Papelitos
11 Maggio 2018

Lo spirito sportivo

Lo sport è come la guerra, ma senza l'esecuzione. Parola di George Orwell.

«Lo sport serio non ha niente a che vedere con il fairplay. È semmai strettamente legato all’astio, alla gelosia, alla vanagloria, alla noncuranza di qualsiasi regola e al sadico piacere di assistere a manifestazioni di violenza: in altre parole è come la guerra, ma senza l’esecuzione». A scrivere queste parole è stato George Orwell in un articolo pubblicato sul Tribune il 14 dicembre 1945 all’indomani della tournée della Dinamo Mosca nel Regno Unito. L’aggressività e la violenza di giocatori, stampa e tifosi (di entrambe le nazioni) nel cercare ognuno a suo modo di screditare e umiliare l’avversario, diede lo spunto all’autore di 1984 e ​La Fattoria degli Animali ​per sviluppare il concetto di come il calcio, e in generale lo sport agonistico, fosse uno dei più espliciti e feroci esempi di sciovinismo.

“Se voleste aumentare la vasta riserva di ostilità esistente al mondo in questo momento, difficilmente potreste farlo meglio che attraverso una serie di incontri di calcio tra ebrei ed arabi, tra tedeschi e cechi, indiani ed inglesi, russi e polacchi, e italiani e jugoslavi, ogni incontro destinato ad essere visto da un pubblico misto di 100.000 spettatori.”

È evidente come il pensiero dello scrittore fosse influenzato da un periodo storico, quello della fine del secondo conflitto mondiale, in cui ogni attività di esaltazione di patriottismo portava la fiaccola del fanatismo nazionalista; dove la vittoria sul campo diventava simbolo di una supremazia politica ed etnica. Del resto, il conflitto appena concluso aveva avuto nel calcio un protagonista inatteso, spesso come simbolo di resistenza o rivalsa.

George Orwell alla sua storica postazione radiofonica

Sono ancora note le gesta dei giocatori della ​Start ​che il 9 agosto 1942 sancirono la loro condanna a morte per aver resistito all’occupazione nazista di Kiev, sconfiggendo in una partita di calcio la Flakelf, il ​superteam ​delle forze tedesche. Quella partita, conosciuta come “​La partita della morte​”, non era una semplice partita di calcio. Era lo scontro tra due eserciti, tra l’occupante che voleva sancire il suo potere e il popolo oppresso che cercava di resistere. Quasi tutti i giocatori della Start furono uccisi non perché vinsero la partita, ma perché trionfando in quella partita dimostrarono che la guerra, quella vera, poteva ancora essere vinta.

 

Del resto, la storia lo insegna: il calcio è l’unico strumento in grado di unire un popolo e probabilmente anche di educarlo. Basti pensare a come l’unico spirito di unità nazionale lo mostriamo solo durante le partite dell’Italia. Ed a pensarci bene, ogni volta che la Nazionale vince germoglia in noi un senso di sofisticata superiorità sull’avversario. Ma non è solo questo. Il calcio da sempre è stato uno strumento politico per amicarsi la gente. Pensate a ciò che accade in Turchia, in Messico, in Grecia, in Francia, in Inghilterra e anche qui in Italia. Calcio e politica un binomio mai in voga, ma sempre di moda.

L’autoritario presidente turco Recep Tayyip Erdoğan palla al piede

Pensate al Corinthians che a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 diede vita al più famoso esperimento socio-politico della storia del calcio. Guidati da Adilson Monteiro Alves, un sociologo con funzione di direttore tecnico, e da ​ Sócrates ​Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, un dottore che di quella squadra diventò capitano e simbolo, i moschettieri ​crearono un fenomeno democratico in una nazione che dal 1964 era sotto il peso opprimente della dittatura. All’interno del club tutte le decisioni venivano prese in maniera collettiva, la casacca era un dazebao con messaggi politici accompagnati dalla parola “democrazia”, scritta al rovescio per protestare contro il governo di ferro dei generali. Nata come lotta al totalitarismo non solo del Paese, ma anche dei club dove presidenti e allenatori godevano di libertà oltre misura, la ​Democracia Corinthiana​ sconvolse l’intero sistema politico brasiliano, contribuendo alla caduta del regime dittatoriale.

