Recensioni
23 Settembre 2017

L'ultimo rigore di Faruk

Una storia di calcio e di guerra.

È il 1994, il giornalista Gigi Riva si trova a Strasburgo per presentare il suo libro “Jugoslavia, il nuovo Medioevo: la guerra infinita e tutti i suoi perché”. Dopo aver concluso la presentazione dell’opera, di fronte a lui appare un signore che gli chiede una dedica. L’autore domanda all’uomo il suo nome, Faruk risponde quest’ultimo, chiedendo a sua volta se lo conosce. Riva risponde di no. “Io sono l’uomo che ha distrutto la Jugoslavia con un calcio di rigore”. Si conobbero così Faruk Hadžibegić e Gigi Riva. È l’ex calciatore bosniaco e attuale allenatore del Valenciennes il protagonista del libro.

 

E non poteva esserci miglior personaggio principale che lui, nato e cresciuto nella Sarajevo che rappresentava il miglior esempio di Jugoslavia, la città delle olimpiadi invernali dell’84, la meta per gli artisti che avevano qualcosa da dire, una città le cui vie erano condivise da cattolici, ortodossi, musulmani ed ebrei. Mantenendo come epicentro dell’opera la storia personale di Faruk, la penna italiana narra la dissoluzione della Jugoslavia, con i Mondiali di Italia 90 come sfondo di questa incredibile vicenda che intreccia in maniera indissolubile calcio e politica. La storia ci ha mostrato in diversi momenti come il pallone sia stato un fattore decisivo nel mondo politico, utilizzato spesso dal potere come strumento di propaganda. Quando si parla di Balcani, calcio e politica corrono sullo stesso binario.

 

“Nei Balcani lo sport come la guerra non è una metafora. La guerra è prosecuzione dello sport con altri mezzi”.

 

Il pallone è sempre stato una costante negli eventi storici balcanici, e lo diventò ancora di più all’inizio dell’ultimo decennio del Novecento, rinominato il secolo di Sarajevo. Il 13 maggio e i famosi scontri allo stadio Maksimir di Zagabria, dove gli ultrà di Stella Rossa e Dinamo Zagabria diedero vita ad un antipasto di quello che sarebbe successo in seguito. Il 1990 è un anno di grande importanza nel contesto politico; il muro di Berlino è crollato un anno prima, la Germania sta mettendo in atto la riunificazione, l’Unione Sovietica è allo sbando e la Jugoslavia sta per implodere. L’Italia ospita i Mondiali di calcio, e sulle tribune degli stadi del bel paese, ci sono figure come quella dell’ex segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, grande appassionato di calcio, che si accorge di come la manifestazione alimenti il nazionalismo.

 

“Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo sconfitto l’Argentina. Forse sono troppo ottimista, ma nelle mie privatissime illusioni mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo giocato la semifinale, o la finale. Intendo cosa sarebbe successo nel Paese. Forse non ci sarebbe stata la guerra se avessimo vinto la Coppa del Mondo. O forse non sarebbe andata davvero così, ma non mi impedisco di fantasticare. Dunque quando sono steso sul letto e non dormo credo che le cose avrebbero potuto andare meglio, se avessimo vinto la Coppa del Mondo” (Ivica Osim).

 

Solo un paese (ex ormai) come quello jugoslavo potrebbe pensare, ancora oggi, che gli avvenimenti avrebbero potuto prendere una direzione diversa, se quel rigore… Quel maledetto tiro dagli undici metri sbagliato dal capitano Hadžibegić, in quel torrido pomeriggio di Firenze, dove i plavi dovettero giocare dalla mezzora in inferiorità numerica contro l’Argentina di Maradona. La consapevolezza di vivere quella che sarebbe stata l’ultima partita insieme, l’ultima volta da jugoslavi, portò gli uomini di Ivica Osim a mantenere il risultato inchiodato sullo zero a zero fino ai tempi supplementari.

 

Quale modo peggiore per decidere il destino di una nazionale, e forse di un paese, se non una lotteria bastarda come quella dei rigori. Faruk potrebbe non tirarlo, sarebbe l’unico ad avere un alibi incontestabile, ovvero l’errore contro la Colombia nel girone di qualificazione. Invece il capitano non si tira indietro, non può farlo. Succede di tutto in quella lotteria, si parte con l’errore del più bravo, il Maradona dell’est, pixie Stojkovic, che colpisce la traversa. Segue un altro errore che nessuno si aspetta, di Maradona (quello vero) che si fa parare per la seconda volta in carriera un rigore da Tomislav Ivkovic.

 

Maradona si dispera dopo l'errore dagli 11 metri
Maradona si dispera dopo l’errore dagli 11 metri

 

Poi sale in cattedra il destino, che in quei giorni è decisamente contrario a Faruk. Il capitano si dirige verso il dischetto, sistema la palla e prende la rincorsa, tutto è pronto, ma l’arbitro lo ferma. Non è il suo turno, secondo il direttore di gara tocca al numero 7, Brnovic. Si verrà a sapere che in realtà era proprio il capitano il quarto della lista, quindi di tutto ciò che accadde successivamente si potrebbe accusare l’arbitro piuttosto che il numero cinque jugoslavo.

 

Quella decisione cambia l’inerzia degli eventi, Brnovic sbaglia, l’argentina segna e Faruk, probabilmente condizionato mentalmente dallo scherzo del destino che lo porta a dover tirare l’ultimo rigore – dopo essersi già presentato sul dischetto ed essere tornato indietro – consapevole che l’errore significa fine, sbaglia malamente. È lui che da capitano e fiero amante di quell’idea di fratellanza e unità – bratstvo i jedinstvo – da quell’istante veste i panni del capro espiatorio. Anche perché quando capita, raramente, che i sensi di colpa spariscano, ci pensano tutti: serbi, croati e bosniaci, a ricordarglielo.

 

“Ah, se lei avesse segnato quel rigore! Forse cambiavano i destini del Paese”.

 

Gigi Riva mette per iscritto, in maniera sublime, la storia degli ultimi giorni della Jugoslavia. Il libro indaga le vicende personali dei calciatori di quella fortissima nazionale, considerata il brasile d’Europa; giocatori che improvvisamente trovarono il loro sport preferito legato indissolubilmente agli interessi politici. Uomini che vennero chiamati ad una decisione: stare con quella che stava diventando la nuova madre patria o (re)stare con il regime. Calciatori il cui unico obiettivo era quello di scendere in campo e proteggere i colori della Jugoslavia. Il giornalista durante l’opera salta diverse volte – in maniera impercettibile – dal calcio giocato ai fatti storici/politici.

 

Un ripasso lucido e non dispersivo degli eventi che portarono alla disgregazione dell’ex-Jugoslavia, con aneddoti personali riguardanti anche altri sportivi, come i cestisti Petrovic e Divac, o il discutibile rapporto di amicizia che legava l’attuale allenatore del Torino, Sinisa Mihajlovic, a criminali come Arkan e Ratko Mladic. Un libro straordinario, che permette al lettore di immergersi completamente in quel periodo così strano e complicato che fu il decennio delle guerre jugoslave, risultando molto utile per comprendere le intricate dinamiche che caratterizzano il mondo balcanico. Un mondo dove a diciotto anni si viene eletti capitani in prima squadra, dove se a venticinque anni non si è sposati si viene guardati con preoccupazione, un mondo dove nell’immaginario collettivo un rigore avrebbe potuto cambiare la storia ed evitare la guerra.

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