San Salvador è una città tropicale e sonnacchiosa, specialmente in tempi di pandemia, ma non per questo poco vitale. C’è un ritmo particolare qui, che tento di seguire fin dalla mattina quando esco dalla piccola pensione dove alloggio: facciata blu, ringhiere in ferro color panna, residui di stile vittoriano. Il sole centroamericano picchia forte, e il riparo migliore è un mercato rionale che si sveglia presto e indica a tutti cosa significhi essere il centro di una comunità. Da qui, guardando a destra, svetta un colosso azzurro sopra le case basse in pieno centro: l’Estadio Nacional Jorge “Magico” Gonzalez. Magico Gonzalez? Mai sentito nominare. Il rito e il mito appartengono però al popolo, e dunque chiedo al fruttivendolo.
«Gonzalez? – mi risponde, tra l’incredulo e il divertito – Una leggenda!».
Gli chiedo se è ancora vivo, se abita a San Salvador, vorrei saperne di più: «Ma certo, vive a San Salvador, non lontano da qui. Ma se provi a cercarlo di certo non lo troverai». Ride il fruttivendolo, e io penso sia la solita storia sfumata nella leggenda che piace così tanto in questa parte di mondo. Eppure davvero Jorge è un fantasma che appare solo quando vuole lui, e indirettamente ne avrò la conferma. Su YouTube esiste un reportage di un importante televisione spagnola che, dopo essersi accordata con lui per un’intervista, era volata a El Salvador per incontrarlo. Morale della favola? Una settimana a cercarlo invano per ogni quartiere fino ad arrendersi di fronte alla triste realtà. Semplicemente non aveva più voglia di essere intervistato. Magico.
Jorge Gonzalez si presenta per la prima volta al grande pubblico durante i mondiali spagnoli del 1982. Partecipazione di quelle che non lasciano il segno, visti i 13 gol subiti e l’eliminazione al primo turno, eppure ascoltare spezzoni della telecronaca di quelle partite è un’esperienza rapsodica. In ogni singola azione, in ogni parte del campo, a qualsiasi minuto due semplici parole: Magico Gonzalez, Magico Gonzalez, Magico Gonzalez.
Nel braccio di ferro di quell’estate rovente tra Cadice e PSG per tesserarlo, detto oggi fa un po’ ridere, la spunteranno gli Andalusi: sarà un connubio indimenticabile, per i tifosi di certo, per la dirigenza un po’ meno; una simbiosi così perfetta tra città e singolo individuo da scomodare esempi partenopei. Gonzalez resterà a Cadice dall’82 al ’91, tranne una piccola parentesi fallimentare di sei mesi al Valladolid – da dove scapperà improvvisamente una notte perché, a suo dire, nell’entroterra spagnolo faceva troppo freddo. Segnerà molto in carriera, quasi tutti gol bellissimi, giocherà tutte le partite che fu possibile fargli giocare.
Ha sintetizzato perfettamente questo concetto il suo ultimo allenatore in Spagna, David Vidal. Una figura mitica del calcio iberico, un Carletto Mazzone in salsa galiziana: istrionico, e con un bel paio di baffi corvini oramai incanutiti. «Non potevo farlo giocare se non veniva agli allenamenti. Gonzalez spariva anche per 20 giorni consecutivi .Spesso lo abbiamo messo in campo con un solo allenamento alla settimana». Lo stesso Vidal fermamente convinto che Jorge a livello tecnico fosse superiore ai vari Maradona e Messi. Confronti che lasciano il tempo che trovano, alimentati però dallo stesso Maradona il quale dirà: «tutti tentavamo di fare le giocate che faceva Gonzalez, ma semplicemente non ci riuscivamo», concludendo:
“Yo vengo del planeta tierra, él viene de otra galaxia”.
