Compendio di storia romanista 1927-1993 per sopravvivere al 28 maggio.
I. Ferraris IV, “bravo, nazionale e capitano”
Attilio Ferraris è l’Abramo dei romanisti: nato a Borgo Pio nel 1904, nella sua pur breve esistenza si sublimano tutte le caratteristiche (positive) della romanità e del neonato romanismo. Detto Quarto perché nella sua numerosa famiglia vocata al calcio i tre fratelli maggiori già giocavano nelle allora squadre della capitale. La prima profezia si consuma quando ancora giovanissimo attira le attenzioni della Juventus che invia dal padre, Secondo (sic!), due emissari per presentare un’offerta. Il padre, che per giunta era di origini piemontesi e di mestiere era bottegaio nei pressi di Cola di Rienzo, rispose ai due signori “io non vendo mio figlio“.
‘Tilio’, come era soprannominato, inizia la sua carriera di metodista aggressivo, ma allo stesso tempo dotato di una certa educazione tecnica, alla Fortitudo dove gioca fino alla fusione del ’27. Allora diviene il primo capitano romano e romanista e lo sarà fino al ’34 segnando, insieme a Bernardini, il centro nevralgico della Roma testaccina. Amatissimo dai tifosi, si racconta di un episodio pittoresco: uscito infortunato da uno scontro di gioco la gente accorse così numerosa all’ospedale da obbligare il portiere dello stabile a gestire con dei turni il traffico delle visite alla camera ove era ricoverato. Di nuovo la Juve che nel ’27 lo corteggia lungamente. Un ambasciatore bianconero, un giorno, si presenta di nuovo a Roma dal padre Secondo per cercare di strappare l’ingaggio del figlio, mette sul piatto 20 mila lire ed il genitore risponde seccamente:
«Non ho venduto mai mio figlio e non intendo farlo adesso».
Di temperamento bonario, scanzonato e generoso, come tradizione romana pretende, cedette a Bernardini la fascia di capitano dicendo “A Fu’, tu sei er mejo, fallo te er capitano“. Fuori dal campo i coevi lo descrivono come un guascone vizioso: amante del bon vivre, vestiva in modo ricercato, guidava auto di grossa cilindrata, andava a donne e giocava d’azzardo (“Si avessi ancora i sordi persi a poker, ai cavalli e ai cani, ma sai quanti sordi me giocherei ancora!!!, diceva ridendo). L’attitudine alla trasgressione gli costò quasi la carriera quando nel ’34 il presidente Sacerdoti, che era solito proteggerlo come un figlioccio, non potè nulla contro l’ira del mister Barbesino furioso per l’ennesimo ritardo ad un allenamento. Fu messo fuori rosa ed a 30 anni rasentò il ritiro. Il c.t. Pozzo andò in visita nella bisca di cui era proprietario e lo trovò gradasso al tavolo di biliardo con una sigaretta in bocca. Gli strappò la promessa di smettere di fumare e di allenarsi con zelo in vista del mondiale ospitato dall’Italia dove si laureò campione del mondo.
L’inattesa rinascita suscitò l’interesse della Lazio che lo acquista lo stesso anno per 150 mila lire. Qualche anno prima durante un match coi biancocelesti si era preso un colpo di moschetto in faccia durante una rissa. La conseguente sommossa popolare costrinse la dirigenza giallorossa ad inserire una penale nel caso fosse stato schierato al derby. A pochi giorni dalla prima stracittadina da laziale venne recapitato un assegno di venticinquemila lire con una nota che informava la convocazione di Ferraris per la partita che giocò regolarmente. All’ingresso in campo i romanisti urlavano “venduto, venduto!”, i laziali rispondevano beffardi “comprato, comprato!”. Non si conosce esattamente la sua posizione in merito, il derby era già allora una cosa seria, questo è certo. Dopo un passaggio al Bari termina la carriera professionistica con l’Elettronica a quasi quarant’anni.
