Un uomo geniale che non potrebbe convivere con il calcio odierno.
Finale di Champions League, 28 Maggio 2003, Old Trafford di Manchester: Shevchenko trasforma il rigore decisivo e nella sua mente riaffiorano ricordi mai sepolti. Pochi giorni dopo l’attaccante si reca in pellegrinaggio nella sua terra natale, deponendo la medaglia sulla tomba del proprio padre calcistico. Parliamo di Valeri Lobanovsky, “uno dei principali edificatori dell’Ucraina indipendente”, per usare le parole dell’allora presidente ucraino Leonid Kuchma in occasione dei funerali di stato del maggio 2002.
Si dice che viviamo fino a quando l’ultima persona si ricorda di noi: ecco, per Lobanovsky allora la faccenda si prospetta ancora lunga. Shevchenko è stato infatti solo uno dei tanti figli dell’Ucraina calcistica plasmata a immagine e somiglianza del Colonnello, ma descrivere Lobanovsky semplicemente come un padre, magari amorevole, significherebbe fare un torto alla storia. Prendiamo ad esempio Igor Belanov, uno dei “suoi” pretoriani fin dal primo incarico come allenatore della Dinamo Kiev, il cui legame con il tecnico era squisitamente professionale:
“Il mio rapporto con Lobanovskyi non era ostile, ma nemmeno amichevole. Era semplicemente professionale. Ma lui ha fatto molto per me. Abbiamo avuto i nostri litigi, ma eravamo consapevoli che stavamo facendo grandi cose“.
I “figli” di Lobanovskyi erano in realtà coloro che riuscivano a resistere ai suoi metodi di allenamento, roba da far impallidire i celebri gradoni di Zeman. Esercizi come la “salita della morte”, una sorta di Passo del Mortirolo senza bicicletta: i calciatori dovevano eseguire ripetute in una salita con pendenza al 16%, e chi reggeva – e non vomitava – veniva ammesso in squadra. Un giornalista improvvido chiese addirittura un giorno all’allenatore: «E se un giorno Shevchenko fosse stato più lento del dovuto con questi test?». La risposta fu perentoria ed emblematica:
«Allora non sarebbe stato Shevchenko».
L’omaggio di Sheva al suo padre calcistico
I metodi di Lobanovsky erano innovativi, futuristi, ma non unicamente scientifici secondo un fraintendimento fin troppo diffuso: il Colonnello, vero e proprio “tachipsichico”, sfruttava invece una discreta fetta dello scibile umano nella costruzione delle proprie squadre, a partire dalla filosofia. Scriveva Karl Marx nelle sue Tesi su Feuerbach che «i filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo». Ecco, già dalla radicale valorizzazione del collettivo, che quasi soffocava le individualità, si può rintracciare qualche elemento di marxismo (di scuola sovietica).
“Tutti gli allenatori del mondo ritengono che la cosa più difficile di tutte sia la leadership degli uomini. Hanno ragione, ma lo sanno che leggere le opere filosofiche può essere di aiuto?”
Valery Lobanovsky
Non c’è felicità senza rivolta direbbe invece Jenny Marx, moglie di Karl; una rivolta, quella portata avanti dal tecnico ucraino, contro l’ordine costituito tecnico-tattico dell’epoca. La prima Dinamo Kiev del Colonnello era una compagine che tatticamente si distingueva solo in parte del Totaalvoetbal di Rinus Michels: la differenza principale risiedeva nell’atteggiamento in trasferta, volto a non prendere gol per poi segnare con contropiedi elettrici e fulminei.
