Marco Impiglia
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Chi è il tifoso laziale e chi il tifoso romanista? Ancor prima, c’è un tifoso laziale e uno romanista? Una visione del mondo laziale e una romanista? E quali sono i loro simboli, le loro radici, la loro storia? Lo abbiamo chiesto, alla vigilia di un derby importante e in chiave diacronica, a due tifosi eccellenti in grado di rispondere a dieci domande. Una sessione A&Q che mira a mettere a fuoco le anime delle tifoserie biancoceleste e giallorossa, le differenze e gli eventuali punti di convergenza. Anna Maria Ortese, ad esempio, nel suo “Dialogo sull’appartenenza” considerava che la «non appartenenza» fosse una «condizione inevitabile per una certa libertà». E però, «tutti appartengono e desiderano follemente di appartenere». Su questa follia, allora, ci piace danzare.
Il giornalista Maurizio Martucci ha scritto della tifoseria biancazzurra nel 1996, pubblicando il volume “Nobiltà Ultras” quando aveva solo ventitré anni e si stava laureando in Lettere a Tor Vergata. Conduttore radiofonico dai molteplici interessi, con rubriche su Radio Radio e Radio Manà Manà, vegano, difensore delle aree verdi, attratto dalle pratiche spirituali orientali, vive in campagna e predilige, quando si occupa di calcio, lo scavo nel profondo, con indagini sempre originali; come nei casi di cronaca nera dei laziali Gabriele Sandri, Vincenzo Paparelli e Luciano Re Cecconi.
Roberto Colozza, romano classe 1979, si è formato invece alla Normale di Pisa e alla École des hautes études en sciences sociales di Parigi (EHESS). Ricercatore e docente alla Tuscia, si è a lungo occupato di storia politica del Novecento europeo e, più di recente, si sta dedicando all’analisi del tifo calcistico. La lotta armata nell’Europa dopo il 1968 è stata negli ultimi anni il suo campo di ricerca, ed è di questi giorni l’uscita della monografia “L’Affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale“, per i tipi della Einaudi. Animale metropolitano, non disdegna la campagna, nel Viterbese.
Abbiamo, dunque, due anime di orientamenti politici e culturali differenti, che vivono con entusiasmo la propria “lazialità” e il proprio “romanismo”.
Come sei diventato tifoso della tua squadra e quale importanza ha questo fatto nella tua vita?
MARTUCCI. Nella seconda metà degli anni ‘70 diventai tifoso perché nella mia famiglia si mangiava sempre e solo “pane e Lazio”. Mio padre mi ha introdotto in tenerissima età nel mondo Lazio. A quattro, cinque anni l’aspettavo con mia madre all’esterno dell’Olimpico, giocando dentro la cosiddetta ‘palla’ fuori della Sud. Sono poi diventato un tifoso passionale, ma da una quindicina di anni ho smesso di frequentare. Il motivo? Il disamore per quello che non è più il vecchio calcio, ma un business legato a potentati internazionali e lobby.
Oggi seguo le vicende biancocelesti attraverso internet, rivedendo sui social foto e filmati di un tempo. Però, non dimentico di avere passato trent’anni all’interno degli stadi, non so più quante trasferte ho fatto, le prime accompagnato da mio padre, poi con gli amici di curva.
COLOZZA. Io sono diventato tifoso all’età di sei anni, quando sono andato a scuola e, da romano trapiantato a Palermo, ho scoperto di essere l’unico romano tra palermitani “juventini”. E allora non ho avuto dubbi sul fatto che dovevo tifare per la Roma. Anche perché quelli erano gli anni della Roma di Dino Viola rivale della Juventus di Gianni Agnelli. Questa scelta ha avuto un’importanza decisiva nella mia vita nella misura in cui il mio essere romanista completa il mio essere romano. Mi sento tifoso della Roma e tifoso di Roma, tant’è che alla fine di professione faccio lo storico. Un mestiere vocazionale legato alla città dove sono nato e che è il mio grande amore inestinguibile.