L’ottima carriera in Nazionale – fu uno dei ‘Leoni di Highbury nel novembre del ’34 – solletica la suggestione di un De Rossi ante litteram. Foga ed agonismo furono i suoi principali pregi ma a renderlo pilastro della leggendaria Roma di Campo Testaccio fu il carisma da trascinatore. Incitava i compagni prima di una partita dicendo
“Chi da’ ‘a lotta desiste fa ‘na fine morto triste, chi desiste da’ ‘a lotta è ‘n gran fijo de ‘na mignotta!”.
Si spegne a Montecatini Terme per un infarto giocando una partita tra vecchie glorie nel 1947. Al suo funerale non si trovò una maglia della Nazionale col suo numero da inserire nel feretro, l’eterno amico Bernardini ne porse una sua. La lapide recita “Attilio Ferraris, Campione del Mondo”.
II. Fuffo Bernardini, “che da scola all’argentini”
Fulvio Bernardini è romano ma è difficile rubricarlo come romanista. Personaggio che ha segnato profondamente i primi 50 anni di calcio professionistico italiano da calciatore e da allenatore. La società ha deciso di intitolargli il centro d’allenamento di Trigoria scatenando le proteste di mezza Serie A. Pensare che un personaggio come Fulvio a 21 anni giochi nell’Inter, lavori in Borsa, studi economia alla Bocconi e nei pomeriggi liberi si tolga lo sfizio di segnalare ad Arpad Weisz (l’Ancelotti di allora) il giocatore cui Milano dedicherà il suo stadio (Meazza) forse ne segna la misura della sua grandezza. Esordisce a quasi 14 anni come portiere con la Lazio e dopo tre anni, pare per un brutto infortunio rimediato tra i pali, decide di diventare centravanti.
Poi l’Inter e nel ’28 la Roma di cui sarà l’anima insieme a Ferraris segnandone l’intera epopea testaccina. Negli anni da capitano accade un episodio singolare: alla guida della sua Lancia Astura compie uno spericolato sorpasso in piazza Venezia che causa un tamponamento con una macchina alla cui guida c’è Benito Mussolini. Due gendarmi gli si avvicinano poco dopo e gli ritirano la patente. Grazie all’intermediazione di Eraldo Monzeglio – difensore bi-campione del mondo, amico personale di Mussolini, in quegli anni alla Roma – si organizza una partita di tennis a Villa Torlonia proprio contro il Duce dove, si narra, Fuffo perse volontariamente per riottenere la licenza di guida. Nel ’39 finisce l’avventura da capitano dei giallorossi che dopo la sua partenza si trasferiscono anche da Campo Testaccio: fine di un’epoca.
Pur cantato dai contemporanei come grande talento, dotato di una proporzione di classe e grinta, la stella di Bernardini brillerà anche, e forse soprattutto, da allenatore. Allena anche la Roma nel ’49-’50 ma viene esonerato a metà stagione, a Firenze vincerà uno scudetto nel 1956, con la Lazio una Coppa Italia nel ’58 ed infine un altro scudetto nel Bologna di Bulgarelli e Nielsen nel ’65. Poi Samp e addirittura il ruolo di ct della Nazionale tra il ’74 ed il ’77. Muore di SLA nel 1984. Considerarlo un’eterna bandiera romanista non è affatto un’appropriazione indebita ma deve riconoscersi che nella sua lunga carriera di calciatore ed allenatore la sua fama abbia raggiunto un tenore nazionale più che cittadino.
III. Amedeo Amadei, “Fornaretto”
Amadei è stato il primo ‘ottavo re di Roma‘ e forse il primo calciatore idolatrato della città in una concezione moderna (qui Totò lo enumera tra i veri sette Re di Roma). Inaugura anche l’anomala schiera di capitani romani e romanisti dal carattere schivo, introverso, atipicamente ma orgogliosamente romano. Detto ‘Fornaretto’ in quanto natio di due fornai di Frascati (argomento usato a sproposito per infangarne la fama, nel’ ’83 affermò “Sono di Frascati ma mi sento come se fossi nato a Testaccio“).
A nemmeno 14 anni, essendo l’unico figlio maschio, è il garzone del negozio di famiglia ed effettua le consegne in bicicletta (altra sua grande passione, il suo idolo è Learco Guerra). Un giorno, all’insaputa dei genitori, discende i Castelli Romani per l’Appia e la Tuscolana in direzione Campo Testaccio ove era in programma la leva delle classi 1919-20-21-22.
