Ed esiste da anni.
Diceva Pier Luigi Nervi (il genio del Flaminio): “Una struttura è architettonicamente valida quando è corretta“. Questo è il punto focale da cui partire per esporre una riflessione a freddo rispetto alla sconfitta della Roma, maturata ieri in terra bulgara contro il Ludogorets nella prima sfida del Girone C di Europa League. E in generale per analizzare alcuni “cali” della squadra giallorossa, che più dell’eccezione rappresentano probabilmente la regola.
Quando parliamo di cicli vincenti e grandi allenatori, vittorie eroiche e titoli sportivi, ciò che balza agli occhi è la solidità strutturale delle rose di riferimento. I lettori perdoneranno il nostro oltranzismo, ma da questo assunto non ci scostiamo. Se parliamo della Roma, infatti, non possiamo non sottolineare la parabola discendente del club capitolino dell’ultimo quinquennio, che l’ha vista passare dall’essere seconda forza del campionato al non riuscire più ad avvicinarsi alla qualificazione in Champions League. Una questione innanzitutto tecnica, di rosa, di calciatori a disposizione.
Ci sono i bei percorsi europei a fare da contraltare ad annate deludenti in campionato, una semifinale di Europa League e la vittoria della Conference League, risponderanno alcuni di voi. Questo è vero, e nessuno ha intenzione di sminuire quanto fatto dalla Roma in campo internazionale negli ultimi anni, la migliore fra le italiane del resto. Tuttavia, se è vero che nella partita secca gli episodi, l’abnegazione e la buona lettura di un match possono permetterti di prevalere sull’avversario e costruire grandi serate, vedi Tirana o la bella qualificazione ottenuta contro l’Ajax nell’aprile del 2021 dalla vecchia Roma di Fonseca, è anche vero che nel lungo periodo, quindi in competizioni come la Serie A, i limiti escono fuori e difficilmente possono essere nascosti a quel giudice supremo che è il campo.
Di quali limiti parliamo? Qui si torna alla premessa, la struttura. Il problema della Roma non è tanto l’assetto tattico, per carità migliorabile ma comunque sottoposto alla supervisione di Mourinho; il problema atavico della squadra giallorossa risiede nella sua ossatura. Si prenda l’almanacco giallorosso e si rifletta sui singoli che compongono da più tempo la rosa. Noteremo che fra i nomi di spicco risultano quelli di Pellegrini, Mancini, Ibanez, Cristante, Karsdorp, calciatori che, tolta la piacevole eccezione di Smalling, non rappresentano profili di alto livello, di affidabilità assoluta, al netto di buone prestazioni e periodi positivi.
Calciatori, quelli sopracitati, che nel lungo periodo si lasciano andare a veri e propri momenti di flessione, letali nel contesto di un campionato insidioso come quello italiano, che richiede una continuità di rendimento quasi maniacale. Chi scrive non crede nel caso e la Roma, a partire dal 2018, da quando questo tipo di calciatori ha progressivamente costituito il nerbo della rosa giallorossa, non riesce più ad avvicinarsi al quarto posto, prima posizione utile per qualificarsi nel gotha del calcio europeo.
La Roma, in conclusione, è costituita da un nucleo di calciatori deboli, definizione che è differente da scarsi, e contornata da calciatori forti, come Dybala e lo stesso Smalling, e interessanti come il numero 9, Tammy Abraham.
I forti e gli interessanti, ad oggi, nella rosa costruita da Tiago Pinto rappresentano un’eccezione e questo, a dispetto delle soluzioni che potrà trovare uno come Mourinho, al momento costituisce un limite per la squadra giallorossa. La Roma infatti, smaltita la sbornia post successo della Conference League, dovrà inevitabilmente confrontarsi con realtà che potranno anche essere in crisi, si guardi al caso dell’Inter, ma che sul piano della continuità nelle prestazioni e della rosa dispongono di una forza superiore rispetto a quella giallorossa.
Starà a Mourinho trovare l’assetto tattico più idoneo per consentire al suo gruppo di calciatori di esprimersi al meglio, limitando le pecche ed esaltandone le qualità. Intuizioni del portoghese, come quella di Zalewski lanciato titolare in prima sauadra nel febbraio scorso, del passaggio alla difesa a tre per migliorare le prestazioni del terzetto dietro o di Mkyhtarian spostato intermedio per garantire maggiore copertura, e soprattutto una qualità maggiore nella gestione del pallone e nel palleggio in mezzo al campo.
Scelte e intuizioni che la scorsa stagione hanno consentito alla squadra giallorossa di portare a casa un trofeo, regalando un’estate da sogno ai tifosi. Proprio i tifosi, in conclusione, hanno il dovere di rimanere tranquilli, specie quando la panchina è occupata da una leggenda come José Mourinho: spocchioso, arrogante, pieno di sé, ma mai sazio di titoli, che statene certi vorrà vincere ancora, ancora e ancora. Al campo la parola.