Ci sono momenti giallorossi/biancazzurri che per te hanno assunto un significato speciale?
MARTUCCI. Sì, assolutamente. Conservo delle immagini molto nitide delle prime due partite viste nel 1981: Lazio-Foggia e Lazio-Lecce in Serie B. Ricordo che alzai gli occhi verso le bandiere delle squadre sopra la Tribuna Tevere, letteralmente sconvolto dal fatto che il Lecce avesse i colori giallorossi: mi sembrava fuori del mondo, perché da bambino l’abbinavo solo alla Roma, l’acerrimo nemico. Un altro caro ricordo è legato all’estate 1988. Me ne andai nel ritiro di Serramazzoni, con la Lazio appena tornata in A.
Avevo quindici anni, trovai lì altri amici di curva, i primi Irriducibili. Ma il viaggio lo feci da solo, obbedendo a un impulso tipicamente adolescenziale, fino a Modena, dove un vecchio frequentatore di curva mi ospitò la notte. Appartengo, dunque, a quella generazione di laziali temprata dalla dura lotta in cadetteria, che poi s’è ritrovata come d’incanto allo scudetto nel 2000, vinto in quel modo romanzesco. Ricordo con affetto l’abbraccio scambiato con mio padre in Tevere. Rivendico quel momento con immenso orgoglio.
COLOZZA. Sì, e più precisamente un’indimenticabile gioia e un sommo dolore. La gioia è lo scudetto del 2001, un momento che è stato il coronamento del mio massimo sogno infantile. Raggiunto quell’acme, ho iniziato a frequentare molto meno lo stadio, perché la cosa più importante è l’attesa. Il mio più grande dolore è legato alla sfida di coppa con lo Slavia Praga del 1996. Quella volta sfiorammo l’impresa, col gol del due a zero del “Principe” Giannini e lo splendido assist di un giovanissimo Totti a Moriero.
E poi, come un incantesimo che si spezza, arrivò quel gol di Vavra, che impedì l’impresa ai lupi di Carletto Mazzone. E proprio lì, soffrendo in uno stadio vibrante di passione e fulminato dalla delusione, ho capito per la prima volta che la vita è una gran “sola”. Vero è che sono cresciuto come uomo tifando a una partita di calcio per i colori della mia città.
Esistono una “visione del mondo” laziale e una romanista? Sapresti definire uno “stile di vita” laziale o romanista?
MARTUCCI. Al di là delle facili generalizzazioni, direi di sì. Nella misura in cui il tifoso laziale cresciuto negli anni ‘70 e ‘80 porta dentro di sé il vissuto di una “Lazio maledetta”, che poche altre tifoserie hanno sperimentato. Lo stile, la weltanschauung del laziale differisce dal romanista perché ha incarnato, almeno in quell’epoca, il mito dell’Araba Fenice. Vale a dire la morte e la resurrezione, la figura di quest’aquila che torna a volare dopo aver toccato il fondo.
L’excursus cronistorico e il fatto di essere numericamente minoritari sono le due ragioni principali che differenziano il tifoso della Lazio. Il sacrificio sta alla base della sua filosofia. Deve contare per dieci, attivarsi di più. Colmare il gap quantitativo con la qualità e dare quella spinta che, sull’altra sponda invece, arriva quasi per inerzia. Perché, come in una forma di colonizzazione territoriale, risulta faticoso professare la propria fede biancoceleste.
COLOZZA. Sui laziali non mi pronuncio. La “lazialità” l’ho sempre rimossa dal mio essere romano. Per me il classico romanista è un ottimista incrollabile, che tende a piangersi addosso per sfogarsi del fatto che la Roma sportivamente non è quasi mai all’altezza del nome che porta. Credo che la grandezza storica del tifo romanista sia legata alla necessità di colmare il gap esistente tra il mito di Roma e la realtà della AS Roma; come se il tifoso giallorosso dovesse essere all’altezza del mito, laddove i giocatori normalmente non lo sono.
