In un pomeriggio di giugno brasiliano, nella tropicale Salvador, va in scena la caduta di un impero. I campioni in carica, ancora tra i favoriti, si rivelano all’improvviso la copia sbiadita della squadra che dominò il mondo. Il tracimare Oranje è preannunciato dal volo memorabile di Robin van Persie che vale il momentaneo pareggio, e il cinque del capitano dato al suo allenatore Louis Van Gaal nell’esultanza tradisce una strana eccitazione del gruppo olandese sbarcato in Sudamerica.
Anche la gioia dell’altra stella Arjen Robben dopo ogni gol è quella dei bambini al parco giochi, nonostante la carta d’identità segnali lo sconfinamento delle trenta primavere. Sono ormai lontani i tempi in cui mister Louis, con i suoi ferrei precetti, confinava il fuoriclasse della squadra in zone del campo più congeniali al dogma di gioco che alla libertà del genio creativo individuale. Ora Van Gaal può godersi i suoi ragazzi da vecchio padre di famiglia. Per l’ultimo ballo della generazione d’oro dei nati tra l’83 e l’84, che comprende anche Wesley Sneijder, l’abito cucito su misura lascia i campioni liberi di esprimersi in contropiedi micidiali. Spagna-Olanda, match d’apertura del girone, finirà 1-5.
«Il suo idealismo è stato temperato e, mentre alcuni tratti rimangono gli stessi di sempre – l’insistenza sulla disciplina, l’approccio combattivo alle conferenze stampa, la maestosa certezza di sé – questo è un Van Gaal più vecchio, più saggio, più flessibile, uno che capisce il valore del compromesso».
Una ferita aperta, il rapporto con la nazionale dei tulipani, per Aloysius Paulus Maria van Gaal, che più di un decennio addietro, nella prima esperienza da ct, falliva clamorosamente la qualificazione al Mondiale nippocoreano del 2002. Eppure buona parte dei giocatori dell’Olanda di inizio millennio era la stessa che formava il nucleo dell’Ajax di metà anni Novanta, una squadra di culto capace di vincere tutto e di eleggere quindi il proprio allenatore a nuovo profeta del calcio olandese.
La prestigiosa e lunga lista delle giovani leve svezzate dal professor Louis comprendeva, tra gli altri, Seedorf, Kluivert, Davids, Overmars, Reiziger e i fratelli De Boer. Proprio ad Amsterdam trovavano terreno fertile le condizioni per mettere in pratica l’attitudine congenita di van Gaal, quella dell’istruttore scolastico, sviluppata con la professione di insegnante di educazione fisica svolta in parallelo a una modesta carriera di calciatore. Ecco allora il suo habitat naturale in quell’Ajax dall’età media bassissima, costituito da giocatori in divenire e da plasmare a piacimento secondo il proprio credo tattico. Una volta ritrovati in nazionale qualche anno dopo, però, i ragazzi erano divenuti campioni affermati anche all’estero, adattandosi ad altri paesi e assorbendo culture calcistiche differenti, forse non più disponibili a seguire per filo e per segno tutti i dettami del maestro.
Dettami che il coach prova ad applicare anche una volta terminata l’epoca del secondo grande Ajax, che dà il via alla diaspora dei talenti olandesi tra il ’96 e il ‘97. La nuova sede del laboratorio è Barcellona, sulla quale graverà la pesante ombra di Johan Cruijff per tutta la permanenza di Louis in blaugrana, quale metro di paragone irraggiungibile. Qui la “ossessione per l’etica del lavoro” di Van Gaal, per usare parole di Luis Enrique (uno dei baluardi di quel Barça), si scontra con varie personalità all’interno dello spogliatoio.
Infatti il regime instaurato dall’olandese prevede il controllo maniacale di ogni dettaglio, da quelli prettamente tattici all’attenzione per l’abbigliamento e la cura nelle foto ufficiali. In effetti i risultati arrivano, con la vittoria del doblete alla prima stagione, ma il plenipotenziario Louis vuole di più, insoddisfatto di una rosa non totalmente adatta alle sue esigenze. Forte dell’appoggio del presidentissimo Núñez, renderà così Barcellona una colonia olandese, con ben otto connazionali distribuiti per ogni ruolo, sacrificando alcuni talenti della casa lanciati proprio durante l’era Cruijff.
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Nel corso di quel triennio non basteranno un’altra vittoria della Liga e l’esordio in prima squadra di due future leggende come Puyol e Xavi per soddisfare un ambiente e una critica sempre più insofferenti al sistema Van Gaal. Sistema che in Champions League non riesce a evitare scivoloni clamorosi, proprio mentre gli eterni rivali di Madrid ritornano sul tetto d’Europa oscurando in parte i titoli blaugrana. Un’altra costante del soggiorno catalano sarà la sempre più frequente mobilitazione nei confronti della stampa, culminata nei celebri sfoghi di Louis (mouriniano ante-litteram).
