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05 Febbraio 2022

Ti piace vincer* facile?

Il caso di Will, pardon Lia, Thomas.

Negli Stati Uniti più polarizzati dai tempi della Guerra di Secessione, anche lo sport diventa terreno di battaglia politica. Sull’onda lunga delle rivendicazioni Black Lives Matter, e sulla spinta soprattutto di quei verginelli degli sponsor come Nike, FedEx e Pepsi, già nei mesi passati alcune squadre avevano cambiato il proprio nome per non urtare le sensibilità di nessuno: così la squadra di baseball di Cleveland aveva cancellato “Indians” dalla propria denominazione, quella di football di Washington aveva accantonato “Redskins” (pellerossa). Come ha dovuto ammettere anche Joe Posnanski, tra i più noti esperti di baseball statunitensi e convinto sostenitore del cambio di nomi, «c’è stato un effetto domino perché alcuni sponsor rilevanti si sono fatti avanti dicendo che non avrebbero più fatto pubblicità e affari con il team se il nome non fosse stato modificato».

Ma lo scontro ovviamente non si è limitato ai soli baseball e football. L’ex presidente Trump aveva attaccato frontalmente già la NBA, definendo “orribile” la politicizzazione del basket americano, menzionando “numeri degli ascolti molto bassi, in grande calo” e rincarando la dose:

«La gente è arrabbiata e non ne può più, loro non capiscono che hanno fatto abbastanza politica. Sono nei guai, in grossi guai, più grossi di quanto possano capire».

Insomma da un lato un Partito Democratico ostaggio della narrazione “woke”, della cancel culture e di quegli isterici adolescenti mai cresciuti delle università americane, impegnati ad imporre al mondo le loro subuculture ideologicamente totalitarie da ricchi, viziati e annoiati (quote riservate alle minoranze nelle graduatorie – e chissenefrega del merito – neo-lingua inclusiv*, bagni separati per chi non si riconosce nella distinzione binaria del sesso, decolonizzazione della cultura classica che «ha contribuito in maniera determinante alla formazione di una “white culture” da cui sono derivati colonialismo, razzismo, nazismo e fascismi» e via discorrendo), dall’altro un Partito Repubblicano egemonizzato dalla weltanschauung trumpiana (ammesso che esista), sempre più radicale, con disturbi paranoidi e velleità antidemocratiche.

Nel mezzo del tritacarne qualsiasi cosa e quindi anche lo sport, investito negli ultimi giorni dalla polemica di Lia Thomas, 22enne nuotatore trans che straccia record su record competendo con il gentil sesso (dal 462° posto nelle 200 yard con gli uomini è passato al 1° staccato con le donne). Alcune tra le sue colleghe sono state le prime a protestare, «è decisamente imbarazzante perché Lia ha ancora parti del corpo maschili ed è ancora attratta dalle donne», ha tuonato una sua compagna al Daily Mail – Lia infatti condivide lo spogliatoio con le altre ragazze e pur essendo ancora “fisicamente” un uomo (ci siamo capiti) si dichiara donna ma lesbica (un colpo di genio).


Così queste hanno mandato una lettera all’Università della Pennsylvania illustrando i vantaggi biologici di Lia e chiedendo che questi non finiscano per penalizzare loro, «donne che hanno lavorato tutta una vita per guadagnarsi un posto nella Penn Women’s Swimming Team» e che ora subiscono la “competizione sleale” di un (ex) uomo che ottiene vittorie, straccia record e le stacca di 40 secondi (come accaduto nelle finali NCAA di novembre) in virtù di un “vantaggio biologico”. Pur sostenendo la “transizione” da uomo a donna di Will > Lia, il messaggio della missiva è chiaro:

«Riconosciamo però che quando si tratta di competizioni sportive, la biologia del sesso è una questione separata dall’identità di genere».

Alleluia!, ma per fortuna le compagne di Lia non sono state le sole a protestare. In tanti hanno avanzato dubbi sul caso Thomas, dalla funzionaria della Federazione Nuoto USA Cynthia Millen che si è dimessa per protesta («sta distruggendo il nuoto femminile, nello sport i corpi sono in gara contro i corpi, non le identità contro le identità») alla tre volte campionessa olimpica di nuoto Nancy Hogshead-Makar, per passare a Martina Navratilova, Judy Murray (la mamma di Andy) e decine di altre atlete o commentatrici, anche (e soprattutto) del mondo femminista. 

Marina Terragni ad esempio, attivista e scrittrice, intervistata da Sputnik è stata chiara: «È una cosa grottesca che deve finire. C’è una grande organizzazione internazionale che si chiama Save Women’s Sports, un’organizzazione di donne che lotta contro questa incredibile invasione delle loro specialità. È una questione politica di primo piano negli Stati Uniti, perché uno dei primissimi atti, gli executive orders, di Joe Biden è stato consentire ai giovani atleti transessuali nelle università di partecipare alle specialità del sesso di elezione e non di nascita».



Torniamo così alla politica, incapace di frenare – e anzi costretta ad assecondare – assurde rivendicazioni di “inclusione” che minano alla base il buon senso per non dire la biologia. È l’enorme potere delle minoranze che ormai tengono in scacco l’opinione pubblica, dettano l’agenda del dibattito e impongono il linguaggio, fino alla pretesa ultra-ideologica di superare i limiti della natura in favore di un approccio meramente “culturale”: il sesso non è quello che ci è stato dato e con cui siamo nati, bensì quello a cui sentiamo di appartenere. Un presupposto già di per sé abbastanza problematico, certamente irricevibile quando si tratta di competizioni sportive.

Nel frattempo la federazione di nuoto americana ha fissato paletti un po’ più stringenti per le atlete transgender, imponendo controlli sui livelli del testosterone da tre anni prima delle competizioni ufficiali e non più da un anno prima come accadeva fino a qualche giorno fa. Una corsa al riparo e un piccolo passo per una reale distinzione dei sessi, comunque insufficiente per i Repubblicani a cui si sono spalancati portoni e aperte praterie. Nel suo ultimo comizio in Texas, non a caso, Donald Trump ha affrontato la questione tagliando corto:

«quando tornerò Presidente, vieteremo agli uomini di partecipare agli sport femminili».

Altro che indici di testosterone. Quello delle atlete transgender è diventato così un caso politico e una fonte di succosi cortocircuiti, ma soprattutto l’ennesimo indice di una America a due volti (sempre più lontani e inconciliabili), lacerata finanche nello sport. Adesso, per chiudere il cerchio e ricomporre l’armonia nazionale, aspettiamo con ansia le femministe per Trump in vista del 2024. Negli Stati Uniti, d’altronde, mai dire mai.

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