La rappresentazione che le Muse hanno dato delle due tifoserie ti suggerisce qualcosa? Nel 2000 la AS Roma era la squadra con più riferimenti nella storia del cinema: 70 titoli. Poi veniva la Lazio: 50.
MARTUCCI. Quando non c’era Internet e non imperversavano i social, l’immaginario collettivo veniva colpito soprattutto dai grandi film e dai grandi attori. Tuttavia, credo che all’interno della cinematografia nazionale più in là dei semplici luoghi comuni non si sia mai andati. Parlo della guasconeria di qualche regista, che ha inserito battute cliché nelle pellicole della commedia all’italiana creando lo stereotipo ‘laziale burino’, quando siamo nati al centro sulle sponde del Tevere.
Ma è vero pure che settanta pellicole che hanno riferimenti ad un club di calcio danno la possibilità al tifoso di sentirsi bene rappresentato, gli creano un’identità. Avere dalla propria parte Alberto Sordi e Carlo Verdone, nella musica un Antonello Venditti, vuol dire capitalizzare su un bacino più ampio. Sono icone contemporanee, medium importanti per veicolare messaggi anche a livello subliminale.
COLOZZA. Consideriamo il ruolo di Roma capitale politica e amministrativa dello stato italiano. Pure se le squadre romane sono inferiori a quelle di Milano e Torino, esse mantengono l’attenzione mediatica per via della città che rappresentano. E poi Roma è anche la capitale del cinema, della televisione, c’è tanta radio. Tutto ciò crea una sovraesposizione nell’immaginario popolare che riverbera nelle questioni calcistiche.
Da ricercatore universitario, proprio ora mi sto occupando delle occorrenze della ASR nella letteratura, nel cinema e nella musica: una preziosa fonte. Le apparizioni della Lazio mi sembrano spesso un contrappunto di quelle della Roma. Sono gli stessi meccanismi della commedia dell’arte che lo esigono. La maggior parte dei protagonisti delle arti citate si vantano di essere romanisti; ed è fatale che, per giungere a una forma dialettica, ci si infili il personaggio laziale.
Potresti tracciare un “tipo psicologico” di tifoso romanista e uno laziale? Ci sono stati giocatori che bene si sono identificati in questo modello?
MARTUCCI. Qui primeggia la Lazio. E il pensiero vola subito a Giorgio Chinaglia, il guerriero che dall’inferno della B ci conduce a vincere lo scudetto nel 1974. Il campione che mostra irriverenza e disprezzo verso la controparte anche se, alla fine, per la pressione della “massa romanista” sulla moglie Connie, il cui negozio al Trionfale veniva vessato in continuazione, lascia tutti e va dall’altra parte del mondo.
La mia generazione era chiamata “generazione Chinaglia”, per rimarcare l’espressione di una minoranza ribelle, mai doma. Dopo ‘Long John’, metto Paolo Di Canio, un irriducibile giocatore-tifoso capace di trasformarsi in un toro infuriato quando vedeva un vessillo giallorosso. Due così i romanisti non li hanno mai avuti. Lo stesso Totti, a dispetto della sacralizzazione ricevuta dal mainstream, non ha mai raggiunto tali livelli.
COLOZZA. Caratteristica del romanista è quella di identificarsi in maniera viscerale nel campione romano e romanista: Giuseppe Giannini, Francesco Totti, Daniele De Rossi restano gli intoccabili del mio “romanismo”. Cionondimeno, quello che ho sempre apprezzato è che il tifoso crede nella Roma soprattutto.
