In nome delle radici sudamericane, e della divinità delle punte.
Pensare che i capelli siano innocui è stupido. Quando Beckham si presentò a Wembley con una cresta da mohicano, Sir Alex Ferguson lo obbligò a rasarsi completamente. L’ha raccontato lo stesso Spice boy in un’intervista al Mirror qualche anno fa: «Mi disse che teneva molto alla reputazione del club e, soprattutto, al fatto che i calciatori avessero aspetto e comportamento professionali. Il mio non era il look giusto… Oltretutto stavamo per scendere in campo a Wembley e in quello stadio non poteva permettere che mi presentassi acconciato in quel modo». Perché se c’è un’etichetta rispettarla o meno è sempre una scelta politica.
Si potrebbe scomodare Pier Paolo Pasolini sull’argomento, e il “discorso dei capelli” circa i capelloni che profeticamente snocciolò sulle pagine del Corriere della Sera, ma non serve neanche arrivare a tanto. I monaci si rasano, così come i soldati: segno di annullamento del proprio ego. Ma a Lautaro Martinez chiedo tutt’altro, chiedo di abbandonare il doppio taglio prefabbricato e permettere alla sua criniera di conquistare spazio, deformarsi, rendersi unica. Chiedo di smettere di rinnovare quel discorso dei suoi capelli che sostanzialmente dice:
Siamo uguali a quelli di milioni di altre persone, siamo alla moda, abbiamo paura di distinguerci.
Una delle cose che ci ha insegnato Maradona è che persino il più grande di tutti può fallire quando prova a sistemarsi i capelli. Nel 1993 sfoggiò il taglio più feroce e corto della sua vita, con cui cercò di dimostrare al mondo di essere ancora affidabile… Fu in realtà il preludio del crollo definitivo a USA 94. Ma pensiamo anche a Lionel Messi, costretto ad abbandonare i capelli biondi da bad boy di carattere … Il discorso non vale ovviamente per tutti, di Javier Zanetti non si ricorda un capello fuori posto. Ma il suo era un gioco pulito, diligente, cavalleresco, perfettamente rispecchiato in quel suo taglio unico al mondo. Niente a che vedere con quello del toro, coatto perché costretto, recinzione invalicabile per ogni guizzo o manifestazione dell’essere, priorità manifesta della versione più recente del mestiere del calciatore.
E così sogno un Lautaro Martinez con capelli lunghi e scompigliati, le sopracciglia di Beppe Bergomi e l’espressione di Pippo Inzaghi. Un Lautaro che rinuncia alla cura della sua immagine, alle ali di gabbiano, persino all’esultanza da power ranger – e quindi al suo brand –, in nome delle sue radici sudamericane e della dedizione totale alla divinità delle punte, quella che sceglie dove far cadere la palla sui calci d’angolo, e che se gli va ti sposta la porta proprio sul più bello.
Si può essere devoti anche col doppio taglio tamarro, ma a patto che sia effimero. Se invece viene riproposto identico ogni domenica da più di tre anni, mentre le difficoltà sotto porta non cessano, il discorso dei capelli cambia radicalmente. La cura maniacale lo arricchisce, gli appuntamenti settimanali dal parrucchiere lo rendono spietato:
il nostro padrone può sbagliare un gol ma mai una messa in piega, ecco cosa ammette candidamente.
E dire che l’esempio virtuoso sarebbe lì a pochi passi, nella vicina Genova. È lì che Mattia Destro è tornato il Riccetto pasoliniano dei bei tempi romani, ritrovando insieme alla bella chioma i gol e gli istinti da bomber. Sembrava un calciatore finito fin quando non ha smesso di curarsi delle sue estremità superiori per concentrarsi anacronisticamente sul rettangolo verde. Lontani i tempi di Milano, e di un altro scialbo doppio taglio.
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