Papelitos
02 Dicembre 2017

L'umiltà di essere grandi

Napoli-Juventus, o "l'arte di saper vincere".

La partita di ieri sera ha mostrato al calcio italiano l’origine di gioco che gli è propria; il catenaccio. Si sono spese tante parole sul “bel gioco”, sull’estetica di gioco, spocchiosa e in più circostanze fine a se stessa. Si sono riversati fiumi di parole sullo “scandalo Italia” a livello federale, in senso lato “culturale”, ma poche ne sono state spese – troppe poche a dire il vero – sull’identità del nostro calcio, in crisi perché “stanca” dell’antico difensivismo, stanca dei troppi tatticismi, vogliosa di spettacolo ma già solo per questo libidinosa. Il calcio è un gioco semplice; ci sono undici giocatori che ne affrontano altri undici, e vince la partita chi segna un gol in più rispetto al proprio avversario. E’ curioso come ci si sia dimenticati di un principio tanto sano quanto vero; perché contro la verità del risultato non ci sono “sarrismi” che tengano. Dopo l’1-0 della Juventus al San Paolo di iersera, il Napoli non ha certamente smarrito quel fascino da “Barcellona italiano”, come non ha smarrito (aspettando che giochi l’Inter, a onor del vero) la testa della classifica, o comunque il primato in classifica rispetto ai nemici di sempre della Juventus. C’è però qualcosa che il Napoli pian piano sta mostrando, ovvero una deficienza strutturale – propria dell’estremismo estetico cui il gioco di Sarri costringe gioco-forza – in seno alla semplice e primitiva foga consistente, molto banalmente, nel voler battere i propri avversari, nel voler vincere. Il comportamento del Napoli in questa partita, come anche era accaduto nel doppio confronto col City di Guardiola, è apparso tutt’altro che umile, ma in un senso più profondo rispetto all’umiltà tipica di una provinciale; quello del Napoli di ieri sera è stato un dire: “Io gioco meglio rispetto al mio avversario! Propongo gioco! E in questo sta il mio nobile spirito!”, alla maniera di un Illuminismo decaduto.

Un Voltaire mascherato dalla tuta: Maurizio Sarri
Un Voltaire mascherato dalla tuta: Maurizio Sarri

Così, al netto di un Massimo Mauro e di un Fabio Caressa, questo Napoli è tutt’altro che maturo per vincere qualcosa. Nel “Club”, a Sky Sport, in queste settimane, non si è fatto altro che parlare di una città (addirittura di un’intera città, nemmeno di una squadra di pallone!) “consapevole, matura”, “pronta per il grande salto” (espressione generica e priva di senso). E la squadra, che doveva risentire (secondo i nostri Mauro e Caressa) del clima di maturità perpetrato dall’esterno, delle “voci della città”, con tutto il popolo partenopeo il Napoli era pronto per la grande impresa; battere la Juventus e portarsi a +7 dalla Vecchia Signora. Detto non-fatto. In una bolgia tutt’altro che matura, che invero sentiamo molto più vicina rispetto alla fantomatica “maturità” di cui sopra, e anzi pienamente consapevole dell’importanza dell’evento, dunque caldissima, fremente, in una bolgia tipica delle migliori notti infernali offerte dal San Paolo, il Napoli, che aveva due risultati su tre, ha definitivamente perso le sue “certezze. C’è un dato su cui andrebbe fatta una riflessione profonda, ancor prima di mettersi a discutere di “grande gioco” e “calcio spettacolo”; il Napoli, contro (rispettivamente) la seconda e la terza (Domenica possibile prima) della classe, ha portato all’attivo un proficuo bottino di zero reti. Partite che entrambe, peraltro, il Napoli ha avuto la “fortuna” di giocare tra le proprie mura; 0-0 contro l’Inter e 0-1 contro la Juventus. E allora torniamo al discorso dell’identità catenacciara; cosa conta davvero? Vincere di misura, in maniera sporca, con sofferenza e passione (perché c’è più passione nella sofferenza che nello spettacolo da circo), o perdere mettendo in mostra apparenti fondamentali tecnici? Altro problema, allora; il Napoli ha senz’altro il gioco “più bello” (attenzione! Non “il migliore”) che si possa osservare sui campi di calcio della penisola. Ma, appunto, produce un solo modello di calcio. Se Insigne e Mertens sono ingabbiati, se l’avversario, soprattutto, sa difendersi a dovere, quali sono le alternative soluzioni del gioco “sarriano”? La verità è che non ce ne sono. E’ un problema che già lo scorso anno si era palesato (Napoli 1-1 Palermo), ma che quest’anno rischia di pesare ancor di più. Infatti, ancora una volta a braccetto con Massimo Mauro, rispetto alla scorsa stagione i partenopei, in queste prime quattordici partite di campionato, avevano dimostrato una superiorità non solo calcistica ma anche mentale; avevano dimostrato di saper soffrire (Udinese-Napoli e Napoli-Milan su tutte), ma dopo la prestazione di ieri sera è venuto quasi il dubbio – lo sappiamo, un po’ diabolico – che quel “saper soffrire” e quell’“esser umili” non era tanto causato dalla crescita dell’intera squadra, quanto dalle difficoltà fisiche. Difficoltà tipiche, e in parte giustificabili, di chi arriva a giocarsi una partita di questo peso a Dicembre, avendo iniziato la preparazione un mese prima degli altri.