Passato il provino, la Roma comunica alla famiglia la data di convocazione dell’allora giovane ala incontrando la strenua resistenza del padre Antonio che non vuole, e non può, privarsi della sua manodopera. Intercedono le sorelle Antonietta ed Adriana ed il giovane Amadeo a 14 anni si aggrega alla Roma. In allenamento attira già le attenzioni di Bernardini, Masetti e dei nazionali campioni del mondo Serantoni ed Allemandi.
Esordisce in serie A ad aprile 1937 a soli 15, 9 mesi e 6 giorni – il record è stato eguagliato dal giovane 2001 Pellegri del Genoa a dicembre – in 2 a 2 casalingo con la Fiorentina. Il ‘Littoriale’ del giorno seguente è profetico: “Amadei è un’ottima promessa“. Il 9 maggio dello stesso anno sigla la sua prima rete contro la Lucchese, questo primato è tuttavia ancora imbattuto.
Trascorre un anno in prestito all’Atalanta per tornare alla Roma nell’estate del ’39 ed iniziare la sua transizione definitiva al ruolo di attaccante. Con Schaffer, nel 1940, inizia stabilmente ad offendere, segna una tripletta al Venezia il 27 ottobre sostituendo l’influenzato argentino Provvidente (forse il primo di una lunga serie di flop esotici per la Roma), da allora la Nove è cucita sulle sue spalle.
La consacrazione avviene nella stagione successiva dove a suon di gol trascina la Roma a vincere il suo primo scudetto. Il 26 aprile del ’42 i giallorossi sono secondi ad un punto dal Torino e vanno al Sant’Elena di Venezia, terza in classifica. Le cronache parlano di una leggendaria partita del portiere Masetti in giornata di grazia: 1-0 con rete di Amedeo.
Gli anni a seguire sono difficili e Amadei viene addirittura squalificato a vita per via di una rissa avvenuta durante una partita di Coppa Italia contro il Toro. Tornai negli spogliatoi sotto di un gol i romanisti trovano undici forbici su un tavolo a dire “scucitevi lo scudetto”. Nella ripresa la partita è nevrotica, ne esce una zuffa dove Dagianti della Roma tira un calcione ad un guardalinee. Interviene addirittura la polizia e la partita si decide a tavolino a favore dei granata. L’arbitro mette erroneamente a referto che colpevole del brutto gesto è Amadei, in seguito soggetto ad un’inchiesta che lo squalifica a vita. Rientrerà solo in seguito all’amnistia.
In tutti gli anni ’40 è uno dei più forti attaccanti d’Italia e diventa l’oggetto del desiderio di mezzo campionato. La Roma non gli garantisce competitività e a settembre 1948 si trasferisce all’Inter. Spiegherà, con una lettera ai tifosi, che la mancanza d’ambizione della società lo ha portato all’addio. Nei suoi 8 anni da calciatore lontano da Roma (ne trascorre anche sei a Napoli) pretenderà sempre e comunque che il contratto lo esoneri dal giocare contro la Roma.
“Quando passai all’Inter e poi al Napoli, misi subito le cose in chiaro: quando incontreremo la Roma io non giocherò, dovesse pur essere una partita decisiva per lo scudetto. Non potete pretendere che io pugnali mia madre“.
La Roma non si discute si ama, Renato Rascel il giorno della retrocessione in serie B del ’51
IV. Giacomo Losi, “core de Roma”
La prima bandiera extra moenia della Lupa. Giacomino Losi non nasce a Roma bensì a Soncino, nel cremonese, il 10 settembre del ’35. Terzo nella classifica delle presenza all time in maglia giallorossa dopo due facilmente immaginabili, è stato esempio imperituro di generosità e passione in campo malgrado limiti fisici (alto 1,68, poco per un centrale) e tecnici. A soli 10 anni si unisce alla Resistenza – consegnava bombe e nastri di mitragliatrici ai partigiani, esperienza che si può presumere lo abbia forgiato – a 19 anni viene ceduto dalla Cremonese alla Roma per 7 milioni e mezzo di lire. Giocherà e capitanerà per quindici anni una Roma sporca e cattiva, non forte ma vincente per gli standard (nel ’61 arriva l’unico successo europeo dei giallorossi, la Coppa delle Fiere, nel ’64 la Coppa Italia).
