Tre Coppe dei Campioni consecutive vinte prima della guerra che spezzò una Nazione, per cambiare per sempre la pallacanestro Jugoslava.
L’ultimo sorso di birra andò giù che fu un piacere. La bottiglietta vuota di Karlovačko, adagiata sui sassi levigati della spiaggia di Bacvice, rifletteva, nella distorsione cromatica del vetro, i colori chiari, rilassanti, del lungomare di Spalato. Toni rientrò in acqua con gli amici, alto, magrissimo, le braccia aperte come le ali di un airone e quella pallina, usata per il “picigin”, non cadeva mai quando passava dalle sue parti. Può sembrare un passatempo banale, occorre solo mantenere la palla in aria quanto più possibile, facendola girare in cerchio con il palmo della mano cercando di non farla mai cadere, eppure solo chi possiede una straordinaria abilità riesce, in certi casi, a recuperare la sfera dall’insidia delle piccole, schiumose, creste d’onda e mantenerla ancora in un orbita apprezzabile per gli altri compagni. Toni Kukoc ha appena 16 anni e il parquet legnoso di Gripama sembrava molto lontano da quella sabbia, da quel sole, dai rintocchi di San Doimo, dalla città vecchia e dalle sue viuzze lastricate di marmo che furono di Diocleziano prima e di Marko Marulic dopo. Casomai Toni al centro sportivo di Dvorama Gripe, ubicato quasi a ridosso del cuore portuale cittadino, ci andava per i tornei di ping-pong perché a tennis-tavolo Toni ci sapeva fare e aveva già vinto qualche medaglia. Ma in Croazia anche gli aironi hanno l’obbligo di andare a canestro, e allora quei canestri del palazzetto di Gripama, laddove su un muro esterno campeggia un grande murales in onore di Rato Tvrdic, diventeranno i suoi; quei canestri che la folla faceva tremare ogni qual volta un avversario si recava in lunetta per tirare un libero. Sarà uno scout delle giovanili a convincerlo ad affidarsi alla pallacanestro e alla fine la pallacanestro si affidò a lui. Nel 1985 Toni Kukoc si infilò la canotta gialla della Jugoplastika dove stava arrivando ad allenare un certo “Boža” Maljkovic.
La Jugoplastika era in verità una fabbrica di materie plastiche con sede a Brodarica, divenuta sul finire degli anni ‘60 l’estensione patrocinante del Kosarkavski Klub Split, nato nel 1945 come sezione della polisportiva Hajduk ma che già dal 1948 si rese indipendente. I “dinari” ebbero l’effetto voluto. Nel 1971 la Jugoplastika diventerà campione nazionale conquistando la Yuba Liga e Spalato impazzì per i vari Peterka, Radulovic, Tvrdic, Skansi, Solman. Il pomeriggio del successo la stazione ferroviaria di Spalato fu letteralmente presa d’assalto da una folla impazzita in attesa del ritorno dei suoi eroi che per la prima volta avevano frantumato il triangolo imbattibile formato da Lubiana-Belgrado-Zara. In panchina un visionario del gioco, tale Branko Radovic, finalista l’anno seguente in Coppa dei Campioni, colui che dietro spessi occhiali scuri dipanava la sua rigorosa disciplina del corri e tira, gettando semenze fertili per il ventennio successivo.
C’è un altro spalatino in questa storia, si chiama Dino Radja. Un biondo di due metri e dodici centimetri, roccioso come l’isola di Pag, cresciuto mangiando Cevap e Soparnik in seguito abilmente razionati da una dieta esemplare; Radja era un autentica Santa Barbara di movimenti in post-basso capace di segnare in modalità differenti, risultando sempre elegante ed efficace, costringendo il difensore avversario a prendersi una compressa per il mal di testa al rientro negli spogliatoi.
Nel 1989 Toni e Dino erano insieme nella Jugoplastika del serbo Bozidar Maljkovic, la Jugoplastika che soprese l’Europa. Una Jugoplastika bellissima, tenue come oro, quando ancora le albe della gioventù non immaginavano quanto crudele fosse una guerra e la gente si illudeva tra le voci del mercato, le omelie, i datteri schiacciati dalle scarpe e i baci rubati su una terrazza.
