Molto della Macedonia del Nord, se non tutto, è nella sua capitale: Skopje. Skopje è una città di contrasti e ideologici voli pindarici. È un mix di tante cose diverse, un singolare e stridente connubio tra kitsch e storia. Il suo passato greco, bizantino, ottomano e iugoslavo convive con una superficiale e turistica occidentalizzazione di facciata.
A Skopje c’è infatti di tutto: una riproposizione del toro di Wall Street, la casa di Madre Teresa di Calcutta (nata qui) e improbabili pullman rossi a due piani. Spenti palazzi comunisti fanno da sfondo a statue illuminate di vaghi eroi mitici del passato, mentre a pochi passi, dall’antico bazar, il muezzin chiama cinque volte al giorno i musulmani alla preghiera. Skopje è così: è incerta e indefinibile. Tanti venti diversi spirano metaforicamente in direzioni disparate, e provare a trovare un’identità comune è come girare attorno a una piramide egizia per cercarne l’ingresso.
Quello dell’identità è un problema che accompagna da sempre tutto il Paese.
Come altri stati balcanici, la Macedonia del Nord è formata da varie etnie: macedoni (per la maggior parte), albanesi, turchi. La convivenza è stata spesso difficile, turbolenta. Gli accordi di Ohrid del 2002, che hanno riconosciuto anche l’albanese come lingua ufficiale, hanno risolto soltanto in parte la situazione interna.
Continue tensioni sono poi giunte dall’esterno. Ultimamente dalla Bulgaria, che vorrebbe degradare la lingua macedone a mero dialetto bulgaro. E in passato dalla Grecia. Per agevolare il proprio accesso a Nato e Ue (questo non ancora ultimato), il governo macedone ha dovuto rivedere le proprie radici, i propri miti. Le regole dettate da Atene erano chiare. Innanzitutto, abbandonare il nome: il termine Macedonia, che è anche una regione nel Nord della Grecia, è per i greci patrimonio esclusivamente ellenico.
In secondo luogo, sostituire il vessillo sulla bandiera. Il sole di Verghina, stella simbolica che figurava in uno scrigno appartenuto probabilmente a Filippo II e protagonista della bandiera macedone dal 1992 al 1995, è stato sostituito con un sole a otto raggi. E così, nel centro della capitale sorge una statua di un guerriero a cavallo: tutti a Skopje sanno che è Alessandro Magno, ma nessuno può dirlo. Perché Alessandro il macedone è nato a Pella (antica città della Grecia) e i greci ne custodiscono gelosamente il ricordo e la memoria.
Il calcio in Macedonia non fa eccezione. La nazionale macedone, che non ha figurato nelle precedenti partecipazioni alle fasi finali di un europeo, non ha mai dato l’impressione di essere realmente solida e unita. Qualche giocatore di talento negli anni c’è stato. Uno su tutti: Darko Pancev, campione d’Europa con la Stella Rossa nel 1991, secondo (a pari merito con Matthaus) nella classifica del pallone d’oro e famoso in Italia per le celebri parodie della Gialappa’s Band. E poi Ilija Najdoski, difensore di quella straordinaria squadra che vinse la Coppa campioni a Bari contro il Marsiglia. Ma i risultati importanti, come detto, sono sempre mancati.
Ecco perché il lavoro del Ct Angelovski è stato così prezioso e cruciale. Angelosvski ha lavorato sull’anima e l’unità di un gruppo fino a quel momento diviso, lacerato. Ha capito, prima di ogni altra cosa, di dover dare un’identità ai suoi.
La Macedonia del Nord è oggi l’evoluzione di quella che nel 2017 disputò l’europeo Under 21. Il Ct ha creato una squadra compatta, che raramente cambia i suoi interpreti. In porta c’è Stole Dimitrievski, del Rayo Vallecano. Dietro il leader è Stefan Ristovski, terzino esperto con un passato in Italia. In mezzo al campo la fantasia è tutta di EljifElmas, stella del Napoli forse ancora inespressa. L’arma migliore è però nel reparto offensivo. A guidare la Macedonia del Nord – fino al ritiro dalla Nazionale già annunciato dopo l’Europeo – è stato ed è ancora il suo capitano, il sei volte calciatore macedone dell’anno: Goran Pandev.
«Goran è per noi fondamentale, è la nostra anima. Per noi macedoni Goran è molto di più di quello che Modric è per la Croazia. Ricordo il viaggio a Genova nel 2015: ero stato da poco nominato Ct Goran aveva deciso di lasciare per assenza di risultati. Era triste. Gli feci cambiare idea, accettò con entusiasmo. Ora è la stella».
Igor Angelovski
Eroe del triplete nerazzurro e vincitore di dieci trofei in Italia, è il calciatore che più ha giocato per la Nazionale (117 presenze) e che più ha segnato (37 reti). Suo è il gol del Novembre 2020 contro la Georgia che ha portato i macedoni all’Europeo. Suo è anche quello della recente e storica vittoria, nelle qualificazioni ai Mondiali, per due a uno in casa della Germania. Più di tutto, Pandev è per i macedoni un simbolo. I compagni vedono in lui un modello a cui protendere, un sole (chissà se di Verghina) in grado di irradiare e scaldare il povero calcio macedone. E noi, abituati a vederlo solcare i campi della penisola, non possiamo che esserne felici.
Perché la verità è che Pandev è come il grigio: non passa mai di moda. Invecchia, ma non illanguidisce. Quel mancino ieratico e quelle gambe tornite delineano una figura unica, quasi iconica.
Non è elegante, ma ha classe. Non ruba l’occhio, ma fa sempre la cosa giusta. È alto un metro e ottantaquattro, ma non si direbbe. È intelligente, scaltro. Forse la sua più grande capacità, come diceva tempo fa Enrico Sisti su La Repubblica, è di non creare aspettative: è un maestro nell’arte della dissimulazione. Quel suo aspetto così dimesso e antimoderno è per gli avversari il peggior biglietto da visita possibile. Quei movimenti in apparenza lenti e sgraziati sono come il mare che si ritira prima di uno tsunami di idee e di guizzi improvvisi. Pandev è menzogna che cammina. È bellezza in una sagoma improbabile. È tecnica ed estro in un calcio sempre più metallurgico e tecnocratico. È un antidoto al calcio-ogm.
La fortuna della Macedonia del Nord è quella di conoscere già in anticipo l’esito del suo primo Europeo di sempre: comunque vada sarà un successo. Molto passerà dai piedi del suo capitano: Goran Pandev, il più amato di sempre e, almeno lui, patrimonio esclusivamente macedone.