Calcio
27 Novembre 2022

Luis Enrique e il grande pericolo dello streaming

Una rivoluzione, ma non per forza positiva. Anzi.

Pochi giorni fa Luis Enrique, il commissario tecnico della Spagna, ha annunciato al mondo che sarebbe diventato uno streamer. Il suo proposito era quello di confessarsi (quasi) ogni giorno dalla sua stanza d’albergo a Doha, raccontando l’esperienza personale e collettiva della sua nazionale; il successo delle prime dirette, come ampiamente prevedibile, visti anche i quasi 700 mila followers sul suo canale Twitch, è stato immediato: il tutto nell’elogio di questa nuova forma di comunicazione, “rivoluzionaria”, di alcuni media digitali e nell’entusiasmo dei social network, alimentato dalla dichiarazione del CT spagnolo per cui tutti i proventi raccolti con le dirette sarebbero stati devoluti in beneficienza.

«L’idea è nata guardando mio figlio passare tante ore a seguire gli streamer. Così ci è venuto in mente di fare lo streaming dal Qatar; è iniziato per scherzo e siamo molto entusiasti».

Luis Enrique

Eppure, questa “rivoluzione” virtuale di Luis Enrique, che certamente rappresenta un cambiamento epocale, va indagata a fondo, non solo nei suoi aspetti più superficiali, apparentemente democratici ed emancipatori. D’altronde si tratta del primo allenatore che si trasforma in streamer durante una competizione internazionale, e la cosa fa ancora più scalpore se consideriamo l’importanza del personaggio e della compagine. Eppure l’immagine di un Luis Enrique divertente e informale, amatoriale come l’inizio del suo primo collegamento – fra un microfono mal funzionante e un’inquadratura non perfettamente centrata – è un’immagine molto costruita, aiutata qui da noi anche dalle sue ripetute dichiarazioni pro-Italia che lo hanno sentimentalmente avvicinato all’opinione pubblica sportiva nazionale.

Luis Enrique, noto perfezionista, a partire dagli allenamenti in cui utilizza le nuove tecnologie in modo maniacale, è anche un uomo di grande (e difficile) carattere: fin dai tempi del Barcellona, con cui diventa protagonista dopo essere stato un comprimario al Real Madrid, e nei quali anzi si vanta degli insulti che gli provengono dal Bernabeu ogni qual volta si giochi un ‘clasico’: «Al Bernabeu o diventi invisibile o ti insultano, preferivo che mi insultassero», dirà a fine carriera. Sono gli anni in cui Luis Enrique forgia la sua personalità e sviluppa un’insofferenza quasi paranoica per la stampa: famosi i suoi battibecchi con l’inviato dell’epoca Pedrerol, l’attuale mattatore del programma trash pop per eccellenza del giornalismo calcistico spagnolo, El Chiringuito de Jugones, e tuttora suo grande avversario. Un’acrimonia che sembrava sopita negli anni alla guida del Barcellona, ma che è riemersa come un fiume carsico in questi anni da selezionatore della Roja.


Luis Enrique non ha solo questo volto, anzi.


Grande allenatore capace di costruire una squadra a tratti spettacolare, scopritore di giovani talenti, in grado di coniugare gioco e buonissimi risultati, Luis Enrique è però anche un uomo polemico, dal carattere difficile, egocentrico, poco propenso all’autocritica – i suoi vice, ad esempio, si sono avvicendati con velocità rutilante, quasi zampariniana; così non sorprese affatto quando, alla firma del contratto con la federazione, impose una clausola secondo cui non avrebbe mai concesso interviste ma solo partecipato alle conferenze stampa di rito. Conferenze trasformate in duelli verbali, nei quali ha dovuto spesso ribattere alle accuse dei media madridisti di convocare poco o nulla i giocatori del Real; o in cui, fra il serio e il faceto, ha mourinheggiato proclamandosi il migliore allenatore al mondo.