Una vita da allenatore quella di Bozo Maljkovic. A 19 anni dovrà interrompere prematuramente la sua carriera cestistica sul campo per via di un brutto infortunio. Ciò nonostante nel 1986 subentrando all’icona Kresimir Cosic, il destino lì consegnò un manipolo di talenti: la classe di Toni Kukoc e la disinvoltura di Dino Radja nei pressi del canestro, saranno appoggiate dalla solidità di Goran Sobin, dalla regia di Luka Pavicevic e dalla chirurgia del capitano Dusko Ivanovic, quello dell’ultimo tiro, colui a cui bisognava consegnare il pallone perché se esisteva una remota possibilità di metterla dentro da tre, beh, ecco, la percentuale di farcela a quel punto si alzava esponenzialmente. A Boža gli addetti ai lavori rimproveravano di essere un lezioso difensivista, di giocare troppo lentamente, di strapazzare la natura dell’idea di pallacanaestro balcanica, beccandosi aspro disprezzo i giorni in cui decideva di non far partire Kukoc dal quintetto base e lui risentito rispondeva sempre così:
“Toni è eclettico, un fenomeno di armonia e sincronicità che può giocare in ogni ruolo, lo tengo seduto affinché quando vedo un cedimento lo faccio entrare dove ho maggiormente necessità.”
Senonché le critiche non produrranno sconquassi. Anzi, Jozo vincerà il titolo yugoslavo battendo il Partizan e le sue giovani promesse entrarono a fari spenti in Coppa dei Campioni raggiungendo la finale di Monaco di Baviera attraverso una difesa ferrea da togliere il fiato associata ad acrobatici virtuosismi in attacco. C’era pure Aca Nikolic in tribuna quella sera d’aprile contro il Maccabi Tel Aviv e Boža si emozionò. Chiamò a sé i suoi ragazzi e disse:
“Siete la cosa più bella che mi è accaduta da quando sono nel basket, giocate duro ma non fatevi travolgere nel punteggio perché tutti direbbero che siamo arrivati qui per puro caso”.
Fu una sinfonia perfetta: ribaltamenti, palleggio ridotto all’indispensabile, e su tutto il talento dei figli di Spalato. Tuttavia gli israeliani della coppia americana Ken Barlow- Doron Jamchy rappresentarono un osso duro; soltanto nei minuti conclusivi Dino Radja decise di mettersi in proprio spegnendo la luce nel suo pitturato e rendendosi immarcabile nei due metri laterali del canestro opposto. La Jugoplastika salirà sul podio continentale e Radja iniziò ad entrare nei radar della NBA.
Nessun passo indietro nel 1990. Gli Splinich alzarono i gradi a Zoran Sretenovic e Velimor Perasovic, mentre in panca scalpitavano due puledri di razza: Zan Tabak e Zoran Savic. Filotto in patria e secondo sigillo europeo. A Saragozza contro il Barcellona, davanti a 14mila tifosi catalani pronti a festeggiare, la Jugoplastika con un eccelso Kukoc riporterà il trofeo con la retina in riva all’Adriatico, dove sugli scogli incominciarono a cantare irresistibili sirene tentatrici.
Maljkovic si farà convincere da coloro che aveva appena battuto e volerà in Spagna, Radja aprì una vacanza romana preludio della chiamata americana, e dopo 23 anni lo sponsor storico verrà affiancato dal marchio Pop 84. Kukoc, in attesa della telefonata dei Chicago Bulls, per il momento resterà saldo al suo posto. Ormai Toni era leader e uomo immagine al punto che la società gli regalerà perfino una macchina. Non una Mercedes a dire il vero, bensì una scomodissima Fiat 126 rossa nella quale per guidare dignitosamente dovrà disfarsi del sedile anteriore e sistemarsi dietro. Ci fu anche un azienda di calzature sportive italiana, la Dribbling, che gli offrì un assegno di due milioni di vecchie lire per poterlo usare come testimonial ma Kukoc fu essenziale nella ribattuta:
“Mi sento un privilegiato rispetto agli altri, mi guardano un po’ storto quando arrivo in 126, facciamo così sponsorizzate tutta la squadra offrendo il materiale tecnico.”
E così, nella primavera del 1991, quando una schiacciata in contropiede di Kukoc chiudeva l’ultimo campionato della Yugoslavia unita dentro una situazione di quasi totale indifferenza sportiva ma di angosciosa attesa politica nel malcelato timore che il magma balcanico scivolasse via lungo i canali dell’odio, la squadra, passata a Zeljko Pavlicevic, in una strana ordalia del fato compirà l’ennesima impresa vincendo la terza Coppa dei Campioni di fila in una notte di gioia malinconica, dentro una Parigi imbellettata, battendo il Barca del maestro Maljkovic 70 a 65. Tris, e sipario, sulla squadra più forte di sempre mai vista a est di New York.