Successi e fallimenti di un personaggio sfuggente.
La camicia che aderisce perfettamente a un fisico ancora asciutto e sportivo , un completo di alta sartoria che sottolinea, esaltandola, la classe e l’eleganza innata di chi lo porta, l’impeccabile rasatura e l’occhio attento a una acconciatura fintamente ribelle, in linea col personaggio: è la solita routine mattutina , che si ripete sempre identica, in un giorno che però si annuncia terribilmente, inesorabilmente diverso, per Leonardo Nascimento de Araujo, direttore sportivo del più importante club calcistico parigino. E’ il 22 maggio 2022, il PSG si appresta ad affrontare il Metz, ultima fatica di un campionato già in cassaforte, ma non è certo il match a ingolfare di nerissimi nembi i pensieri dell’ex fantasista di Milan e Brasile: Leonardo si rimira un’ultima volta allo specchio, e si compie la nemesi.
In uno dei suoi ciclici addii al Milan, in aperta polemica con chi lo stipendiava, alla canea di giornalisti anelanti una dichiarazione, Leonardo fornì un titolone su 9 colonne, intingendo nel curaro lo stiletto e levandosi dall’impaccio declamando “A Narciso tutto ciò che non è specchio non piace”; pochissimi notarono che fu l’ennesima occasione in cui il fantasista di Niteroi riuscì a parlare con estrema disinvoltura di sé stesso, ché come tutti i personaggi dotati di fascino e carisma, non può resistere alla seduzione della propria vanità. Oggi invece nei suoi occhi si riflette una immagine di un uomo che non riconosce: è sempre il globetrotter del pallone, curioso del mondo e desideroso di novità, l’ Ulisse che viaggia “a seguir virtute e canoscenza”, ma questo è il giorno in cui Leonardo vivrà una nuova esperienza, conoscendo l’onta del licenziamento.
Le cose sono precipitate repentinamente, e il plenipotenziario del PSG, l’uomo più vicino al patron Nasser al Khelaifi, si ritrova adesso, forse per la prima volta in vita sua, con una mano perdente al tavolo da poker e nessun piano B a disposizione. E ora, con un inconfessabile timore che è molto simile alla paura, si trova a riflettere sul suo futuro, con una punta di angoscia, come Luca di Montezemolo, personaggio che per certi aspetti molto gli somiglia, quando, in coda a una stagione disastrosa della Juve di Maifredi, che aveva rivoluzionato e assemblato lui, venne sollevato dall’incarico con una sferzata severissima dell’Avvocato, suo padre putativo: «Luca ci farà sapere cosa farà da grande.»
Ma chi è davvero Leonardo? Un uomo di grande fascino, che non lascia indifferenti, certo. Una personalità seducente, ammaliante, che ti sa conquistare con un parlar ricercato che accarezza, vellicandoli, orecchie e cuore; ma anche un ego considerevole, che scivola inevitabilmente nell’egoismo più sfrenato, in nome di un tornaconto personale che gli consente di tradire che lo ama senza arrovellarsi troppo in questioni secondarie. Il leggendario “stronzo” con cui un giovane tifoso milanista gli augurò un sereno Natale quando raccolse la scomoda eredità Benitez, salendo in sella all’Inter (si era nel 2010), non è frutto solo di evidenti lacune educative dei genitori, ma anche la risposta di pancia di chi si lascia affascinare dalla personalità del carioca, venendone deluso.
GIOCATORE
Chi lo abbia visto giocare, e sia dotato di un minimo di onestà intellettuale, non può non ammettere che sia stato davvero un grande giocatore: un fisico magrolino gli aveva lasciato in dono ai tempi delle giovanili del Flamengo il soprannome non esattamente encomiastico di Ratinho, e lo aveva costretto a supplire alle proprie carenze nell’esuberanza fisica facendo lavorare il cervello. Ed era stata la sua intelligenza tattico-strategica a far sì che i suoi allenatori lo utlizzassero come arma multitasking. Leonardo poteva disimpegnarsi (e si disimpegnò) più o meno in quasi tutti i ruoli, portiere e centrale difensivo escluso: il Mondiale 94, unico vissuto da vincitore, lo vedrà protagonista come terzino di fascia.
