5 marzo 1995, Lazio v Fiorentina 8-2: un risultato che riaccende un dibattito.
5 marzo 1995. Allo Stadio Olimpico di Roma si affrontano Lazio e Fiorentina. Due squadre ambiziose, progettate per combattere lo strapotere dei colossi del nord. La partita passa alla storia per il risultato, 8-2 per la Lazio allenata da Zeman. Non è record assoluto di gol ma è un risultato al quale non si assisteva da tempo. In Italia non a tutti il numero di marcature fa lo stesso effetto: qualcuno esalta le capacità di chi imposta un gioco essenzialmente offensivo, qualcun altro ritiene che “non esistono più le difese di una volta”. Lo strano rapporto del nostro calcio con il gol. Un problema storico, un fatto di mentalità. L’eterno confronto tra scuole di pensiero, entrambe con frecce all’arco.
MEGLIO VINCERE 5-4 O 1-0?
Zdeněk Zeman è un tecnico diverso dagli altri e vede il calcio in maniera diversa. Ha vissuto buona parte della vita in Italia ma italiano non è. E si vede, quanto a formazione e mentalità sportiva. Per dirla con Battiato, forse non sopporta i cori russi ma certo nemmeno la musica finto rock. Nel bene e nel male lui rock lo è davvero, per dirla con Celentano. Gli altri gli appaiono lenti. Lenti a evolversi. Troppo attaccati alla tradizione, fondata sulla difesa a oltranza e sullo sfruttamento degli errori altrui, anche quando giocano a zona.
Infatti, a molti la filosofia di Zeman non piace, e forse non piace nemmeno Zeman. Troppo strategico, troppo dogmatico. Il 4-3-3 praticato dalle squadre di Zeman, quattro difensori, tre centrocampisti e tre punte più una serie di movimenti di squadra con e senza palla, non è certo un sistema perfetto ma rappresenta un’occasione di cambiamento. Il superamento della visione individualista in favore di un gioco in cui si vince in 11 e si perde in 11, assioma logoro ma che talvolta appare vero ovunque tranne che da noi.
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Quando nel 1994 il tecnico lascia la provincia e arriva a Roma, sponda Lazio, si scontra con il sentire profondo di pubblico, critica e giocatori della grande città. Tre punte e possesso palla come insegna la scuola danubiana possono dare spettacolo (e nemmeno sempre) ma non cambiano la cultura di un luogo. Meglio vincere 5-4 o 1-0? 1-0 anche a costo di giocare malissimo, sembra rispondergli in coro l’ambiente. Se ne può discutere, nel bene e nel male quella è la via italiana alla grandezza calcistica.
Più prosa che poesia, più efficacia che estetica, e se come diceva Pasolini il gol è «il momento esclusivamente poetico del calcio, è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica», o addirittura “l’orgasmo stesso del calcio”, per citare Galeano, ecco che nel pallone l’Italia si riscopre quanto mai conservatrice e vaticana.
IL SENSO CONDIVISO DELLA FATICA
Difficile sostenere, infatti, che la rivoluzione nel calcio sia mai passata per l’Italia. L’ha fatta tra una guerra e l’altra il wunderteam austriaco, l’ha fatta l’Ungheria di Gusztáv Sebes negli anni ‘50 con il MM e il centravanti arretrato. L’ha fatta anni dopo l’Ajax (e l’Olanda) di Rinus Michels con il calcio totale e l’interscambiabilità dei ruoli. Corsa, atletismo, gestione degli spazi, fitta rete di passaggi. Esattamente ciò in cui in Italia si è portati a non credere. Da noi si è vissuto per decenni su asfissianti marcature a uomo, difese di ferro, centrocampi intasati, prodezze dei singoli per vincere le partite.
Negli anni ’90 le cose cambiano, poco alla volta. Secondo una parte della critica, anche piuttosto accreditata, l’atletismo continua a non essere aspetto primario, si è portati a pensare che il senso del sacrificio quotidiano e l’allenamento scientifico non rientrino nell’italico DNA. Meglio puntare sull’estro dei più dotati e sul subire il minor numero di gol possibile. Segnare, c’è sempre tempo. L’altra scuola di pensiero la vede in maniera diametralmente opposta: l’organizzazione collettiva unita alla preparazione atletica e tattica consente di giocare bene e di risparmiare energie.
La cosiddetta “alternativa italiana al calcio moderno” presenta un gioco che dall’altra parte viene ritenuto poco gradevole e alla fine anche molto dispendioso in termini di energie psicofisiche. “Abbiamo vinto quattro mondiali e due europei”, ribatteranno gli italianofili a oltranza. Vero – perché storicamente in Italia i talenti non mancano – ma con intervalli piuttosto lunghi fra un trofeo e un altro e senza mai creare una filosofia costruttiva di squadra. Siamo forti soprattutto sulla “pars destruens” nei confronti degli avversari. In sostanza, siamo visti come disorganizzati, anarchici e conservatori. Nel senso di impervi al cambiamento, nel calcio come in tanti altri aspetti della nostra realtà.
ANTICHI RETAGGI
Sul piano storico l’Italia è l’espressione nei secoli di un mondo essenzialmente feudalizzato e rurale, chiuso e lontano dalle rivoluzioni industriali e culturali dell’Europa del nord, in ritardo anche rispetto all’espansionismo coloniale di Spagna e Portogallo. Nulla di vergognoso, è la nostra storia e come intonazione sociale riportiamo un certo conservatorismo in tutto, anche nel modo di impostare calcio. Un’impronta contadina (che non va né criminalizzata né portata a modello, bensì compresa ed eventualmente superata) che spinge al concetto di risparmio, anche a costo di faticare più degli altri.
