettiamo di estendere anche all’ammissione tardiva di Lance non in sé ma per il luogo eletto, il salottino di Oprah Winfrey quella volta in versione Bates Motel.
Torniamo piuttosto a grattarci il capo sulla rivelazione di Antoine Vayer, al quale crediamo per fisiognomica, e diamo nel dettaglio la notizia.
In alcuni video di gare passati al setaccio dal giornalista, e portati all’attenzione da Mundo Deportivo nel suo sito, si nota Armstrong toccare la parte posteriore del sellino e aumentare di colpo l’intensità della pedalata, come fosse il turbo dei videogiochi.
Dicono si tratti di una diavoleria pesante 800 grammi e occultata all’interno della bicicletta, composta da un motore di 500W e da una batteria messa all’interno della borraccia. Ne parla con cognizione di causa Harry Gibbings, a capo dell’azienda che la produce, ma che ci assicura su una cosa: «Non è come andare in moto. Bisogna lavorare sodo per farlo funzionare». Praticamente tocca pedalarci sopra, e certo sarebbe stato sospetto se Lance, in salita, fosse andato a razzo coi piedi sul manubrio, ma grazie tante a mister Gibbings per la puntualità.
Piuttosto, in conclusione, una prece. Se fosse vero, e confidiamo ancora in Oprah per tale futura garanzia, in quell’albo d’oro del Tour dove tra Marco Pantani e Oscar Pereiro c’è la grigia dicitura di “non attribuito”, allora che si metta almeno una didascalia, una epigrafe che dia atto al genio della meccanica piuttosto che la damnatio memoriae del baro della farmacia: “Qui vinse uno in motorino”.
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