Con l’Unione Sovietica, selezione allenata in varie fasi, Lobanovsky proponeva invece l’antesignano del moderno gegenpressing di Klopp. Si trattava di una “riaggressione”: i calciatori che perdevano il possesso dovevano provvedere, immediatamente, a recuperare la sfera nella stessa zona di gioco. Ma la grande differenza nel sistema di Lobanovsky era rappresentata dal collettivismo calcistico: il singolo (calciatore) valeva solo come parte del tutto, e la qualità tecnica individuale passava sostanzialmente in secondo piano. Per comprendere, con le sue parole, il Lobanovsky pensiero:
“La cosa più importante nel calcio è ciò che un calciatore fa in campo quando non è in possesso della palla, non viceversa. Pertanto, affinché un calciatore diventi eccellente il talento incide per l’1% e il duro lavoro per il 99%”
Sembra di sentire la lezione che Rudy Nureyev, il più grande e talentuoso ballerino russo, rivelò a Massimo Fini: «il 10% è talento, il resto è costanza». Non stupisce allora che l’obiettivo principale delle squadre di Lobanovsky fosse ciò che lui stesso definiva “universalità”: tutti i calciatori dovevano diventare universali nel senso letterale del termine in una filosofia che, pur potendo contare sui talenti individuali, in particolare Oleg Blokhin, rappresentava il trionfo del collettivo. Guai però a pensare che il tecnico fosse un dogmatico: la sua grandezza risiedeva invece nella versatilità del gioco, capace di mutare e adattarsi ai diversi contesti e alle differenti situazioni.
In fase di non possesso, la squadra puntava a una pressione costante nella zona in cui gli avversari avevano la palla; tuttavia la difesa, pronta quando necessario a scappare all’indietro, non era altissima e il fuorigioco non applicato in maniera compulsiva (la tattica dell’offside non è mai stata prerogativa del tecnico ucraino, neanche nei tempi in cui le disposizioni corte e speculari delle compagini facevano scattare la trappola svariate volte nell’arco di una partita).
La Dinamo Kiev vince la Coppa delle Coppe 1985/1986
Nonostante le varie applicazioni, la compattezza ha sempre contraddistinto le squadre di Lobanovsky che riuscivano ad essere corte, coese e organizzate scientificamente. Il rigore tattico partiva dalla costruzione di gioco, con un centrocampista che si abbassava per impostare e gli altri calciatori pronti a invertire i ruoli e occupare gli spazi, sempre però secondo automatismi che non lasciavano spazio all’anarchia, seppur programmata: per semplificare, l’ossimoro di un calcio totale alla sovietica. Nel suo libroBehind the Curtain, lo scrittore Jonathan Wilson rievoca un episodio emblematico accaduto durante un Arsenal – Dinamo Kiev:
“Ricordo lo spaesamento dei telecronisti inglesi mentre cercavano di identificare il calciatore biondo che aveva messo in mezzo un cross da sinistra. ‘Georgi Peev’, suggerirono, leggendo il suo numero di maglia e confrontandolo con la formazione. ‘Non può essere, è il terzino destro’, ma era proprio così…”.
Negli anni ’70 e ’80, in tutta l’Unione Sovietica, prese però piede il dibattito su cosa fosse più importante: il calcio scientifico e pragmatico di Lobanovsky o quello spettacolare di Konstantin Beskov, suo rivale e tecnico dello Spartak Mosca. Ottenne più consensi un puro esteta dell’arte pedatoria come il moscovita piuttosto che un rigoroso matematico del calcio come il Colonnello (il popolo reagisce a modo suo e la tradizione russa, anche se votata al socialismo reale, rimane sempre sensibile all’estetica). La cosa paradossale, però, è che nel periodo in cui la rivalità divideva la critica lo Spartak vinse solo quattro trofei, a fronte dei diciassette della Dinamo.
Che poi, per lo stesso Lobanovsky, la vittoria non era l’unica cosa importante. Anzi quando Volodymir Sabaldyr, scienziato dell’Istituto di Scienza e Ricerca dell’Edilizia di Kiev, gli chiese perché non fosse contento dopo il primo campionato sovietico conquistato con la Dinamo, il tecnico rispose che non era soddisfatto delle sue prestazioni e di quelle della squadra, affermando categoricamente che erano state le altre squadre ad aver perso il titolo e non la Dinamo ad averlo vinto.
– “Cosa si può fare dopo aver vinto tutto? Come ci si sente ad aver realizzato un sogno?”
– “Qual è il tuo sogno come scienziato? Aver raggiunto la laurea o il dottorato?”
– “No, il mio sogno è aver contribuito al progresso. Aver lasciato il segno…”
– “Ed ecco la tua risposta”.
Barney Ronay del Guardian, in tal senso, scriveva: «Sarebbe sbagliato definire Lobanovsky come una figura ‘arida’, come un computer che affronta gli scacchisti sovietici. Era un prodotto degli anni Cinquanta sovietici: un’epoca, come in Occidente, di progresso e di ottimismo tecnologico». Sicuramente un tecnico fuori dall’ordinario e una figura complessa, irriducibile a claustrofobici schemi da storytelling post-sovietico.