A proposito di problemi fisici. Ecco l'uomo che soffre le pressioni
A proposito di problemi fisici. Ecco l’uomo che soffre le pressioni

Parlare di problema atletico, in ogni caso, sarebbe superficiale. Abbiamo voluto imitare il calcio spagnolo, spettacolare e brevilineo. Abbiamo voluto (come il Napoli così l’Italia, seppur con caratteristiche del tutto differenti) esaltare, con entusiasmo eccessivo, la tattica dei “triangoli stretti”, il lustro del “palla avanti-palla dietro” di adaniana memoria. Siamo finiti fuori dal Mondiale e ci siamo ritrovati un campionato che impone, ancora una volta, la sua legge di ferro; «vince chi è più bravo, non chi è più forte», giusto per citare uno a caso, Gigi Buffon. Che poi la Juventus sia, a livello di uomini, ancora (di gran lunga) superiore al Napoli, questo è un altro discorso ancora. Quel che abbiamo ammirato ieri sera, della Juventus, non sono stati (solamente) i dribbling da capogiro di Douglas Costa, le piroette in mezzo a quattro avversari di Miralem Pjanic (che a fare il circo, guarda caso, ha rischiato di rovinare la partita dopo pochi minuti), né la qualità nel palleggio della prima mezzora. Ci ha commosso, perché riportati sulla terra, un Dybala che con “la Dieci” sulle spalle ha giocato un intero secondo tempo a disturbare Jorginho nella prima impostazione; ci ha commosso Higuain, “il gordo”, che con la mano non “de Dios” ma “del hombre”, ha azzittito un intero popolo, dimostrando ancora una volta quanto conta avere in squadra uno come lui, al di là del bene e del male. Con una mano che lo teneva in dubbio fino all’ultimo, per il giubilo dei tifosi partenopei, ha risolto una partita delicatissima, giocando, almeno fino a questo momento, i miglior novanta minuti della propria stagione. Gli è bastata una “vera” palla gol, e lui non l’ha mancata. I fischi sono stati un incentivo, non un fattore negativo. E allora, dopo i primi trenta minuti di bel calcio Juventus – e chi afferma il contrario non ha ben capito cosa significhi “giocar bene a calcio” –, è arrivato il momento di difendersi. Lì la svolta e la chiave di volta per capire Napoli-Juventus. La grandezza di una squadra non si misura nell’estetica del proprio calcio, ma nella lettura dei singoli momenti all’interno di una partita. Allegri ha prodotto un capolavoro tattico; la Juventus non è mai parsa in difficoltà contro un Napoli “da copertina” che è rimasto pura teoria, trasformandosi in incubo per sé stessa. Il campionato è riaperto; la Juventus non solo è tornata, ma probabilmente non ha mai smesso di lottare, dimostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che in Italia il miglior attacco è la difesa.

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