Trasportato nel calcio di oggi Gonzalez sarebbe una seconda punta, o un esterno alto di un 4-3-3. Molti lo hanno paragonato appunto a Maradona o anche a Zico per il modo di calciare le punizioni, ma osservandolo attentamente nei filmati sgranati si avvertono lampi del primo Baggio, quello in maglia viola, quello degli slalom giganti. Anche Gonzalez più destro che sinistro, dal dribbling con cambio di passo supersonico, troppo veloce per gli avversari, con grande forza nelle gambe nonostante un’apparenza da cardellino. Uno che aveva pure la sua signature move, la “Culebrita Macheteada“: una sorta di elastico, inverso rispetto a quello a cui siamo abituati.
Spesso la eseguiva da destra, puntando l’avversario: un leggero tocco d’interno per fargli perdere l’equilibrio seguito da un movimento repentino della caviglia, con il quale si allungava la palla con l’esterno lasciando il difensore sul posto. Culebra d’altronde in spagnolo significa serpente, e quel movimento rapido ricorda proprio il moto ondulatorio con il quale il rettile muove la testa prima di sferrare l’attacco. Ma la culebra è anche il modo di descrivere quel momento imbarazzante in cui due persone stanno per baciarsi e, proprio all’ultimo, uno dei due scosta la testa per riceverlo sulla guancia: gli ha fatto la culebra, per l’appunto.
Ai romantici la scelta dell’interpretazione, quello che è sicuro è che tutta Cadice tratteneva il respiro vedendolo isolarsi, perché già sapeva cosa sarebbe successo.
Due azioni per descriverlo. Probabilmente il più bel gol segnato dal “magico”, realizzato in una partita del 1986 contro il Racing Santander: corsa palla al piede fino allo spigolo destro dell’area avversaria, salta il primo uomo con una violenta virata verso il centro, salta il raddoppio con una croqueta destro/sinistro con tunnel ed infine il terzo avversario che era corso in aiuto con un tocco di esterno destro. A questo punto si trova esattamente sulla linea dell’area, centralmente. Con la coda dell’occhio riesce a vedere il portiere nella pericolosissima terra di mezzo dei numeri 1, tra area piccola e dischetto del rigore, incerto se uscire o meno. E lo beffa con un delicato pallonetto.
Poi l’azione che ancora di più lo definisce: l’astuzia, la fantasia, l’imprevedibilità, il senso di incompiutezza. Spiovente del Cadice verso la porta avversaria e sponda di un giocatore verso il dischetto, il portiere in uscita viene anticipato da un tocco di Gonzalez che aveva seguito l’azione tagliando da sinistra verso destra. Dopo il tocco, “Magico”, si trova quasi al limite dell’area piccola con le spalle rivolte verso la porta e la palla che, come si dice in questi casi, gli è rimasta un po’ sotto. Qualsiasi altro giocatore si sarebbe girato sul piede perno calciando probabilmente di collo, perdendo così un tempo di gioco. Gonzalez invece colpisce la palla che rimbalza esattamente con il tacco anticipando tutti.
Il gol verrà “annullato” solo a causa di un avversario che, trovandosi poco dopo la linea di porta, bloccherà la palla con la mano non potendoci arrivare con nessuna altra parte del corpo.
Una rete mancata che, proprio per il suo carattere di incompiutezza, rende ancora più fragile e poetica l’unicità del momento. L’urlo strozzato in gola più emblematico ed iconico della rete che si gonfia; il tentativo tanto audace che non va sporcato con la trivialità del successo, come il pallone che sfiora il palo dopo la finta di Pelè su Mazurkiewicz. Azione che terminando in questo modo esprime e sintetizza al meglio la parabola del “Magico”: di tutto quello che avrebbe potuto essere ed invece non è stato, ma alla fine va bene cosi.