Sull’appellativo ‘core de Roma’ si annida una querelle storica: la versione qualificata dice che gli fu dato l’8 gennaio del ’61 durante una Roma – Samp. La partita si gioca in un pantano – piovve a dirotto per tutta la mattinata – e i lupi sono sotto 2-1 con un uomo in meno (il capitano Guarnacci esce a seguito della rottura del ginocchio sinistro). Ridotta in 10 – all’epoca non v’erano sostituzioni – la Roma rischia di perdere anche Losi che rimedia uno stiramento all’inguine ma decide, malgrado i consigli dei medici, di non abbandonare il campo. Manfredini pareggia insperatamente e al ’79 il piccolo Losi svetta su calcio d’angolo per trovare l’incredibile gol rimonta e vittoria per i romanisti. Lo stesso però afferma che il soprannome gli è stato affibbiato l’anno seguente: è il 25 febbraio e all’Olimpico c’è il Milan futuro campione d’Italia. Il match termina 0-1 con sfortunata autorete di Losi che si accascia disperato a terra. Tutto lo Stadio ne invoca il nome a conforto, ‘Mino’ il non romano è l’idolo dei romanisti.
La sua carriera alla Roma finisce per una lunga serie di litigi con la dirigenza durante la nefasta esperienza del mago Herrera come allenatore della Roma. Nel ’69 la società gli invia una lettera in cui comunica la volontà di non rinnovare il contratto. “Non mandarono nessuno a dirmelo e nessuno venne a salutarmi. Fu deprimente”dirà anni dopo. Il pericoloso precedente segnerà il triste epilogo di altre bandiere. Quarta figura del nostro compendio e quarta conclusione della carriera con una casacca non giallorossa: rifiutati altri grandi club Losi si accasa al Tevere Roma (serie D) per qualche mese prima di ritirarsi. Volto umile ed esempio di dignità ha rappresentato al meglio una Roma pugnace.
V. Agostino
L’idea di poter inserire Di Bartolomei in un autoproclamato compendio è di per sé un insulto alla sua memoria. Di alcuni personaggi semplicemente non si può né parlare né scrivere, si può tutto al più esperire il tentativo. La grandezza di questi personaggi non può angustiarsi in un pezzo. Ad Agostino non può essere dedicato un ritratto, gli andrebbe intitolato lo stadio della Roma. Agostino Di Bartolomei è esattamente tutto quello che Roma ed i romani non sono e mai saranno, Ago è silenzioso, introverso, gli occhi comunicano malinconia. È depositario di una sofferenza congenita, non integra nessuno stereotipo della romanità spavalda e chiassosa.
Forse, e si ripete forse, qui ha origine quel latente senso di inadeguatezza e di disagio che lo assillerà per tutta la vita. Essere il più romano dei romani, senza i tratti esacerbati della romanità. Essere così implicitamente romano da permettersi il lusso di parlare un corretto italiano. Tutta la bellezza del suo personaggio risiede in quella fragile mitezza nel fragore del calcio degli anni ottanta.
Un primo episodio inquietante avviene nella plumbea Roma degli anni ’70 dove il primo tifo organizzato collima con il terrorismo: inizia a ricevere minacce da un gruppo anonimo di ultras (ignoti i motivi, forse l’invidia per un diciannovenne già titolare) che lo spingono a munirsi di una pistola dando inizio a quell’esistenza cupa che lo ha tormentato fino al maledetto 30 maggio del ’94.
La sua carriera inizia nella Rometta degli anni ’70, una squadra caricata da frustrazione e senso d’impotenza dopo un digiuno di successi decennale (e per lo scudetto si parla di quarant’anni). Con l’arrivo alla presidenza di Viola ed in panchina di Liedholm Dibba viene messo al centro di un progetto tecnico che già nell’ ’80, con la conquista della Coppa Italia, si trova nell’anticamera della leggenda.