Quindi, se in squadra c’è uno straniero, magari di colore, o per assurdo un extraterrestre come nel “marziano” di Ennio Flaiano, per un attimo indagato e presto omologato, nel momento in cui veste la maglia giallorossa egli è sacro; almeno fino a quando non tradisce la fede del tifoso, vedi il caso recente di Zaniolo. Questa filosofia è stata ereditata dal cosmopolitismo della Roma antica, prima metropoli multi-etnica dell’Occidente. Sto, dunque, riferendomi allo ius soli, non allo ius sanguinis
Curva Nord e Curva Sud rappresentano una reale antinomia di tropismo geografico e sociale? Nella tua esperienza, al nord romanisti e laziali sono visti alla stessa maniera, o li si distingue in base a qualche criterio?
MARTUCCI. Ho partecipato a numerose trasferte, spesso quelle tra pochi ma buoni, e devo dire che, una volta che ti sei lasciato alle spalle il GRA, tutte queste elucubrazioni si disperdono. Laziali e romanisti sono considerati due prodotti della Capitale. Ad esempio, ricordo che negli anni ‘80, in occasione delle trasferte a Bergamo, si sentivano cori: “Alè Atalanta, Roma e Lazio merda!” Per rispondere alla prima domanda, Curva Nord laziale e Curva Sud romanista è una disquisizione che mi sono posto a più riprese. Alcuni fatti la sostanziano, trovandone la ratio: i laziali sono i pariolini, quindi di Roma nord.
Prima il campo della Società stava a Tor di Quinto e ora a Formello, mantenendosi sull’asse settentrionale metropolitano. Dopo la tragedia di Paparelli, la tifoseria s’impossessa della Nord e appaiono striscioni con richiami alla mitologia scandinava: i Viking, l’ascia bipenne. La tifoseria romanista si raccorda a quartieri popolari. I suoi centri di allenamento li stabilisce al Tre Fontane all’EUR e poi a Trigoria, nei quadranti sud-ovest e sud-est. I fatti qui parlano chiaro. Vale un processo indiziario. Elementi feticci comparsi storicamente nelle curve rimandano a un sudismo che è sempre stato pertinente alla ASR e mai alla SSL.
COLOZZA. Ho vissuto molto fuori Roma e la sensazione che ne ho ricevuto è che i non romani identifichino la città con la squadra giallorossa. L’unica eccezione la faccio per la Lazio cragnottiana, quella che prevalse sul Manchester United nella super-coppa europea guadagnando una notorietà extra-italiana. Stavo a Parigi per preparare la tesi di laurea e, in una conversazione con un’autoctona che mi è rimasta impressa proprio per la sua rarità, la Lazio appariva come il club rappresentativo di Roma.
Devo dire che ci rimasi infastidito e quasi scioccato: fu un’inattesa perdita di identità. Sulla base delle mie esperienze, è indubbio che il tifoso della Roma sia borioso sulla scia del Miles gloriosus. A vent’anni, vivevo a Pisa e calcavo il mio accento giacché mi sentivo un ultrà di Roma. Era come un’auto-rappresentazione: mi ci divertivo. C’è dentro questa idea che, quando sei romanista, quando hai la fortuna di nascere tale, non perdi mai: la vita ti sorride. Ti alzi al mattino contento come una pasqua, per la semplice constatazione di essere romano e romanista.
Se ti dico “laziale uguale a fascista e razzista”, tu che rispondi?
MARTUCCI. Si tratta di uno stereotipo che fa comodo un po’ a tutti. Fa comodo alla stampa, a una parte di tifosi, agli antifascisti, alla comunità ebraica, fa gioco pure ai romanisti. Giacché è un’etichetta che rafforza, e anzi estremizza, quell’essere “brutti e cattivi”, il male assoluto, la diversità. Dall’altra parte, si viene a radicalizzare quel concetto di categoria politica nemico/amico propugnato da Carl Schmitt, cioè la contrapposizione all’altro attraverso la quale si crea la propria identità.
COLOZZA. Mi sembra riduttivo, un sillogismo errato. Penso che l’estremismo e l’abbraccio di filosofie discriminatorie sia tipico di contesti sociali e di culture che scelgono la conflittualità come un punto di vista, e quindi siamo dentro la dialettica amico/nemico. Esistono anche curve tifose rosse che, logicamente, discriminano i “nemici di classe”.
