Unica è quell’esperienza irripetibile, singolare, istantanea, che non ha precedenti nel tempo. Da questo punto di vista, Argentina-Perù è stata una partita irripetibile, per tutto ciò che essa si portava dietro (nell’infinito tempo del pre-gara), ivi comprese pressioni, follie tipiche del caldo sangue sudamericano, leggi non esistenti applicate sul momento. La Bombonera non poteva non essere il teatro di questa incredibile noche del futbol. Una Bombonera “vestita a festa” (più o meno), con una cornice di pubblico esaltante e – ancor di più – esaltata. Vietato l’ingresso alle famiglie, obbligatorio l’ingresso agli ultras. Almeno in linea teorica. Insomma, che il teatro diventi inferno, contano solo i tre punti, c’è in ballo il paradiso, o l’eterna dannazione. Eppure, a proposito dell’irripetibilità, dell’istante unico e del momento che non tornerà più, c’è da fare un piccolo passo indietro (nella storia). Sono tre le volte in cui, prima dell’incontro di questa notte, Argentina e Perù hanno ballato insieme in passato. Probabilmente ricorderete quella più recente, 11 ottobre 2009. In quel caso fu Martin Palermo l’eroe di giornata; il suo nome rimarrà nei cuori argentini per sempre. D’altronde, con quell’attacco (già ai tempi formato da nomi quali Aguero, Messi e Higuain), segnare anche soltanto con un semplice tap-in al minuto 47 del secondo tempo, in una partita del genere, ti consegna al mito. Negli altri due casi, invece, l’Argentina si era dovuta fermare di fronte alla furia peruviana e all’orgoglio – dai tratti epici – di questa gente. Il 30 giugno 1985 finisce 2-2; il Perù è costretto ai play-off, dove verrà eliminato dal Cile. L’incubo della selecciòn risale al 31 agosto del 1969. Si gioca sempre in casa dell’albiceleste, e il risultato è – anche in questo caso – quello di 2-2. Il pareggio rappresenta la beffa dello spareggio. Il Perù si qualifica (miracolosamente) al mondiale di Mexico ‘70, l’Argentina si lecca le ferite ed è vittima di un’angoscia squisitamente kierkegaardiana. Anche in quel caso, e per l’ultima volta prima di oggi, si giocò alla Bombonera.
Le qualificazioni europee mi annoiano, quelle sudamericane mi motivano. A me piace il calcio serio, non quello fatto tanto per giocare. E nelle eliminatorie sudamericane il calcio è serio, mentre in Europa è tutta una burla: ci si qualifica comunque, chi non lo fa direttamente lo fa con i ripescaggi. In Sud America la sfida è vera, già da tanti anni. (Josè Mourinho)
Non si esagera nell’additare una speciale mistica alle partite sudamericane; e ancor più, se si vuole, a quelle della selecciòn argentina. Ma di fronte all’albiceleste si ergeva l’antieroe. Fiero della sua missione, con gli stessi punti prima del calcio d’inizio (26): il Perù di Ricardo Gareca, el Tigre, tale soprannome tale allenatore. Era destino, per Gareca, andare a scontrarsi contro la sua Argentina nel suo stadio, la Bombonera, dove ha giocato per anni. Dove, col Boca, ha raggiunto più di 100 presenze, trasferendosi poi, locos por el futbol, nella squadra che più di ogni altra rappresenta l’antitesi degli Xeneizes, il River Plate. E allora eccolo, el Tigre, innalzarsi con quell’orgoglio “sentito quasi come giusto, dovuto”, per chi interpreta anche solo per una notte il ruolo del Nemico. Perché il Perù, per chi tiene ai mille motivi per cui tenere all’Argentina, ha rappresentato per giorni, settimane, minuti caldi e pesantissimi, la spaventosa antitesi al finale lieto.
L’antitesi ha agito, assumendo il ruolo che le è proprio, confacendosi a perfetta antagonista. Ma gli antagonisti, come è noto in letteratura, hanno spesso da perire. Argentina – Perù è finita 0-0, ma l’Argentina ha ancora in mano le chiavi del proprio destino. Mentre si consumava la tragedia sportiva in quel di Boca, e l’arbitro – per giunta brasiliano – poneva fine alle ostilità, Antonio Sanabria, classe ‘96 ed ex conoscenza del nostro calcio (Roma), siglava un gol miracoloso, completamente insensato per la motivazione stessa dell’evento, dall’altra parte del Sudamerica, in Colombia; un gol che lasciava – e lascia – aperte le speranze di una qualificazione ai Mondiali in Russia 2018 per Sampaoli e giocatori. I calciatori del Perù, già intenti a festeggiare nel rettangolo di gioco più prestigioso dell’intera Argentina, si sciolgono in un pianto disperato, che sa – per chi tiene ai combattenti – di lieve ingiustizia. La Colombia di Falcao stava infatti vincendo contro il Paraguay e, nell’ultima partita, non avrebbe avuto bisogno nemmeno del punticino sul campo della Blanquirroja per avere sua la certezza della qualificazione matematica. Succede che in due minuti, all’89’ e al 91’, il Paraguay assume le vesti dell’albiceleste, siglando due reti (la prima di Cardozo, la seconda proprio del ragazzino Sanabria) che obbligano la stessa Colombia a dover quantomeno pareggiare in Perù per qualificarsi. Nel frattempo, dopo una prova ai limiti dell’indegno – e per la cornice di pubblico, e per le aspettative che gravavano sulla partita – l’Argentina poteva, incredibilmente, dirsi soddisfatta. Ora basta una vittoria, all’albiceleste. L’ultima sfida, quella davvero decisiva, si giocherà in Ecuador, contro una squadra già eliminata e che, già contro il Cile stanotte, abbandonava anche quel residuo di gloria che ogni squadra, ogni equipo, in questa parte del pianeta, si riserva per notti come questa (Mourinho docet). Nell’atto finale del dramma, quando i personaggi sono già usciti di scena (e in effetti Messi e compagni stavano già camminando, stancamente, verso il tunnel de La Bombonera), avviene che è la scenografia a cambiare, e con essa la sceneggiatura. D’un lampo, si è passati da un’inattesa beffa, quella della selecciòn, a un inatteso colpo di scena, quello di Sanabria. Dall’Argentina alla Colombia. Il Brasile, come è noto, è già qualificato. Ma in parte, solo in parte, è anche dai verdeoro che dipenderà il destino di Messi e compagni.