Di Gonzalez fuori dal campo invece si è parlato ancora di più, se possibile, che di Gonzalez in campo. Naso aquilino, cascata setosa di riccioli neri ed una faccia antica, da primo ‘900, come quella di Roman Polanski. Jorge ribelle, sfuggente, polemico con le autorità e con chi ha sempre cercato di incasellarlo nello stereotipo del talento sprecato. Vero è, c’è da dirlo, che non fosse proprio un campione di professionalità.
Famose sono le sue 14 ore di sonno diurne con accappatoio arrotolato in testa per recuperare dalle sistematiche notti passate nelle taverne. Una in particolare, la preferita, “Casa Manteca”, insieme ad un amico speciale, quel Camaron che a Cadice non è solo un cantante di flamenco, è IL flamenco. Entrambi bohémiens, entrambi liberi, entrambi bambini.
«La notte mi piace da morire, se me lo chiedete mi sento di raccomandarne una piccola dose ad ognuno, a patto che si combini qualcosa anche durante il giorno».
A chi chiedeva spiegazioni sulla sua professionalità rispondeva semplicemente così, in modo onesto, nel suo modo. Vita notturna sì sregolata, ma senza cadere negli eccessi dell’alcool, anzi: lo hanno confermato molti compagni, ed anche quel Vidal che spesso girava per locali in cerca di qualcuno dei suoi giocatori, e una volta si trovò di fronte proprio Gonzalez, al bancone, con un bel bicchiere di latte in mano. «È la verità, non beveva alcolici», dirà di lui proprio l’ex allenatore, al contrario di quanto scrivono tutti gli articoli a lui dedicati in Italia, che alimentano la facile retorica del George Best sudamericano.
Possiamo dire quindi che per lui lo stereotipo del calciatore drammatico e dissoluto valga solo a metà. Ciò che vale è sicuramente la leggenda riguardo la sua fertilità: svariati figli più o meno presunti lasciati in Andalusia, due riconosciuti ufficialmente, più quelli che vivono con lui ora a El Salvador. Per mettergli un freno la società pensò di toccargli il portafogli, con la somma delle multe del solo ’89 che raggiunse i 90 milioni di pesetas. Nessun problema per “Magico”, il quale aveva una completa avversione per il denaro. Anzi, da quelle parti ricordano ancora come spesso si dimenticasse addirittura di ritirare lo stipendio.
Durante gli anni spagnoli si parlò di trasferimento in due occasioni. L’Atalanta per prima. “Magico”, informatosi preventivamente sul clima di Bergamo e sulla mancanza di una buona frittura di pesce, giocò appositamente male la partita con gli osservatori della Dea presenti allo stadio, facendo saltare il tutto. Si fece avanti persino il Barcellona che lo portò negli States per una tournée estiva, ma alla resa dei conti la dirigenza non se la sentì di tenere in squadra lui e Maradona, per chiari motivi extracalcistici. Lascerà Cadice nel ’91 per tornare a El Salvador dove giocherà ufficialmente fino a 42 anni. Un vezzo? Ogni singola partita disputata con una leggera piuma bianca infilata dentro al calzettone. Magico.
«Ho sempre avuto molto rispetto per questo gioco, quello che non ho rispettato, è stato me stesso». Il suo manifesto, il suo addio.
Lo sport si evolve. Il calcio in particolare, che negli ultimi 20 anni è stato completamente rivoluzionato ed è inevitabile che sia così. Forse Gonzalez non avrebbe potuto giocare il football che si gioca oggi, ma nel concetto nostalgico di quel calcio passato, di cui spesso si abusa, una piccola verità c’è: la forza delle emozioni. Perché il tunnel da torero di Riquelme rimane impresso nella memoria, pur essendo apparentemente fine a se stesso. Di Tardelli viene celebrato l’urlo, e non il gol, come rappresentazione massima di forza liberatrice. E quindi viene da chiedersi: dentro di noi, rimarranno di più i record ipertrofici da scarpa d’oro o la bellezza di una singola, languida, “Culebrita Macheteada”? A Cadice, e a El Salvador, forse sapranno rispondere.