Proprio negli States vediamo intaccata per la prima volta l’immagine angelica di Leo. Siamo agli ottavi di finale, e il Brasile qualificatosi alla fase a eliminazione diretta è quanto di più lontano dalla stellare formazione dei cinque “10” che aveva trionfato nel mitico Mundial messicano del 1970, nonostante l’abilità mozzafiato della coppia d’attacco formata da Bebeto e Romario, e in panchina scalpiti un ancora minorenne e non ancora Fenomeno Ronaldo. Il vecchio satanasso giramondo Bora Milutinovic, C.T. degli USA, sta imbrigliando i verdeoro, la tensione e l’afa aumentano la tensione dei giocatori, e da un contrasto tutto sommato innocuo sulla sinistra, Leonardo, il “ragazzo sempre leale sul terreno di gioco” secondo la definizione di Carlo Pizzigoni in “Locos per el futbol”, ha un raptus incomprensibile che lo porta a demolire con una gomitata la faccia di Tab Ramos, onesto Carneade a stelle e striscie. Per Leo, inevitabile il rosso diretto condito da 4 giornate di squalifica, anticamera di un pentimento di incommensurabile platealità, a favor di cronista beninteso
«Sono distrutto da quanto e’ successo, ho visto il video dell’ azione. Ne ho avuto un’ orribile impressione: sembrava veramente che volessi fargli male, ma non era cosi’ , lo giuro. Lui mi stava trattenendo e io volevo liberarmi, era una reazione naturale, ma non volevo essere violento. Nulla giustifica il fatto di aver colpito un avversario: un gesto del genere e’ contrario a tutti i miei principi, nella vita e nel calcio. Non pensavo che mi potesse capitare una cosa simile»
Condito, a seguire, da un pianto di 15 minuti che lasciò stupito financo lo stesso Ramos e nauseò l’inviato del Corriere della Sera Roberto Perrone, che terminò il suo pezzo con un poco deamicisiano “aridatece Franti”.
Il 1994 è un anno di svolte importanti per Leonardo: non solo il Mondiale vinto, seppur quasi “in contumacia”, ma anche il trasferimento clamoroso in Giappone, alfiere della neonata J League, in quei Kashima Antlers dove dipingeva le ultime pennellate quell’artista del suo antico maestro e idolo, il Galinho Zico. Una voglia di nuove esperienze, di esplorare mondi e culture agli antipodi, in ossequio al suo mantra
«Il bello del calcio è anche questo: conoscere, scoprire, vivere nuovi ruoli ed esperienze.»
Tutto bellissimo, per carità, ma rimane una scelta difficilmente spiegabile, quella di un calciatore di 24 anni, già campione del mondo sia con la nazionale sia con il club (San Paolo), che negli anni migliori di carriera va a esibirsi in un campionato alla periferia del grande calcio, sorta di cimitero degli elefanti dove percepivano gli ultimi ingaggi l’acciaccato Stojkovic, il bollito Schillaci, l’elegante Lineker dalle polveri ormai allagate.
In quella sorta di Wild West Show pedatorio, Leonardo poteva chiudere la sua esperienza col calcio d’alti livelli, ma dopo un paio di stagioni in cui i gol fioccavano come gli zeri sul conto corrente dopo i bonifici mensili, arriva la chiamata del Psg: non certo la corazzata dalle illimitate risorse finanziarie di oggi, ma comunque la possibilità di rientrare nelle platee del calcio che conta, in una città nella quale arte e cultura non difettano di certo. Nella Ligue 1 si risente ancora dei benefici effetti del calcio champagne esaltato dalla Francia di Platini, e Leonardo ha buon gioco nel mettersi in mostra nel football transalpino; non durerà a lungo, nonostante dicharazioni se non d’amore, almeno d’affetto molto spinto, perché Fabio Capello nel suo ritorno al Milan seppe trovare gli argomenti giusti per convincere il carioca al trasloco: un pingue ingaggio e l’appagamento della superbia del brasiliano, promettendogli che sarebbe stata la ciliegina della sua armata rossonera.
Ma il ritorno del bisiaco sulla panca meneghina fece delibare al palato fine della San Siro rossonera il sapore insipido della minestra riscaldata più che quello di un appagante dolce. Una delusione enorme, un fracaso clamoroso, compensato però l’anno successivo da un trionfo inaspettato e quindi ancor più amabile, da protagonista nel Milan zaccheroniano che ebbe lui e Zorro Boban a svettare protagonisti fra comprimari e meteore come Daino e Sala e delusioni come Ziege. E’ però il canto del cigno: il fantasista brasiliano viene colpito da infortuni sempre più frequenti e consuma i suoi ultimi anni da calciatore in una sequela ininterrotta di ritiri e rientri, tornando ripetutamente nelle sue vecchie formazioni, prima il San Paolo, poi il Flamengo, infine ancora il Milan, come una specie di fusion calcistica fra il Foscolo che bramava il ritorno a Zacinto, e quando ci arriva si tramuta nel Leopardi del Sabato del Villaggio.