Non è un caso se il calcio totale ha i suoi epigoni nel mondo ma nasce in Olanda.
In fiammingo Olanda significa paese basso. In sostanza, un luogo geografico che vive sotto il livello del mare e che è stato innalzato grazie allo sforzo umano altrimenti l’insediamento non sarebbe possibile. Il risultato, raggiungibile grazie a una sorta di rivoluzione permanente per mantenere le conquiste ottenute, è stato mettere in sicurezza terre e unirle tra loro, trasformare un elemento ostile come il mare in qualcosa da gestire a proprio vantaggio. Nel tempo le attività mercantili olandesi via mare hanno detto qualcosa al riguardo. Alla popolazione è stata richiesta fatica comune e programmata. È necessario essere sempre “avanti” altrimenti si torna indietro.
Così come la vita associativa ha significato gestione del territorio, il calcio è espressione della medesima mentalità. Responsabilità, controllo e ruoli, precisi ma intercambiabili: tutti sono utilissimi, nessuno indispensabile. Il nostro Paese riflette anch’esso la propria storia: un mondo povero mantenuto tale, perfino lo Stato non è cosa univoca. Per almeno tre secoli, mentre gli altri si espandono a livello politico ed economico anche fuori dall’Europa, l’Italia è a lungo frazionata nella somma delle realtà che ne compongono il territorio a forma di stivale.
La vita è spesso sinonimo di sopravvivenza individuale, un mondo piccolo e chiuso. In ogni senso. Si prende ciò che si può prendere, senza poter programmare granché e senza contare sulla collettività. Nessuna strategia, solo tattica e spesso anche forzata. Volendo sintetizzare con una frase celebre: “Ognuno per sé e Dio per tutti”. Come potrebbe il calcio riflettere ciò che non siamo? Come tendenza generale, siamo scaltri, talvolta geniali, ma tendenti all’individualismo, “perché non siam popolo, perché siam divisi”. Come recita il nostro stesso inno nazionale.
PRIMO, NON PRENDERE GOL
L’italianità profonda è un tratto con il quale il calcio deve fare i conti. Per qualcuno è meschinità, per qualcun altro è richiamo all’eroismo dei singoli. Se quel che conta è vincere perché il fine giustifica i mezzi, è quasi naturale che la proposta tenda “al risparmio”. Ma poi è necessario cambiare, quando è palese che gli altri si evolvono e ottengono risultati. Per tradizione nel campionato italiano si segna abbastanza poco, la Nazionale non è abituata a dilagare nemmeno con squadre più deboli.
Se la filosofia di fondo è “meglio 1-0 che 5-4”, come i numeri sembrano dire, uno dei risultati più evidenti è sotto gli occhi di tutti. Il più grande marcatore di tutti i tempi con la maglia Azzurra ha segnato 35 reti, il corrispettivo tedesco ne vanta 71, quello inglese (ancora in attività) ha appena superato quota 60, quello portoghese è in ampia tripla cifra. Quello spagnolo si è fermato a 59, quello francese a 56 e non ha ancora finito di segnare. Le partite della Serie A che finiscono con tanti gol realizzati possono essere esaltate ma mettono automaticamente sotto processo popolare difese e allenatori.
Salvo eccezioni fare tanti gol non è sinonimo di campione a tutti i costi. Arriviamo al paradosso secondo il quale aver segnato 200 gol in Serie A per molti non garantisce qualità di attaccante. Saranno i rigori, saranno le difese poco ermetiche. Insomma non sono quasi mai le qualità di chi fa gol. Pur con qualche limite applicativo la filosofia di Zdeněk Zeman ha tentato a più riprese di svecchiare il calcio italiano. A parte qualche annata buona, si può dire che l’obiettivo non è stato centrato. Eppure quel giorno lì si vede un calcio che di rado si era visto fino a quel momento.
MEGLIO 8-2 CHE 6-0
Domenica, 5 marzo 1995. All’Olimpico di Roma scendono in campo Lazio e Fiorentina. Al 4-3-3 di Zeman si contrappone il pragmatico ma scolastico 4-4-2 di Claudio Ranieri. Il modulo prediletto da Zeman ha una caratteristica precisa: sa essere molto efficace ma ha una sua macchinosità intrinseca. Se gli esterni d’attacco non rientrano a centrocampo quando serve, i tre in mezzo al campo possono finire in minoranza numerica ed essere presi sul tempo. Un sistema che implica movimenti all’unisono e la capacità di accorciare e allungare il campo, tanto da rendere spesso il gioco fruibile in poche decine di metri grazie a pressing e fuorigioco che rendono la squadra un’ideale fisarmonica.
Nulla e nessuno è perfetto ma soprattutto ci vuole gente disposta al sacrificio in campo. Non tutti lo sono.
Quella domenica tutto funziona alla perfezione, la meccanica si trasforma in agilità. La profondità diventa una sentenza. Dopo pochi minuti la Lazio è già in vantaggio, alla fine del primo tempo il risultato è di 3-0. La ripresa peggiora le cose per i viola, squadra ben organizzata che vanta il capocannoniere stagionale, Batistuta. Casiraghi non aveva mai segnato 4 reti nella stessa partita, non gli sarebbe accaduto più. 8-2 è il risultato finale ma per molti non sarà stato merito di una filosofia di gioco diversa dall’italianità pura. Nel migliore dei casi, una semplice giornataccia per la difesa della Fiorentina. Il nostro Paese è anche questo e la diatriba fra scuole di pensiero continua. Forse hanno ragione gli allenatori adattabili all’avversaria. La via italiana alle innovazioni.