 

O per restare in temi più vicini ai nostri giorni, pensate al calcio come il nuovo campo di battaglia tra israeliani e palestinesi. In​ ​un’intervista​ a ​La Repubblica ​del 2011, il capo della Federcalcio e del Comitato Olimpico palestinese, ​Jibril Rajoub​, dichiarò: «Abbiamo bisogno di esporre la causa palestinese attraverso il calcio con i valori e l’etica del gioco. La lotta non violenta è certamente la più produttiva e proficua per la causa palestinese; viviamo nel XXI secolo e questo è il mezzo migliore per raggiungere le nostre aspirazioni nazionali». Nello stesso articolo, l’allora terzino della Nazionale palestinese, Nadim Barghouthi, gli fece eco:

“​Siamo come soldati senza armi, giochiamo per la libertà della nostra terra”.

Oltre lo sport

Eduardo Galeano affermava che negli ultimi anni il fanatismo calcistico ha soppiantato quello che il fervore religioso e l’ardore patriottico erano stati nelle decadi precedenti. In nome del calcio si sono compiuti orrori e dato sfogo a tensioni, esplose poi in qualcosa di più grande. Il 13 maggio 1990 nello stadio Maksimir di Zagabria gli scontri tra i ​Bad Blue Boys ​e i ​Delije, rispettivamente ultras della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado, segnarono l’inizio della ​guerra d’indipendenza croata​ e la fine della Jugoslavia. E per restare nei Balcani, cosa pensare del ​derby di Belgrado?  Basta questo ​video ​per capire che il calcio è qualcosa di più di un semplice sport.

“Ma l’aspetto significativo non è la condotta dei giocatori bensì l’attitudine degli spettatori […] che finiscono per infuriarsi su queste assurde competizioni […] Anche se gli spettatori non intervengono fisicamente, provano comunque a influenzare l’andamento del gioco incitando la loro squadra e innervosendo i giocatori avversari con urla ed insulti.”

Per Orwell sono gli ​spettatori ​che più di chiunque altro determinano la lealtà del calcio. Sono loro che ​in massa possono influenzare le regole del gioco​. Questo è ancor più vero se consideriamo che nel periodo in cui Orwell scriveva il web (ovviamente) non c’era, e l’unico modo per un tifoso di seguire la sua squadra era andare allo stadio; nulla di più di un cittadino romano che andava in un anfiteatro a vedere i giochi gladiatori 2000 anni prima. Il pensiero di Orwell è tutto qui, ed è lo stesso che ritroveremo tre anni dopo in ​ 1984. Uno stadio intero può influire sull’andamento di una partita e spesso, ancora oggi, lo fa basandosi sul principio che ogni avversario sia un nemico.

La Bombonera, il dodicesimo uomo del Boca

L’insulto e la violenza che trovano sfogo fuori e all’interno di uno stadio dimostrano come un uomo da solo non fa paura, ma molti insieme nello stesso posto, sì. Il calcio è solo uno gioco, ma come scrive Simon Kuper,  “​quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco”. E se vincere è l’unica cosa che conta allora, secondo Orwell, lo sport diventa un coacervo di atti intimidatori e brutali, mascherati dal concetto di “difesa della maglia” o peggio della patria, ed i tifosi semplici marionette di nazioni che ambiscono alla supremazia mondiale. Certamente un ragionamento comprensibile al termine della seconda guerra mondiale, in cui l’impetuoso contesto geo-politico portava inevitabilmente ad interpretare qualsiasi evento in relazione ai conflitti internazionali. Così come comprensibile era lo sviluppo del pensiero dello scrittore britannico che, alla vigilia degli anni ’50, ci metteva in guardia dall’aspetto stordente del calcio.

“Calcio, birra, e, soprattutto, il gioco d’azzardo, riempiono l’orizzonte delle loro menti. Tenerli sotto controllo non è stato difficile” (George Orwell, 1984)

Oggi però la situazione è profondamente cambiata e, privato l’uomo (soprattutto quello europeo) della guerra e in buona parte delle ideologie e dello spirito religioso, lo sport è forse l’ultimo baluardo in cui si possa ancora esprimere una sana dicotomia rappresentativa amico-nemico. Insomma Orwell, nel lontano 1945, aveva certamente le sue ragioni per guardare al calcio e ai suoi simili come terra di conquista e sopraffazione; ma ormai, in un’epoca sempre più materialista e individualista, lasciateci almeno la rappresentazione sacra del pallone, senza ammorbarci col ritornello del calcio come oppio dei popoli. Anche perché, siamo seri, credete veramente che di questi tempi lo spazio lasciato vuoto dallo sport potrebbe essere occupato dalla partecipazione politica, o dalla coscienza civile? In questo caso, ci spiace dirlo, gli ingenui sareste voi.

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