Iniziano i meravigliosi anni ottanta: il gol di Turone all’epoca non ha segnato, come viene erroneamente ricordato oggi, l’alibi dei perdenti ma la consapevolezza di essere forti al punto di poter raggiungere il tanto anelato Scudetto. Agostino è la proiezione in campo dell’allenatore svedese: il Barone lo immagina cervello della squadra dalla linea difensiva e lo trasforma, contro ogni scetticismo, a ‘libero’. Seppur non veloce, dopo un’iniziale incertezza il 10 di Tor Marancia si troverà a suo agio al centro della difesa.
Il 6 marzo ’83 l’inseguitrice Juventus si presenta all’Olimpico, la Roma deve resistere. Le Roi Platini pennella una punizione perfetta e batte Tancredi, 2-1 e giochi scudetto riaperti. Per una piazza calcistica con l’attitudine allo psicodramma il rischio di precipitare è concreto. Non quel giorno. A capitanare la Roma quel giorno c’è Agostino Di Bartolomei, il condottiero silenzioso. La settimana successiva a Pisa una delle sue ‘bombe’ sigla uno dei successi chiave per il titolo. Il primo maggio è suo il 2-0, sempre con bolide da fuori area, contro l’Avellino.
Lo Scudetto è a un punto, a due giornate dalla fine. La sua esultanza è eccezionalmente sfrenata e liberatoria. A fine partita Galeazzi gli chiede “andremo in porto o no?”e la risposta rappresenta esattamente la statura morale del personaggio “in porto sicuramente, vediamo di arrivarci col vessillo”. Una volta intervistato da Enzo Tortora nel 1980 aveva detto che i suoi desideri erano “lo scudetto che prima o poi arriverà, e che periferia significhi ancora amicizia e aiuto reciproco, mentre l’indifferenza verso gli altri regna sovrana…”.
Alle 17:45 dell’8 maggio, come dirà il compianto Viola, la Roma allontana un incubo ed esce dalla prigionia del sogno. Nell’euforia della festa degli spogliatoi non riesce a scomporsi, l’unica concessione è uno smagliante sorriso. La sua missione è compiuta.
L’anno seguente la sorte beffarda fa sì che ad ospitare la finale della Coppa dei Campioni sia l’Olimpico. La città e i suoi tifosi, sconfitta la chimera dello scudetto, sognano l’affermazione europea. L’11 aprile a Dundee va in scena l’andata delle semifinali contro lo United, 2 gradi di temperatura, organizzazione ed aggressività mandano in bambola una Roma sorniona, due a zero per gli scozzesi. Il ritorno si gioca il 25 aprile con l’Uefa che accorda alla Roma di giocare il match in pomeridiana. Risultato una giornata di sole pre-estiva che intontisce i nordeuropei. Doppietta di Bomber Pruzzo per la parità (assist di Ago per il secondo). Al quindicesimo del secondo tempo Cerezo mette in mezzo per Pruzzo che aggancia e cerca di saltare il portiere avversario, atterrato, è calcio di rigore. Sul dischetto ci va il capitano, gol e sogno finale in casa.
Il 30 maggio dell’84 è la data apoteosi della mistica romanista: parlare della partita di cui tutto si è scritto è superfluo. Ci si può concentrare solo su Agostino. Il Liverpool sbaglia il primo, Liedholm indica che a battere dev’essere il capitano e non Graziani, come stabilito dal taccuino. Ago esplode un destro centrale ma violentissimo per portare la Roma in vantaggio a parità di calci tirati. Ago non si è tirato indietro come Falcao. Si dice che non glielo abbia mai perdonato, al Divino, di non aver calciato quel rigore. Come dice Tonino Cagnucci, se c’era Ago in campo, avevi meno paura.
Il capitano tenta di ricompattare lo spogliatoio perchè il 26 giugno c’è una coppa Italia da vincere. Sarà l’ultima partita di Agostino nella sua Roma, con la sua Roma, per la sua Roma. Di congetture ne sono state fatte a decine, la verità è sconosciuta. La notizia del suo addio è già nota. Entrando in campo Agostino si accorge di uno striscione: “Ti hanno tolto la Roma, non la tua curva” (qui una lettera scritta da una giovane tifosa dei CUCS). Finisce 1-0 contro la rilevazione Verona che l’anno successivo vincerà uno storico titolo. Il capitano alza il cielo il trofeo, non trasmette emozioni. Il solito ghigno, non v’è celebrazione.