Su tutti, quello relativo al difficile rapporto con Rivaldo, irrimediabilmente confinato sulla fascia sinistra anche dopo la vittoria del Pallone d’Oro nel 1999. Una mancata mediazione, quella col fuoriclasse brasiliano, che alla lunga logora la squadra e alimenta il conflitto con la stampa, in un epilogo della terza stagione senza lieto fine. Il tracollo contro il Rayo Vallecano (che ricorda, 20 anni dopo, quello di un altro olandese come Koeman) è accompagnato da una pañolada del Camp Nou e dalle grida di Fuera Van Gaal. Se l’arrivo a Barcellona del mister era stato all’insegna di una consapevolezza fiera e spavalda, che si esternava in frasi del tipo “ho vinto più titoli in sei anni con l’Ajax che il Barcellona in un secolo“, ora l’amaro saluto alla Catalogna tradisce una sorta di resa:
“Amici della stampa, me ne vado. Congratulazioni”.
Quando le certezze iniziano a vacillare, ecco arrivare l’esperienza alla guida della nazionale olandese con le problematiche sopra citate, acuite dalla mancata presa d’atto della necessità di una differente gestione che una selezione nazionale richiede rispetto a una squadra di club. Se il meccanismo oliato dell’Ajax dei giovani funzionava alla perfezione e se quello del Barcellona mostrava le prime crepe, quello dell’Olanda è destinato a un’inesorabile rottura. Nel “fallimento più grande” della sua carriera Louis sveste la maschera del duro per rassegnare le dimissioni, con le lacrime agli occhi, nonostante un solido contratto lo leghi al timone della nazionale per altri quattro anni. Ancora più del risultato, il fattore scatenante l’addio è la richiesta dei giocatori di un rapporto più rilassato al quale però il mister non è ancora pronto.
La parabola discendente sembra ormai imboccata anche nel breve, e disastroso, ritorno a Barcellona finito con una separazione nel gennaio 2003. A proposito di feeling con le individualità, nella mezza stagione sulla panchina blaugrana la vittima del dogma è Juan Román Riquelme, che da luce dell’incandescente Bombonera si trasforma in anonima zona d’ombra del campo. Reduce da un’altra delusione, Van Gaal scopre finalmente il suo lato più debole, quindi umano, nel mostrare il suo sincero dispiacere nella conferenza d’addio. “Sono il principale colpevole. Ho il diritto di sbagliare”. Sembra il lontano parente del barricadero che salutava la stampa tre anni prima. Quasi una fine delle ostilità che pare preannunciare lo stop anticipato della carriera di allenatore a poco più di cinquant’anni.
“Ho cercato di imporre certi aspetti del gioco a calciatori che giocavano in modo intuitivo, e questo non ha funzionato. Col tempo ho imparato che questi tipi di giocatori hanno bisogno di più libertà rispetto a quella offerta da strutture e sistemi”.
Tuttavia, dopo una parentesi annuale da direttore tecnico dell’Ajax, chiusa per il disaccordo con le scelte della società e del coach Ronald Koeman, Louis ripartirà dalla periferia del calcio olandese. Un passo indietro per farne due avanti, come la tattica adottata in campo dal suo AZ Alkmaar. Qui il buon Louis capisce che adattarsi è l’unico mezzo per sopravvivere, o meglio per rinascere. In una sorta di conversione ideologica, ecco allora l’abbraccio a un gioco verticale e di contenimento, all’attenzione particolare riservata alla fase difensiva, alle ripartenze in cui gli attaccanti veloci sono chiamati a sfruttare lo spazio creato dagli avversari scoperti. D’altronde, nel campionato olandese “tutti giocano troppo aperti” riflette il mister, che quindi sceglie di chiudersi non disdegnando, all’occorrenza, un classico 4-4-2 come modulo di riferimento per attendere l’avversario al quale è lasciata l’iniziativa.
Nel mezzo di quello che verrà ricordato da Van Gaal come il “periodo migliore” saranno proprio i suoi ragazzi a chiedergli di restare in panchina, in una terza stagione in cui Louis pensa alle dimissioni in quanto responsabile degli scarsi risultati, dopo aver sfiorato il titolo nell’annata precedente. Una compattezza dentro e fuori dal campo che darà come risultato i soli 22 gol subiti in 34 partite nel campionato che chiude quel quadriennio.
Inoltre, in un progressivo abbandono dell’integralismo trova spazio anche l’eccezione per il singolo da trattare in maniera speciale rispetto al resto del gruppo. Ciò che veniva negato a Rivaldo e Riquelme ora è concesso a Mousa Dembélé che, libero di svariare su tutto il fronte offensivo, trascinerà l’AZ alla conquista dell’Eredivisie nel 2009, a ventotto anni di distanza dall’unico precedente. Una vittoria in grado di interrompere l’egemonia incontrastata di Ajax, PSV e Feyenoord, in vigore per tutto l’arco di tempo aperto e chiuso proprio dai successi del club di Alkmaar.
Un trionfo che mette d’accordo tutta la critica olandese, anche in virtù degli investimenti oculati rispetto alle tre grandi e l’eco del clamoroso, e per nulla scontato, ritorno di Van Gaal arriva fino a Monaco di Baviera. Alla guida del Bayern la risalita può continuare fino a sfiorare il triplete, sfumato solo di fronte al vecchio amico e assistente ai tempi di Barcellona, José Mourinho. Un’esperienza, quella sulla panchina più prestigiosa di Germania, partita all’insegna del tormentato rapporto con la dirigenza e con Luca Toni, presto finito ai margini, ma che trova una svolta con il passaggio del girone di Champions con il 4-1 inflitto alla Juventus.