Insomma Luis Enrique, che finora aveva pochissimo utilizzato le reti sociali, e che di certo non possedeva l’aura di un Guardiola o un Klopp, sembra essere la persona giusta per sabotare il sistema dei media e metterne esplicitamente in discussione la centralità nel racconto di un evento globale. D’altronde con lo sbarco di un allenatore di primissimo livello dei Mondiali alle dirette Twitch, qualsiasi intervista post-partita o pre-partita perde completamente di valore: siamo di fronte ad una sorta di schiaffo catodico ai mitici acquirenti di diritti e in un certo senso, malinconicamente, alla fine di un’epoca.

Il problema è che, nell’elogio populista di questa novità come risposta positiva ad “un mondo ingessato” (quello degli studi televisivi) non ci si rende conto dei rischi esiziali che un simile modello può comportare.

Dei pericoli di una disintermediazione totale, e dell’ingenuità di rifiutare in toto il ruolo dell’istituzione (la televisione in questo caso, che andrebbe migliorata e non cancellata) nell’accoglimento acritico e pornografico dello streaming, che può rappresentare l’inizio di una deregolamentazione totale. Una condizione di cui già abbiamo visto i prodromi e i rappresentanti streamer, tra giornalisti un po’ tifosi e un po’ cialtroni, influencer riciclati ad esperti di mercato ed ex calciatori streamer, sedicenti “analisti”, che si ritrovano a sparlare senza limitazione di temo e decenza, dandosi anche un tono da “analisti”.

Il caso paradigmatico in Italia è ovviamente quello di Adani, Cassano e Ventola: personaggi fissi di quello strano format che è la Bobo tv in cui Vieri, dall’alto della sua dialettica ciceroniana (o bomberistica, fate voi), sembra il più saggio di tutti mentre dà sfogo agli adrenalinici e invasati monologhi di Adani, o agli sgrammaticati e francamente imbarazzanti interventi di Cassano. Eppure in Italia la Bobo tv è semplice carne da macello per polemiche da reti sociali – malgrado l’arrivo in una RAI che, nel suo goffo tentativo di sembrare giovane, sta essa stessa accelerando la sua crisi e aumentando a dismisura la mancanza di fiducia verso l’istituzione televisiva.



In Spagna invece il settore degli youtuber ha raggiunto una fase ancora più matura: basti vedere il caso di Ibai Llanos, uno youtuber basco decisamente sovrappeso e altrettanto decisamente nerd che, dopo anni passati a dedicarsi a videogiochi ed esports, ha cominciato ad occuparsi anche di calcio riuscendo a diventare il primo ad intervistare Messi appena reduce dalla firma del contratto con il Psg. Il suo segreto è quello di non fare domande scomode e di utilizzare un tono fra l’amichevole e il condiscendente: insomma, un Fabio Fazio giovanile e simpatico. Il suo grande colpo è stato trasmettere in diretta esclusiva sul suo canale Twitch la finale di Coppa America del 2021 fra Brasile e Argentina, dopo averne acquistato i diritti e averla trasformata in evento mediatico grazie alla telecronaca realizzata assieme al suo amico e sodale Piqué.

L’idea di base è che, per raccontare il calcio soprattutto ai più giovani, non servano i giornalisti; che ci si possa rivolgere direttamente ai tifosi in chat, come fatto anche da importanti calciatori, su tutti l’ex capitano del Barca Gerard Piqué. Piqué è un autentico modello mondiale di ciò: il primo calciatore padrone costante della sua narrazione, che ha fondato una casa di produzione, è diventato imprenditore mentre ancora giocava, si è preso l’onere di riformare la Coppa Davis o di fare da intermediario per l’organizzazione in Arabia Saudita della Copa del Rey.