Del prosieguo della sua carriera non è opportuno speculare. Né del fraintendimento storico che porta l’Olimpico a fischiarlo nel febbraio del 1985 contro il Milan. Il suo popolo non gli perdona l’esultanza alla rete siglata il 14 ottobre nel match d’andata. Col numero 5 infila Tancredi con un esterno destro strozzato, la palla viene deviata prima di gonfiare la rete. Il tempismo con il quale si inserisce in filtro per agganciare una palla che pare morta, superando così due romanisti e preparasi l’appoggio in rete, contro la sua proverbiale lentezza può stuzzicare la dietrologia di quanto volesse segnare.
Uccidere la madre per uccidere quel fantasma che lo logora. Al ritorno ne esce un parapiglia con Conti dopo un fallaccio di Agostino, Ciccio Graziani è furibondo. Intervistato a fine partita Dibba dirà “Io non cerco mai polemiche, non sono mai stato polemico in vita mia. Sono un uomo tranquillo, e un bravo ragazzo”. Ci si era promessi di non speculare, ma in queste parole, e nel tono di voce con cui vengono pronunciate, c’è dell’altro. Quasi una richiesta d’aiuto al mondo esterno, una rivendicazione della propria diversità all’interno di un mondo, quello del calcio, che in quegli anni andava iniziando il processo di involgarimento.
Un mondo patinato che non pare lo abbia mai voluto accettare ed amare in modo incondizionato. Dalla Nazionale, che lo ha sempre ignorato, all’assordante silenzio durante il suo esilio salernitano (qui una scena de L’uomo in più di Sorrentino, dedicato ad Ago). L’insofferenza per l’indifferenza, il peso di esistere per colpa di quell’indifferenza. Che, come dice sempre Cagnucci, lui stesso tirava fuori con la sua ‘bomba’ da fuori area.
Ago non era un uomo dei suoi tempi, ha segnato il crocevia tra due ere storiche e calcistiche di quel romanzo che è il novecento. Nella lettera del 26 giugno c’era scritto “ci hai insegnato a lottare nella maniera giusta, in campo e nella vita, hai incarnato il sogno di tutti i ragazzi di Roma“. Il vero amore il suo popolo glielo sta attribuendo postumo. Per alcuni, si spera tanti, Di Bartolomei è la più bella figura ad aver mai vestito la maglia giallorossa. Perchè dei romanisti lui diceva “ci sono i tifosi di calcio e ci sono i tifosi della Roma”.
VI. Bruno Conti, Marazico
Di Bruno va preliminarmente detta una cosa che può apparire banale. Bruno Conti è stato un giocatore straordinario nella sua epoca. Un vero e proprio fenomeno, un giocatore che se stesse giocando oggi sarebbe l’hype di mercato, oggetto del desiderio di Europa e Cina messe insieme. Un giocatore da 60-70 milioni di euro. Qui un bel resumè di cos’era capace di fare. La questione va ribadita per due ordini di ragione. In primo luogo perché quando un giocatore molto molto forte è anche una bandiera – fortunati qui a Roma, ma anche alle altre italiane non è andata male – il racconto può uscire dal perimetro mitico di quel fumoso concetto che è la bandiera stessa.
Per parlare di Conti non occorre, in altre parole, rifarsi all’aneddotica dei giocatori letterari. Bruno Conti era così forte che parlarne da atleta può bastare. Questa considerazione porta alla seconda questione. Il fatto che giocasse ‘da brasiliano‘ gli ha permesso di trascorrere in modo piuttosto spensierato l’intera carriera in giallorosso. Protetto dalla comfort zone di una squadra attrezzata per dominare, la tara delle numerose delusioni (sbaglia anche lui dal dischetto il 30/5) e dei rimpianti (aver vinto solo uno scudetto) può tuttavia compensarsi con il palmares personale portato a casa a fine carriera (miglior giocatore del mundial l”82).