Quando appende le scarpe al chiodo Leonardo è un giocatore probabilmente appagato, ma sicuramente inquieto: la sua parabola calcistica lo ha portato a vincere di tutto dappertutto, e la frequentazione di tre diversi continenti ha contribuito a renderlo un poliglotta capace di disimpegnarsi egregiamente in 5 lingue e di avere una mente agile e profonda: una qualità intellettuale elevatissima, quasi elitaria, che unita all’indubbio vantaggio di militare a lungo in una squadra la cui proprietà era maestra nel marketing e nelle public relations, gli consentiva di annoverare una mostruosa quantità e qualità di relazioni fra addetti ai lavori e opinion makers.
Non pochi sono gli aruspici che gli vaticinano un ingresso in politica, sia quella calcistica sia l’arena ministeriale, stregati dal suo parlar forbito e dal suo stile ricercato, bucando clamorosamente il pronostico. Paradossalmente a vestire i panni destinati a Leo sarà uno dei compagni della fortunata spedizione americana, il picaresco Romario, uomo tutt’altro che avvezzo alla diplomazia (leggendario l’episodio che lo vede reagire alla mancata convocazione ai mondiali francesi dipingendo l’effigie dei responsabili della canarinha Zagallo e Zico sulle porte d’ingresso ai cessi del suo locale). Ma come ebbe a scrivere Eduardo Galeano in quel capolavoro che è “Splendori e miserie del gioco del calcio”:
«(Romario) Conquistò la fama senza pagare il dazio alla menzogna obbligatoria:quest’uomo poverissimo si è sempre concesso il lusso di fare quel che voleva, gaudente della notte, casinaro, ha sempre detto quello che pensava senza pensare a quello che diceva.»
E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio.
Leonardo invece è troppo intelligente per non fare sapiente uso delle bugie, ma sempre con un occhio di riguardo al proprio tornaconto. Laddove Romario sprona il destriero contro i mulini a vento, Leo pare più un professionista dall’ “Armiamoci e partite!”, preferendo esporsi solo se strettamente necessario.
ALLENATORE
Cerca quindi di mettere a frutto la sua esperienza riciclandosi come talent scout, con un ovvio occhio di riguardo al mercato brasiliano: indiscutibile l’avallo ai colpi Kakà e Thiago Silva, innegabile l’intelligenza di non arrogarsene il merito, preferendo non inimicarsi l’uomo che aveva scelto come maestro per il suo futuro da dirigente, cioè Adriano Galliani. Ma probabilmente l’esempio da seguire aveva le fattezze di Sabatini, magari meno rassicurante e salubre nei comportamenti, ma sicuramente uomo che ispira maggior fiducia dopo una stretta di mano, e capace di tener banco nelle notti così diversamente uguali di Ipanema o Shanghai, di Marsiglia o Cape Town, e di raccontarti storie meravigliose di calcio e di vita. Forse ne è capace anche Leonardo, ma temo che le sue abbiano come protagonista invariabilmente il personaggio da lui più amato, lo stesso di Herrera, come ebbe a scrivere Brera: “Yo”.
L’essersi allenato agli ordini di alcuni fra i più grandi mister di tutti i tempi lo convince di essere l’uomo giusto per raccogliere l’eredità di Ancelotti, e sono lampi abbaglianti, come il sacco del Bernabeu quando dardeggiò la fiamma del pupillo Pato (lui sì scoperta in toto addebitabile all’uomo di Niteroi), che ai suoi occhi si palesano come l’alba della carriera di allenatore di successo, non intuendo invece che quella stessa luce abbacinante era invece quella del tramonto dei vecchi eroi rossoneri e della pluridecorata dirigenza che si apprestava a muovere i passi d’addio. La consapevolezza del suo valore porta ad atti di superbia che mal si sposano con un altro ego mica da ridere nella stanza dei bottoni milanista; fiutando l’aria, Leonardo saluta sbattendo elegantemente la porta, e sfregiando i suoi amanti prima con la stilettata narcisista, bersaglio Sua Emittenza, poi con il passionale flirt morattiano.