Del lavoro fatto a Monaco prevarrà comunque la vocazione di insegnante, nel senso più pregevole del termine, lasciando un’eredità capitalizzata dal successore Heynckes. Vedasi la definitiva consacrazione di Robben, diventato protagonista assoluto a livello mondiale, e il salto di qualità di due simboli come Lahm e Schweinsteiger, spostati rispettivamente sulla fascia destra e in mezzo al campo, quale risultato di un dialogo con i giocatori e di una comprensione del loro reale valore. Altre perle sono i canterani Müller e Alaba, lanciati in prima squadra e destinati a segnare un’epoca, così come Toni Kroos rientrato in Baviera dal prestito a Leverkusen e pronto a spiccare il volo, con l’arretramento nella zona mediana, per diventare un altro tassello del Bayern campione d’Europa e della Germania campione del Mondo negli anni successivi.
“Avevamo una grande mancanza di giocatori creativi. Ecco perché abbiamo giocato quel calcio noioso“.
Sull’esperienza al Manchester United
Prima di partire proprio per quel Mondiale brasiliano e arrivare in semifinale, la successiva fermata già prenotata è Manchester, sponda United, nel club che vive lo spaesamento dell’era post Sir Alex Ferguson. Un biennio che si chiuderà con la vittoria della FA Cup e dal quale molti si sarebbero aspettati di più, ma è un Van Gaal senza rimpianti quello cacciato anzitempo da Old Trafford. Qui il mister tenta di far giocare Di Maria in tutti i ruoli possibili del fronte offensivo senza ricavarci granché (anche per i frequenti infortuni del Fideo). È un allenatore ancora di più alla ricerca di giocatori “creativi” che risolvano le partite, ma l’argentino tradisce le aspettative e Wayne Rooney ha ormai imboccato la via del tramonto, anche se Louis gli assegna comunque la fascia di capitano per coccolarselo e cercare di responsabilizzarlo pure fuori dal campo.
Malgrado l’insoddisfazione dei palati più raffinati (vedi la leggenda Paul Scholes che definisce il suo calcio “miserable”), il decano olandese non si lascia abbattere dalle critiche, ma anzi le cavalca, raggiungendo il suo apice come personaggio istrionico. Senza più freni inibitori dalla sala stampa al campo, con il gusto per la polemica unita all’umorismo, è amato da una tifoseria che gli dedica la canzone Louis van Gaal’s red army, che lui stesso canterà davanti ai giornalisti. Un autentico mattatore, che se la gode spaziando dagli auguri di Natale, in cui alza un calice di vino alla salute degli “amici dei media”, alla presentazione di un opuscolo da consegnare direttamente a Big Sam (Allardyce), per smentire l’accusa mossagli dal coach del West Ham di praticare un gioco basato sui lanci lunghi.
Un’esperienza in cui un Louis ormai saggio prova ad adattarsi, consapevole di avere a che fare con un modo di gestire il club molto lontano da quello di Ajax, Barcellona e Bayern Monaco, con una proprietà non radicata sul territorio e incrociata solo in rare occasioni. Una società che privilegia più la parte commerciale di quella calcistica nell’organizzazione, come ribadito dall’allenatore nell’intervista concessa al Guardian nel 2019, ripercorrendo a 360° l’avventura coi Red Devils. Rassicurato vanamente a metà della seconda stagione sul rispetto del contratto triennale un ferito ma orgoglioso Van Gaal saluta Old Trafford nel maggio 2016. Una sorta di annuncio ufficiale sul suo addio al calcio arriverà solo qualche anno dopo, manifestando la volontà di passare il resto del suo tempo con la moglie dato l’avanzare inesorabile dell’età.
Una promessa rotta lo scorso agosto solo di fronte all’irresistibile proposta della KNVB, la federcalcio dei Paesi Bassi, che per la terza volta bussa alla sua porta e lo spinge ad abbandonare il buen retiro per recarsi al capezzale di un’Olanda in enorme crisi di risultati.
“Se fossi stato al posto della federazione anch’io mi sarei scelto” è la dichiarazione a caldo del Louis di sempre: fiero, arrogante ma sincero. A 70 anni suonati, dopo aver attraversato diverse stagioni del calcio e della vita, tra scalate alla vetta e pericolosi precipizi (in cui dover fare i conti anche con gravi perdite familiari), la passione totale di Louis van Gaal sembra la stessa del bambino che giocava con i fratelli per le vie di Amsterdam, qualcosa di non confinabile all’interno di schemi e classificazioni. Forse il sogno per andare avanti è sempre stato, ed è, quello di provare ancora una volta certi brividi.
“Il mio momento più emozionante nel calcio non è stato in panchina. Era sui canali di Amsterdam. La vittoria della Champions. È stato fantastico. Più di un milione di persone lungo i canali, gli anziani alle finestre. Fantastico”.