Detto diversamente: la assoluta ordinarietà del suo carattere composto di gentilezza e carineria gli hanno permesso di vivere con, perlomeno apparente, tranquillità la storia d’amore con i suoi tifosi. Di lui non si sono mai registrati isterismi, né in campo né fuori. Non se ne ricordano comportamenti eccentrici o fuori misura. Non era – e non è – di certo un trascinatore per carisma e forza d’animo. Non è mai stato divisivo, come tutti i grandi. Di poche parole, per lui parlavano i dribbling.
L’emozione si consuma tutta al tramonto. La cronistoria della sua giornata d’addio, da ricordare questa settimana che si è in tema, è la fotografia dell’intero romanismo. All’Olimpico si presentano 80 mila persone, paganti, il giorno successivo alla sconfitta in finale di coppa Uefa con l’Inter. Uno dei paradossi che rendono la piazza romana unica al mondo, vicina per emotività solo alle passioni argentine. Il giorno dell’addio di Bruno Conti alla Roma è paragonabile a quelle melense storie che ognuno di noi ha ascoltato almeno una volta nella vita.
Quelle storie in cui due sposi di un paesino di provincia, dopo aver vissuto un matrimonio all’apparenza apatico, muoiono a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Il crepacuore, dicono quelli avulsi dalle cose di medicina. La similitudine può far comprendere ai non romani come si può ricoprire senza strazi la figura di bandiera in questa città nevrastenica. Anche per uno che romano davvero non lo è – di Bruno ce n’è uno e viene da Nettuno, Bruno Giordano v… – e che da piccolo sognava di giocare per gli Yankees.
La storia però non finisce qui, perchè Bruno Conti è rimasto alla Roma e alla Roma è ancora. Forse è proprio la sua vita in società a gettare sprazzi di letteratura nella figura di un uomo modesto. Si è parlato di mazzette quando gestiva gli juniores per facilitare i provini dei giovani atleti. È stato ostracizzato da mezza città quando nella primavera del 2005 si è seduto sulla panchina come allenatore (figurando peraltro onestamente in quel folle anno).
Ma ancora ha palesato tutto il suo imbarazzo ogni qualvolta il suo primogenito Daniele decideva, pieno di livore, di urlare al mondo la sua rabbia per essere stato abbandonato (segnando e festeggiando, sempre). Le colpe dei padri questa volta non sono ricadute sui figli, alla Roma non vale la legge salica. E Bruno piangeva in silenzio quando la Sud intonava il suo cognome associandolo alla merda. Starà piangendo anche oggi che gli americani lo hanno spodestato dai suoi giovani per nominarlo ‘ambasciatore’. Ha mostrato l’inquietudine tipica dei romanisti più da cinquantenne che da giocatore simbolo. E questo può bastare per inserirlo nell’eterno pantheon delle bandiere giallorosse.
VII. Giannini, “il Principe”
Parlare di Giannini per un classe ’92 è più complesso che parlare di un Ferraris o di un Bernardini. Vuoi perché quando un personaggio è risalente intorno a lui storiografia e retorica si confondono correndo in soccorso di chi tenta di scriverne qualcosa. Vuoi perché il caso di Giuseppe Giannini è davvero singolare. Sia per chi è cresciuto nell’era tottiana sia per chi, più adulto, il Principe col 10 e la fascia di capitano lo ha vissuto direttamente. Ci si può concedere, per farla breve, la licenza di affermare che quello che Francesco Totti ha fatto a Giannini è molto simile a quello che l’automobile ha fatto alla carrozza.
Sì perché Giannini era giovane, bello, elegante, talentuoso e promettente. Era in Nazionale quando si cantavano le notti magiche di Italia ’90. È stato un idolo cittadino, Peppe il Bello. Un idolo nel senso greco del termine. Veniva letteralmente venerato come un semidio. Capelli lunghi da canto epico, occhi neri da berbero.Totti da adolescente lo ha più riprese indicato come esempio da seguire, ne aveva un poster appeso in camera. Però, però, non è stato abbastanza. Non è bastato in campo, nel senso che il suo talento non si è davvero mai espresso nella sua pienezza.