L’ultima partita vedrà di fronte Brasile e Cile, in casa del Brasile (squadra ancora imbattuta tra le sue mura). E il Cile, con la vittoria sull’Ecuador, si è portato a 26 punti. Situazione zona calda; Argentina e Perù a 25 punti, Cile sopra e a pari punti con la Colombia. Uruguay secondo a 29. Le prime quattro passano, la quinta va al ripescaggio. La realtà però è che è stato il Paraguay a crederci fino in fondo. L’Argentina gli deve un debito enorme, ma deve riflettere sui suoi immensi limiti strutturali. Se è vero infatti che il Perù, con orgoglio e determinazione, ha dato tutto ciò che aveva, per impedire il finale lieto, è altrettanto vero che Messi e la sua banda avevano dato prova, per l’ennesima volta, di una pigrizia non solo tecnico-tattica ma, cosa ancor più grave, emotiva. Dopo i primi 20’, dove l’albiceleste sembrava aver preso pieno possesso del campo di gioco, il controllo del pallone era diventato pura formalità; lenta nella costruzione, poco creativa dalla trequarti in su, paurosa, l’Argentina sembrava rivivere il dramma del proprio tempo. Una delle squadre più talentuose al mondo, con l’attacco (senza dubbio) più talentuoso al mondo, ma che agli atti rappresenta il peggior reparto offensivo dell’intero girone (appena 16 gol fatti, 15 subiti). E, citando un’espressione di Lele Adani dei primi minuti di gioco, se Messi è al centro, e Messi gioca, ecco che l’incantesimo diventa realtà, ed ecco allora che l’Argentina può vincere. Se Messi non è al centro, se Messi (come stanotte è accaduto) non gioca, il giocattolo si rompe, mostrando i difetti del suo ingranaggio. Il centrocampo formato da Biglia e Banega prima e da Biglia e Gago/Perez poi, ha manovrato con una lentezza a tratti fastidiosa, aiutando poco (se ce ne fosse bisogno) i quattro lì davanti; oltre a Messi e Benedetto, il Papu Gomez, Di Maria prima e Rigoni poi. Mancava sempre la nota finale a dar pieno compimento alla sinfonia. Quel palo, quel palo di Lionel Messi, era un po’ come la voce che da dietro l’orecchio sembra sussurrare, in tono giustificativo: mancò la fortuna, ma non il valore. Ma è proprio il valore ad esser mancato. Stanco sulle gambe, dall’atteggiamento sonnolento, quasi svogliato. Messi, almeno con quella maglia indosso, è l’ombra di se stesso. E, con buona pace dei messiani(ci), tra i quali ci ritroviamo, Messi sta mancando le circostanze del leader carismatico. Che il peso sia palpabile, opprimente, lo si nota da come i compagni si comportano con lui.
Più che un tentativo di affidarsi al più forte, a dieci (venti?) minuti dalla fine, lo schema è sempre lo stesso; palla a Messi – con annesso scarico di responsabilità – e sia fatta la tua genialità. Ma è proprio Messi ad accusare se stesso. O meglio, ad accusare il ruolo che lui stesso si è imposto con la forza, e che forse non riuscirà mai a far suo totalmente. Lo si vede dalle movenze, dalle smorfie, ma soprattutto dallo sguardo; quasi perso nel vuoto, assente. Cristo aveva un Padre a cui appellarsi, Messi il “Padre” lo ha perso dopo i Mondiali in Sudafrica (2010). Maradona non è con lui, né sopra di lui, né – infine – in lui. E’ una realtà che non vogliamo accettare. Vogliamo credere che quel palo sia solo sfortuna. Che le tre finali perse siano solo sfortuna. Che quella punizione a pochi minuti dalla fine, infrantasi sulla barriera, fosse solo il sintomatico cedimento fisico, e psichico, di chi si è dato per qualcosa che era altro da lui. Continueremo a sperare, almeno fino al partitazo con l’Ecuador, che Messi dia segno d’esser degno del “Padre”. Un’altra notte è passata, un altro dramma consumato. Ma non tutto è ancora finito.