All’Inter sono mesi turbolenti, Leo mostra di sapere come si vive e si limita a restaurare il culto di Mourinho coi pretoriani, orfani dell’amatissimo caudillo portoghese, convinti a tentare la clamorosa rimonta: non manca lo spettacolo, ma la fantasia delle offensive non trova l’adeguata protezione difensiva, e alle imprese bavaresi fanno da contraltare i disastri con lo Schalke e nel derby decisivo di campionato, sulla falsariga dell’esperienza milanista. Dopo la Coppa Italia, primo (e ultimo) trofeo da coach, è ancora l’inquietudine il motore immobile di Leonardo, e il Psg gli offre l’opportunità dell’ennesimo ritorno a Parigi, pur con mansioni diverse. Leo si dimetterà, anche se Claudio De Carli, cronista del Giornale che di Moratti sapeva interpretare anche i sospiri e le volute di fumo, spergiurerà che il patron nerazzurro, nel momento in cui permetteva al Nascimento di approfondire l’offerta parigina, aveva già in sostanza firmato l’esonero.
DIRIGENTE
E viene quindi l’esperienza da direttore sportivo del PSG, dove la sua voglia di grandeur collima con l’ambizione qatariota: sono anni di grandi investimenti e grandi colpi, di una parata di stelle che dovrebbe condurre al cielo, ma lustrini e paillettes non riescono a cancellare il lato oscuro del funambolo di Niteroi, e il controverso episodo della spallata all’arbitro Castro (PSG – Valenciennes, 5 maggio 2013) sarà la miccia che farà detonare le dimissioni di Leo – Hyde. Si ricicla quindi come opinionista , facendo valere nelle sue opinioni il peso di esperienza e curriculum, mantenendo sempre un atteggiamento mellifluo, troppo appariscente e plateale, una spontaneità clamorosamente finta, studiata a tavolino, come esemplificato nella francamente stucchevole dichiarazione d’amore di qualche tempo prima, in diretta, a una legittimamente imbarazzata Anna Billò.
Arriva poi l’offerta dell’Antalyaspor, ambiziosa formazione turca nella quale un Eto’o ormai ombra di sé stesso ad alti livelli rimpingua il conto in banca e fa vedere sprazzi dell’antica gloria, ma come allenatore Leonardo non ha nulla da dire, e dopo mesi disastrosi il presidente gli fornisce un assist quasi come i suoi, quando si disimpegnava da assassino in guanti di velluto su punizione: le dimissioni dell’uomo che lo aveva voluto in terra ottomana sono uno show replicato immediatamente dal carioca, che chiude così la sua carriera da mister.
L’ennesimo ritorno al Milan lo vede nell’unica veste che gli piace, quella del deus ex machina che risponde solo a sè stesso: il ritorno “a casa” come scrisse il sito ufficiale del Milan sarà però di breve durata. Neanche un anno, dopo il quale i risultanti deludenti e le divergenze di opinione con la dirigenza porteranno Leonardo a sgomberare la scrivania e togliere l’ingombro. Disoccupazione che peraltro dura il battito di ciglia di due settimane, facendo nascere il fondato sospetto che consegnando a Elliott la lettera di dimissioni l’unico problema di Leonardo fosse quello di non confonderla con quella di assunzione avente per destinatario il PSG qatariota.
La Torre Eiffel svettante al cielo è il panorama che vedrà Leonardo dal suo spazioso ufficio, mentre elabora e mette in opera progetti ambiziosi di grandeur pallonara, nell’inseguimento disperato del santo Graal della Champions: Leo impartisce ordini e muove pedine con a disposizione finanze pressoché illimitate, nelle mani quel potere che ha sempre desiderato, e che forse lo inebria a tal punto da confonderne la capacità di giudizio. L’ultima stagione, è storia di ieri, vede ai nastri di partenza una sorta di Harlem Globetrotter calcistico, ma malissimo assortito e ancor peggio guidato dalla panchina.
E ora? Cosa ha in serbo il futuro per Leonardo, l’uomo dallo spirito intraprendente e dinamico, perennemente in bilico al confine fra lo yin e lo yang? Si imbarcherà in una nuova avventura, un nuovo progetto, un nuovo arricchimento personale? O impiegherà le inconsuete dosi di tempo libero per rispondere all’annoso quesito su chi sia davvero Leonardo Nascimento da Silva, l’angelo caduto, il Lucifero ambizioso e ribelle che ha perduto il Paradiso o quello che considera la cacciata un esilio provocato a bella posta per fondare un Regno che rivaleggi con la sua antica casa? Domanda probabilmente destinata a rimanere senza risposta: probabilmente l’ex numero 10 verdeoro ha già un asso nella manica, perché, parole e musica del Fenomeno Ronaldo «uno come Leo è destinato a spuntarla sempre!»