Un francobollo che rende onore a Valeri Lobanovsky: non solamente un grande allenatore, ma un uomo che ha scritto un pezzo di storia ucraina
Lobanovsky non vedeva però il pallone come un gioco all’insegna dell’allegria, della leggerezza e del divertimento. Il suo era un calcio meccanico, costruito, in tal senso scientifico, e questo approccio derivava da una mente quasi cinicamente analitica, frutto del background da laureato in ingegneria meccanica per cui ogni cosa doveva essere al suo posto – e ogni giocatore svolgere compiti precisi.
Negli anni ’70 furono commercializzati i primi “cervelloni” in Unione Sovietica, e il tecnico ucraino ne fece immediatamente uso.
L’epoca in cui era cresciuto, d’altronde, era quella della corsa al progresso tecnologico tra Stati Uniti e Unione Sovietica (la stessa Dinamo Kiev era sponsorizzata dall’agenzia spaziale sovietica, la Yugmash). Certo, il gap con gli Stati Uniti diventava via via più evidente, eppure Lobanovsky fece leva sulla tecnologia allora presente in Unione Sovietica: in quegli anni le partite di squadre straniere non venivano trasmesse in “patria”, e le sfide di coppa rappresentavano dunque un’incognita.
Il tecnico aveva però un collega nella città di Uzhhorod, al confine con la Slovacchia e a pochi chilometri dal territorio ungherese, dove era possibile captare i segnali della TV magiara: i match venivano quindi registrati su cassette e portati di nascosto nella capitale, così da essere analizzati e mostrati ai calciatori. L’intento del Colonnello era infatti di “intellettualizzare” il calcio in Unione Sovietica, facendolo progredire anche tecnologicamente.
Lo sconfinato Paese era stato in effetti attraversato da un’ondata di sviluppo scientifico, con Kiev come centro propulsore: fu proprio nell’attuale capitale ucraina che nel 1957, quando Lobanovsky aveva 18 anni, aprì il primo istituto cibernetico; sempre a Kiev, nel 1963, un gruppo di tecnici guidati dall’ingegnere Victor Grushkov creò il prototipo del primo PC, il MIR-1. Negli anni ’70 furono poi commercializzati i primi “cervelloni” in Unione Sovietica, e il tecnico ucraino ne fece immediatamente uso.
La sfida tra USA e URSS era globale, in cielo come in terra
All’epoca Lobanovsky studiava all’Istituto Politecnico di Kiev, e le potenzialità rivoluzionarie dei computer divennero sempre più manifeste nell’URSS: la trasposizione di queste conoscenze al mondo del calcio era dunque la logica conseguenza. Lobanovsky fu però il primo allenatore in assoluto ad avvalersi dell’uso di un computer per preparare allenamenti e partite, e per farlo contattò il presidente dell’Istituto di Scienze Fisiche di Dnipropetrovsk, Anatoly Zelentsov.
Lo screening dei calciatori idonei per le sue squadre era un processo accurato e tecnologico, realizzato tramite i computer acquistati dal governo centrale sovietico e dotati di software in grado di testare le abilità chiave dei giocatori. Un esempio, riportato da Simon Kuper nel suo libro Football Against the Enemy dopo l’incontro con Zelentsov, spiega nel dettaglio la maniacale attenzione ai tempi di reazione.
Il metodo prevedeva la suddivisione del campo di gioco in 9 quadranti, con conseguente calcolo dei movimenti dei calciatori: nelle intenzioni del Colonnello, essi avrebbero avuto più facilità a sviluppare un intesa con i compagni e a rendersi conto delle zone lasciate maggiormente sguarnite dagli avversari.
Per Lobanovsky l’insieme delle capacità tecniche individuali dei calciatori era inferiore rispetto all‘efficienza di un sistema di gioco ben pianificato.
Partendo dalla matematica il calcio era un sistema con 22 elementi, suddiviso in due sottosistemi di 11 che si muovevano all’interno di un’area definita (il rettangolo verde); un sistema soggetto ad una serie di restrizioni imposte, ovvero le regole del gioco. Lobanovsky riteneva però che l’efficienza del sottosistema a 11 elementi fosse superiore rispetto alla somma delle efficienze degli elementi che lo componevano – un po’ pitagorica come teoria.
