E allora godiamocele queste immagini del gruppo azzurro coeso e compatto, entusiasta e saltellante, cazzuto e lieve, maturo e spensierato. Guardiamole e riguardiamole. Basta aprire un sito, sintonizzarsi su una tv o aprire un giornale qualsiasi per trovarne in quantità industriale. Ci piace vederle perché ci fanno sentire un po’ meglio, in questa epoca sospesa e incerta.
Ci sono i giocatori, ovviamente. C’è il Mancio che sembra sempre uscito da Pitti Uomo, c’è Gianluca l’amico di una vita, c’è De Rossi che riassapora il brivido di emozioni vissute l’altro ieri, ci sono Lombardo e Salsano per ricreare un po’ di Sampdoria di Mantovani, c’è Evani che potrebbe essere scambiato per un cabarettista di provincia, c’è lo staff medico che probabilmente era gia lì ai tempi di Pozzo…e poi c’è lui.
Lui chi? Guardiamo bene. È quel tipo che non ride mai, ma appena c’è da esultare lo fa con gioia autentica: nella vita si è trovato spesso dove si vinceva in grande, anche grazie al suo contributo silenzioso.
È quel tipo con la faccia da attore americano: te lo immagini in un film di azione, nella parte del comandante che riesce a far atterrare un aereo in difficoltà, o in un poliziesco nel ruolo del detective con la camicia bianca rimboccata e le gambe allungate sul tavolo. Quello che risolve i casi, ma che non diventerà mai capo della Polizia. Perché il suo ruolo è un altro. È quel tipo che si chiama Gabriele. Anzi, Lele. Anzi, Leleoriali. Detto così, tutto attaccato.
Ora mettiamo da parte Ligabue e la sua vita da mediano, canzone creata appositamente per glorificare il passato calcistico di Lele. Al nostro uomo, con ogni probabilità, quel pezzo non piaceva neppure. Certo, Oriali «recuperava palloni…lavorava sui polmoni…aveva compiti precisi….copriva certe zone…giocava generoso….». E di sicuro la sua carriera è stata contraddistinta da «anni di fatica e botte e vinci casomai i mondiali…». Casomai? Quando ti ritrovi in una finale mondiale al Bernabeu, a scambiarti randellate con quel figlio di p*ttana di Stielike, e ne esci vincitore in tutti i sensi, il caso c’entra poco.
L’Italia campione del mondo 1982: Lele Oriali è il secondo in basso partendo da destra
Insomma, lasciamo perdere il passato remoto. Concentriamoci sul passato recente e sull’attualità. Lele si è ritagliato un nuovo ruolo all’interno del circo calcistico moderno: quello del domatore di leoni. È stato (lo è tuttora) dirigente accompagnatore per Roberto Mancini (tre volte), Josè Mourinho e Antonio Conte (due volte). Tre uomini che, sommando ego, carattere, personalità, grinta, determinazione, aggressività, vanità eccetera metterebbero da soli in difficoltà i maschi alfa di mezza Europa. Con il suo look da Michael Douglas brianzolo, Lele Oriali si è schierato al fianco di questi tizi ed è diventato molto più che un mediano diplomatico: è un vero e proprio regista arretrato.
Sul terreno di gioco, Oriali svolge una doppia funzione: trattiene (a volte semplicemente attutisce) gli impeti del proprio boss e fa da scudo nelle risse verbali contro panchine avversarie e ufficiali di gara.
Ma è facile immaginarlo, ad Appiano o a Coverciano, come l’anziano dei villaggi africani: un ricettore che tutto vede e tutto coglie, più distante rispetto all’allenatore in seconda (impegnato peraltro nella parte tecnica) ma più vicino rispetto alle figure istituzionali. Un consigliere saggio che, a differenza di molti suoi colleghi, sa cosa voglia dire stare su un campo di calcio ai massimi livelli. Queste doti, affinate nel corso del tempo, ne hanno fatto un uomo molto ricercato, al punto che nell’ultimo periodo ha dovuto ricoprire lo stesso incarico per l’Inter e per la Nazionale.
Ecco perché, da un certo punto di vista, è sbagliato continuare a identificare Lele Oriali come un semplice mediano. Quello descritto da Ligabue è un uomo che corre, fisicamente o mentalmente, senza talvolta sapere dove e perché. Lele, invece, lo sa. E lo sa molto bene. Basta vedere il suo palmares da giocatore e da dirigente. Un uomo che corre e basta non raggiunge quei risultati.
Solo una volta Oriali non ha potuto incidere. È stato durante le qualificazioni ai Mondiali 2018 con Gian Piero Ventura. Lì proprio non c’era niente da fare. Perché lui si chiama Lele e fa il domatore di leoni. Non si chiama Gesù e fa i miracoli.
La débâcle azzurra è davvero lo specchio del Paese dal quale è stata generata? Dove ricercare le cause? E come ripartire? Lo abbiamo chiesto ad alcuni tra i migliori scrittori, giornalisti, blogger e sociologi di casa nostra.
La rincorsa è breve, il tiro di piatto destro è ben angolato ma Goycochea parte prima, si distende alla sua sinistra e respinge a due mani: la Jugoslavia è eliminata dai Mondiali di calcio, per l’ultima volta.
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