Non è bastato fuori dove la sua figura è stata letteralmente fagocitata da quella che gli è succeduta. Di lui rimane quasi solamente la rubrica di capitano romano e romanista, come se la Storia lo volesse epurare. C’era qualcosa di incredibilmente insolente nel suo sguardo che lo rendeva un perfetto epigramma degli anni ’80. Di Giannini ti arriva immediata una sorta di indolenza, una sospensione tra la potenza e l’atto di cui è stato sempre protagonista, malgrado non fosse un codardo.
Il suo addio da Roma è tragico: sbaglia un rigore ad un derby e riesce a far affermare a quel pio di Franco Sensi che “chi sbaglia un rigore contro la Lazio non è degno della maglia romanista”. Peccato figlio dell’eccesso d’amore. A fine stagione va via insieme a Mazzone. Peregrina tra Austria, piccola parentesi a Napoli prima di riportare il Lecce in A.
Se il suo addio da calciatore alla Roma era stato tragico, il Giannini-day organizzato per salutare i suoi tifosi è stato tragicomico. Il match d’esibizione si gioca il 17 maggio 2000, ovvero a pochi giorni dallo scudetto laziale. La tifoseria ribolle di rabbia nel vedere i cugini festeggiare il tricolore, l’evenienza di una partita a campionato finito diventa il pretesto per protestare contro una dirigenza che aveva fin lì promesso rinforzi. La Sud in realtà lo omaggia con uno striscione che recita “Facile amarti, impossibile dimenticarti“. Sarà possibile, dirà la Storia.
Alla fine accade il surreale: l’Olimpico è trapassato da un aereo con uno striscione “Lazio Campione d’Italia”, un manipolo di tifosi sfondano il cancello in Sud e compiono un’invasione di campo che rovina la festa del Principe che torna negli spogliatoi in lacrime. Gli invasori distruggono il terreno di gioco, le porte sono divelte, la zolla verde praticamente non c’è più. Uno stempiato, decadente ed ingrassato Peppe dirà
“Scusate, sono emozionato, nervoso. Purtroppo, per un eccesso d’ amore, per uno sfogo della rabbia di questi giorni… non doveva finire così, doveva finire con qualcosa di meglio..però vi ringrazio“.
In Curva appare un improvvisato striscione con su scritto ‘scusa’. Ma ormai è tardi. In realtà quella giornata può essere considerata la rappresentazione scenica della sua storia di capitano della Roma. È stato, in un certo senso, l’evento scatenante il terzo scudetto. La società, scossa, ricorrerà al portafoglio dell’innamorato Franco per irrobustire la rosa e dominare il successivo campionato. Giannini è un triggering point del romanismo del nuovo millennio. Una miniatura di Totti, un aperitivo della sua storia. Il suo Saturno contro un sacrificio necessario per comprendere quello che c’è stato dopo.
La sua abdicazione da principe per quello che sarà il Re è avvenuta in un clima di inconsapevolezza, da parte sua come da parte della città. Un passaggio di testimone spontaneo e naturale, non ricercato. Una presa del potere involontaria. Come Alessandro Magno per Filippo di Macedonia, un antecedente storico senza rapporto di pregiudizialità. Il secondo venuto per compiere ciò che era stato preparato dal primo.
Questo compendio non vuole essere un palliativo per ciò che accadrà domenica. Servirebbe a poco per lenire il dolore virtuale che colpirà la città. Non basterebbe ad elaborare il lutto figurato di lunedì 29 maggio. Vuole essere un resoconto veloce di sette grandi figure che come Totti hanno indossato la fascia di capitano e configurato la definizione calcistica di bandiera. Sette Re prima dell’Ottavo. Un firmamento di stelle cui sta per aggiungersi la più luminosa.
Si poteva ricordare Giorgio Carpi, l’uomo che non volle mai essere pagato perché reputava di per sé un onore giocare per la Roma. O ancora Ciccio Cordova, Picchio De Sisti, Pruzzo, o la sfortuna di Kawasaki Rocca, di Ancelotti e di tanti altri giocatori che hanno amato e onorato questa maglia. Questa storia non è sconosciuta, vive ancora nelle memorie di tanti tifosi. È stata semplicemente adombrata dalla luce del più forte calciatore di sempre ad aver vestito questi colori. Se c’è stato un passato a Totti, può esserci un futuro. Perché la Roma è nata grande e grande ha da resta’.