Il problema di fondo è che se un tifoso si considera un estremista adotta in automatico un’ottica conflittuale, all’interno della quale è facile che ci infili ulteriori ideologie. La conflittualità tra i tifosi integralisti e le forze dell’ordine è un ottimo terreno recintato per le giostre di molti cavalieri. Nel libro del 2003 di Valerio Marchi sull’episodio del cosiddetto “bambino morto” nel derby del 21 marzo 2004, la tesi di fondo afferma che ci fu una manovra concertata da parte dell’establishment volta ad esasperare gli ultrà con una strategia di controllo aggressivo dell’ordine pubblico.
Ricordi dei giocatori laziali/romanisti idoli dei tifosi non solo per quello che facevano in campo, ma anche per quello che rappresentavano dal punto di vista politico?
MARTUCCI. La politica ne ha attratti molti, anche tra i presidenti: da Dino Viola senatore della Democrazia Cristiana a Claudio Lotito senatore di Forza Italia, fino ai nostalgici del fascismo Giuseppe Ciarrapico ed Ernesto Brivio. Tra i calciatori, penso a Maurizio Montesi nella Lazio maledetta del 1980, contestatore radicale vicino a Lotta Continua, una sorella finita nella Brigate Rosse, e lui, durante il calcioscommesse, difeso dal legale della famiglia di Walter Rossi, militante ucciso nel 1977.
Montesi, ancora oggi, vive di una damnatio memoriae, l’anima grigia rimossa dalla tifoseria laziale, possiamo anche definirlo un anti-divo. Nella Roma, invece, penso a Damiano Tommasi, prima sindacalista dei calciatori e oggi sindaco di Verona in una coalizione di centro sinistra.
COLOZZA. I calciatori, tendenzialmente, non sono dei gran “compagni”. I vari Sollier, Montesi, Lucarelli rappresentano le eccezioni. Inoltre, i giocatori che vengono inquadrati nella AS Roma, sia quelli italiani che gli stranieri, non possono non rendersi conto del peso che il club ha nella vita della gente, e si avvedono subito, informati anche dai nuovi colleghi di lavoro, del fatto che quei colori volino più alti della politica.
Fateci caso che, con particolare regolarità dagli anni ’80, da Di Bartolomei in poi, nelle file giallorosse ricorre la figura di un capitano romano e romanista che rispecchia una tale impostazione ideologica. La ASR, squadra della Capitale centro della politica nazionale, riassume tutto e non mostra un colore politico. Non deve averlo. Per i dirigenti, invece, il discorso non vale. La lista di presidenti neri, rossi o democristiani lo testimonia.
Non molto tempo fa è uscito un rapporto redatto da due ricercatori universitari della Sapienza che ha dipinto un centro città giallorosso e una periferia biancoceleste, mentre la quota numerica concede una superiorità ai romanisti (sono mediamente 3:1 a Roma, 2:1 in regione, 1,7:1 fuori dal comune di Roma). Tu come la vedi?
MARTUCCI. Lo vedo come un primo tentativo, da parte della “accademia”, di voler quantificare la differenza tra le due tifoserie. Ma sbagliano, seguendo un simile approccio così schematico, perché il punto nodale non è dato dal numero, bensì dalla qualità del numero. Se un sondaggio si limita a chiedere al passante della strada per quale squadra simpatizza, è un conto. Se lo interroghi anche sul suo attivismo, ovvero se va regolarmente allo stadio e con quale frequenza, allora l’ordine dei fattori cambia notevolmente.