In altre parole, l’insieme delle capacità tecniche individuali dei calciatori era inferiore rispetto all‘efficienza di un sistema di un gioco ben pianificato; il totale era diverso, e migliore, della somma delle sue parti. Ecco perché il tecnico riteneva che il calcio non si fondasse sugli individui, bensì sulle associazioni e sulle connessioni reciproche. Idee corroborate non solo dalla formazione presso l’Istituto Politecnico, ma anche dall’esperienza maturata nella carriera da calciatore.
L’omaggio a Lobanovsky da parte dei tifosi della Dinamo Kiev
Zelentsov poi era infallibilmente meticoloso nella sua analisi, fino a teorizzare che una squadra non avrebbe mai perso una partita in cui avesse commesso meno del 18% di errori nei momenti chiave. Con l’ausilio dello scienziato ucraino, Lobanovsky riuscì a sviluppare prima un programma in grado di analizzare ogni singola partita, poi una tabella per valutare la forma fisica dei calciatori in rosa (con l’obiettivo di ottimizzare gli allenamenti e prevenire gli infortuni). Chi non rispettava i requisiti veniva escluso, chi invece riusciva a resistere ai carichi diventava un atleta ideale per il gioco del tecnico: tempo dopo, su queste basi, sarebbe nata la celebre “salita della morte”.
Tutto veniva predisposto affinché non vi fossero punti deboli, a partire dal nuovo centro di allenamento fuori Kiev. L’impianto ospitava anche una piscina (utilizzata principalmente per l’idroterapia), un giardino ed era dotato di strutture mediche avanzate, di una sala operatoria privata e di una camera a pressione per simulare l’allenamento ad alta quota. Lobanovsky, precursore del calcio a 360 gradi, rimase però sempre saldamente fedele a se stesso; anche quando tornò al timone della Dinamo, nel 1984, e la squadra concluse il campionato al decimo posto.
“Un percorso rimane sempre un percorso. È un percorso durante il giorno, è un percorso durante la notte ed è un percorso all’alba”.
In quegli anni stavano emergendo gli stili di gioco dello Spartak Mosca e della Dinamo Minsk, che lasciavano decisamente più spazio all’inventiva. Il motivo della deludente prima stagione, poi, non era difficile da comprendere: nonostante fosse stato lontano dalla “sua” Dinamo appena due anni per dedicarsi a tempo pieno all’Unione Sovietica, trovò una squadra che, sotto la guida del suo vice Yury Morozov, era stata a dir poco alterata. Il Colonnello si fece scivolare addosso le critiche, e impiegò solo un anno per riconquistare la leadership.
Dal 1986 poi accettò il doppio incarico come allenatore della Dinamo e selezionatore della nazionale sovietica. Qui, al fine di scremare la rosa da 40 a 20 giocatori per le convocazioni agli Europei del 1988, utilizzò metodi molto simili a quelli sperimentati con Zeletsov. Nonostante l’iconoclastia e, in alcuni casi, lo scherno da parte dei media sovietici, l’URSS arrivò in finale e perse solo al cospetto della grande Olanda di Marco Van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard (squadra che, per giunta, aveva sconfitto nei gironi).
A quel punto, vista l’abitudine dei suoi calciatori a seguire fedelmente i metodi made in Dinamo, era naturale che Lobanovsky scegliesse uno zoccolo duro della squadra di cui era tecnico. Ben 12 calciatori della Dinamo Kiev furono quindi “trapiantati” in nazionale, 9 dei quali protagonisti da titolari nello straripante 6-0 contro l’Ungheria.
“La nazionale dell’URSS era una Dinamo Kiev indebolita da giocatori provenienti da altri club”.
Questa affermazione, che risuonava nell’immaginario collettivo degli appassionati sovietici, dimostrava l’estrema fedeltà e fiducia dell’allenatore nei confronti dei suoi metodi: una fedeltà che, a tratti, sfociava quasi in ostinazione.
C’erano una volta, agli Europei del 1988, un inflessibile sovietico e “Berni” la mascotte: URSS 1-0 Occidente
Nel frattempo Glasnost’ e perestroika condussero a riforme politiche ed economiche in Unione Sovietica, costringendo Lobanovsky a dare un’ulteriore prova della sua adattabilità: d’altronde aveva vinto in Europa con un gruppo di semiprofessionisti ucraini, e le possibilità date dagli investimenti stranieri per l’acquisto di calciatori dischiudevano nuovi orizzonti. Nell’era post-sovietica la Dinamo mantenne il dominio del calcio ucraino, ma molti calciatori si erano nel frattempo trasferiti all’esterno.