A tal proposito, anche nel caso delle intercettazioni decisamente compromettenti con il presidente della federazione spagnola che lo colsero in flagrante conflitto d’interessi, decise di reagire sul suo canale Twitch, nel quale convocò una surreale conferenza stampa telematica, alle undici passate e dopo una partita di Liga: un evento che, se da un lato gli serviva per difendersi, dall’altro gli permetteva di monetizzare. Così come, sulle sue reti sociali e senza nessun avviso previo, ha comunicato il suo ritiro con un video di quelli che i giornalisti dal facile aggettivo definiscono emotivi, e che era in realtà sapientemente costruito come l’ennesimo spot alla sua marca.

Un’idea abile quanto pericolosa di calciatore self made man, capace cinicamente di vendere anche la cosa più struggente della sua esistenza sportiva: l’attimo poetico dell’appendere le scarpette al chiodo.

Ma anche un ‘idea, quella del mostrare e mostrarsi senza filtri, tanto seducente per lo spettatore quanto fallace, ipocritamente immersiva, favorita negli anni dai tanti e troppi giornalisti/opinionisti che hanno trasformato la cronaca calcistica in un racconto da iniziati, oppure in un corollario di banalità e di luoghi comuni che inevitabilmente ci ha resi tutti affamati di aneddoti e di dietro le quinte. Rinunciando però così, tra le altre cose, alla sacralità dello spogliatoio: sacro perché inaccessibile. Lo stesso motivo per cui Flaiano criticava la pornografia: “fa del pettegolezzo su un mistero”. Ecco cosa fanno in gran parte gli streamer calcistici, gossip nell’epoca della disintermediazione.



E allora fa sorridere – per usare un eufemismo – che gli stessi che criticano l’atteggiamento populista in società si ritrovino, con la scusa della critica alla burocrazia e al piattume del generalismo televisivo, a srotolare tappeti rossi al mondo dello streaming: solo perché nuovo, inclusivo, progressista. Come se si criticasse l’esistenza stessa dei partiti e della mediazione politica perché i parlamentari non sono stati, per grandissima parte, degni rappresentanti della propria categoria – effettivamente è stato fatto anche questo, e di streamer della politica ne abbiamo visti fin troppi, in tutti gli schieramenti. L’unica differenza è che, se in politica certe istituzioni e certi obblighi rimangono, nella narrazione sportiva la televisione e il racconto stesso si possono trasformare, si può superare il ruolo della mediazione.

Fino a sostituire se non abolire il “clero” giornalistico, come il luteranesimo ha abolito quello religioso.

Da parte sua Luis Enrique ha detto di “non voler prendere il posto della stampa”, a proposito di dichiarazioni politiche. Ma il rischio è più concreto che mai. E allora la domanda è la seguente: per l’inadeguatezza di tanta stampa e di tante televisioni (che anche qui tutti i giorni denunciamo) e per l’apparenza di sentirci per un momento partecipi di qualcosa, anche se non sappiamo bene di cosa, possiamo accettare che lo streaming cannibalizzi via via le forme di comunicazione tradizionale? Perché il segreto dello streaming, oltre alla sfiducia per l’establishment giornalistico, sta proprio in questo coinvolgimento diretto: nel fascino di una realtà che si sembra vicina, e a cui grazie allo streaming sentiamo di avere ora (illusoriamente) qualche forma di accesso.

L’evoluzione dei media ci sta portando verso questo dietro le quinte idealizzato, spurgato dai suoi elementi compromettenti e disturbanti. Un po’ quello che accade nei documentari che raccontano una stagione del Manchester City o della Juventus e nei quali perfino i litigi, i dubbi, le scelte complesse si trasformano in reality del calcio, in simulazioni e dissimulazioni. Il grande fratello nel pallone. Forse l’unica soluzione allora è fare un passo indietro e ascoltare meno, disinteressarsi dei dettagli inutili e strabordanti per concentrarci sulle imprese straordinarie degli eroi in campo: per non rischiare di sapere troppo, e perché questa conoscenza non li renda troppo, terribilmente, volgarmente quotidiani.

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