Scompare dal computo la nonna che dice “la Roma” perché i nipotini sono romanisti; o il tizio che sorride e dice “la Roma” perché “così fan tutti”. La fotografia in questione rispecchia solo un conformismo di base. Detto questo, un supposto azzeramento del disquilibrio dovuto alla differente metodologia non porterebbe, comunque, alla distruzione della “sindrome di accerchiamento” subita dal tifoso della Lazio. Una spia ne è la reazione sui social a certi titoli dei giornali, che da tantissimi anni, già dai tempi di Lenzini, è sempre la stessa: “la stampa è romanista!”
COLOZZA. I numeri mi sembrano ragionevoli. Non credo, però, ci sia una divisione per quartieri così netta. La prevalenza romanista è generalizzata e probabilmente più marcata in determinate aree. Escluderei che esistano aree biancocelesti. Ad esempio, io che sono cresciuto a Montesacro Talenti ho sempre sentito dire di un quartiere più laziale che romanista. Eppure, ho conosciuto solo due laziali durante gli anni di frequentazione del liceo!
Tutto si spiega se pensiamo al fatto che dare a una squadra di calcio il nome e i colori di Roma è stata una delle più straordinarie idee di marketing del Novecento. L’ASR è il nuovo avatar del “mito di Roma” studiato da due storici come Andrea Giardina e André Vauchez. E gli avatar sono le fenici della società post-moderna. I tifosi laziali questa cosa la sanno benissimo. Sanno della superiorità imperitura dell’opposta fazione. Di lì il motivo dell’orgoglio di essere nati prima e di non aver accettato la confluenza nel nuovo avatar sportivo. La vita dei laziali è una vita all’insegna della resistenza: sono resilienti, per usare un termine di moda.
L’innegabile convergenza dei gruppi ultras delle due società verso la nuova “destra rivoluzionaria”, quella che critica la società post-capitalista e globalista e il business del calcio, secondo te rispecchia i valori odierni? È un fenomeno destinato a durare?
MARTUCCI. Innanzitutto, bisognerebbe capire cosa è questa “nuova destra” e cosa s’intende per “rivoluzione”. Anche qui, rientriamo nell’ambito dell’appiattimento sui luoghi comuni. Il tifoso non è un animale politico e non lo si può etichettare come un rivoluzionario, ma di certo è un contestatore, se vuoi anche un reazionario. Gli slogan anti-global e anti-sistema, che a volte s’innalzano nelle curve, sono tutti da relativizzare quando il protagonista è il supporter.
Anche il travestimento dei tifosi in black bloc, comune oggi a molti gruppi, non significa in automatico che quella visione del mondo sia per loro preminente. Si sono spogliati del vecchio armamentario del ragazzo di curva, ma non hanno un’autentica impostazione anti-capitalista, anti-global, anti-business, come li si vuole dipingere. Nella teoria, ci si professa contro il calcio moderno perché ha perduto certi valori. Nella pratica, lo si continua a foraggiare, senza uscire dalla matrix con percorsi alternativi e radicali.
COLOZZA. A naso, direi che durerà. Sono delle minoranze combattenti che si ostinano a portare avanti valori ribellistici della politica novecentesca, per cui è normale che convergano fra di loro. In un clima generale di disimpegno giovanile verso il militantismo, i tifosi post-moderni rappresentano una minuscola minoranza; zoccolo duro che, almeno per la prossima generazione, continuerà a interessare le cronache. Anche perché è difficile estirpare la mentalità conflittuale.
All’interno di una società di massa, i ribelli per vocazione ci saranno sempre, e il calcio professionistico, cuore del business planetario dello sport-spettacolo, per loro è un palcoscenico ad hoc. Inoltre, la voglia di fare a botte della quota più “testosteronica” dei maschi giovani è un fattore da tenere in conto. Ma, attenzione: vero è che la violenza la si cataloga come disfunzionale, e tuttavia costituisce un punto di vista in più nel suo essere parte integrante della natura dell’Homo Sapiens. Se l’intera umanità divenisse improvvisamente gandhiana, mancherebbe uno degli elementi cardine del meccanismo evolutivo: l’aggressività.