Kuznetsov e Mykhaylychenko finirono ai Rangers (quest’ultimo si accasò poi alla Sampdoria); Zavarov si trasferì alla Juventus e Belanov al Borussia Mönchengladbach; curiosamente, nessuno di loro ha mai raggiunto il livello di prestazioni mostrato sotto la guida inflessibile dell’ucraino.Nell’arco di cinque anni, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Novanta, il volto della Dinamo cambiò irrevocabilmente. Lobanovsky stesso lasciò il calcio sovietico, attratto dal richiamo dei petrodollari, ma tornò in patria nel 1997.
La campagna 1998-99 vide la Dinamo arrivare insemifinale di Champions, cedendo al Bayern Monaco in una doppia sfida contraddistinta dall’equilibrio.
La Dinamo continuava a vincere in patria ma in Europa il gap era evidente. La squadra non riusciva a superare la fase a gironi della Champions League, e nella stagione 1995-96 il club fu addirittura squalificato dal torneo per corruzione. Nel suo terzo e ultimo periodo da allenatore della squadra ucraina Lobanovsky trovò una squadra giovane e competitiva, pronta a sviluppare ancora una volta l’universalità. Certo, i migliori giocatori si erano ormai spostati verso ovest, ma la Dinamo acquistò diversi talenti dall’ex Unione Sovietica tra cui il georgiano Kakha Kaladze, l’uzbeco Maxim Shatskikh e i bielorussi Valentin Belkevich e Aleksandr Khatskevich.
La campagna 1998-99 vide la Dinamo arrivare in semifinale di Champions. Nel match di andata contro il Bayern gli ucraini conducevano 3-1 fino a un quarto d’ora dal termine, per poi subire il pareggio nel finale. Al ritorno i bavaresi vinsero per 1-0, ma la doppia sfida fu decisamente contraddistinta dall’equilibrio. Il momento culminante di quella campagna europea fu quando, su un fangoso Olimpiyskiy, l’Arsenal di Wenger fu spazzato via dalle implacabili ondate della Dinamo. Guidata da un frizzante Andriy Shevchenko e da Serhiy Rebrov, la squadra ucraina vinse per 3-1.
Se avete un quarto d’ora libero, ne vale la pena
Verso la fine del suo terzo mandato Lobanovskyi iniziò ad avere difficoltà, faticando e non poco nel dialogo con le nuove generazioni di calciatori. La sua autorità non era più un totem indiscutibile, e i singoli giocatori molto meno disposti a subordinarsi o addirittura immolarsi per il collettivo. Ma allora la storia era stata già scritta: Lobanovsky era stato il padre del calcio ucraino, e forse il più grande maestro del pallone sovietico. D’altronde son poche le squadre dell’Europa dell’Est ad aver lasciato un segno nell’Europa occidentale, e lui ne aveva costruite ben due.
Prima del suo arrivo Mosca era l’epicentro del calcio sovietico, alla fine del suo secondo mandato nessuna squadra aveva vinto più titoli sovietici della Dinamo Kiev. In termini di successo e di stile, poi, la sua Dinamo ha rappresentato la quintessenza della squadra “sovietica”. Malgrado la priorità del tecnico fosse infatti lasciare un segno, rivoluzionare e perfezionare il calcio, il palmarès parla chiaro: otto titoli del campionato sovietico, sei coppe sovietiche, cinque titoli del campionato ucraino, tre coppe ucraine, due coppe delle coppe e una Supercoppa europea.
Oggi una statua di Lobanovsky, inclinata in avanti come per dare indicazioni, veglia su Kiev proprio come il Colonnello ha fatto sulla Dinamo. Gli autori, che sono riusciti a intagliare anche i tratti del viso, hanno scolpito perfettamentela personalità di Lobanovksyi nel bronzo dell’opera: dalla classica divisa, assolutamente intatta, all’agitazione tipica di chi vive la partite da bordocampo. La statua lo ritrae fermo, ma non calmo, nella sua continua ed incessante ricerca della perfezione.