Amare lo sport, quando culturalmente non pagava.
Aveva 84 anni di vita alle spalle – ma ancora altri 15 davanti a sé – quando nel 2000 scelse Zdenek Zeman come protagonista letterario e gli dedicò un romanzo intitolato Il mister. Manlio Cancogni ha attraversato tutto il Novecento culturale e scelto spesso lo sport come metafora delle sue storie, dopo aver vissuto anni da inviato (anche) sportivo negli stadi e lungo le strade del Giro. A 96 anni invece scrisse Toro delle meraviglie e ricordò di quando, nel dopoguerra, si era fatto centotrenta chilometri in bicicletta, dalla sua Fiumetto allo stadio dell’Ardenza, per vedere i granata contro il Livorno: zero a tre il finale, anche se quel giorno non c’era in campo Valentino Mazzola.
Nato quasi per caso a Bologna nel 1916 e morto a Marina di Pietrasanta nel 2015, è stato tante cose insieme, Manlio Cancogni. Giornalista per la miglior carta stampata dei suoi tempi: il Corriere della Sera, la Stampa, l’Europeo, l’Espresso (è rimasta nella storia la sua inchiesta sulla speculazione edilizia a Roma: “Capitale corrotta = Nazione infetta”), infine Il Giornale. Scrittore di successo, vincitore anche di un premio Strega (Allegri, gioventù, 1973), professore di letteratura italiana negli Stati Uniti. Però gli rimase sempre nella testa Roma – che pure non amava – degli anni Venti e Trenta, quando lui era solo un ragazzino toscano della Versilia, trapiantato da poco nella capitale.
Quando lo sport gli entrò nelle vene per non uscirne più. Confessò: “Le prime emozioni poetiche le ho avute dall’atlante, dallo sport e poi dal viaggio in treno Roma-Viareggio, andata e ritorno”.
Il 1926 come anno di svolta, di conversione. Quando vede passare ai Parioli il Gran Premio di Roma e si innamora del canto del motore della Bugatti e del rombo dell’Alfa Romeo guidata dal conte valdarnese Gastone Brilli Peri (quello che Lucio Dalla accosta in “Nuvolari” a “Varzi e Campari, Borzacchini, Fagioli e Ascaaaaari”). E poi le partite di calcio nel parco di Villa Borghese in cui lui, figlio di socialista e che sempre sarà antifascista, gioca insieme ai rampolli di Mussolini. E per Il mister sceglie proprio quell’ambientazione retrò del campionato ULIC degli anni Trenta. In una storia che intreccia sport, storia e politica, ricostruita attraverso gli occhi di un ginnasiale con poca voglia di studiare ma capace di restare folgorato dal fascino schivo di Zoran, l’allenatore-calciatore cui Manlio Cancogni regala anche il profilo fisico di Zeman.
Ci aveva già provato ai tempi del Foggia, nei primi anni ’90, a scrivere di lui, e poi di nuovo quando era alla Lazio. Ma non ci era riuscito e aveva cancellato tutto quel romanzo che si sarebbe dovuto chiamare Zona Cesarini. Dovrà reinventarsi questa scenografia della sua infanzia per riuscire a tirarne fuori tutti la forza del personaggio: “Mi piaceva il suo aspetto, così alto, magro, dinoccolato, una specie di grande Pinocchio. Mi piaceva la sua faccia che nonostante l’apparente calma mal nascondeva un interno rovello. Mi piaceva la sua ironia; mi piacevano le sue risposte un po’ sibilline; l’infinito numero di sigarette che fumava seduto in panchina, pur non essendo io un fumatore. Mi piaceva per le sue idee che mi parevano degne di applicazione anche extra-calcistica. Si gioca per far qualcosa di bello, per dare gioia a chi gioca e a chi guarda”.
E così nasce quella specie di noir calcistico che vede scomparire misteriosamente Vecto Zoran, esule sloveno per l’anagrafe italiana Vito Soragni, nella immaginazione poetica fuoriclasse dell’Alba Roma allenata da William Garbutt sulla fine degli anni ’20 e poi allenatore nei campionati minori, su campi mitologici tra Salaria e Nomentana. “Che cosa sarei senza di lui? Che cosa ero prima di vederlo, quella mattina al Malafronte? Lui entrò in campo, su quel terreno scivoloso toccò il primo pallone, fece la prima finta, e tutto cambiò”: lo dice il sedicenne Ugo, l’alter-ego di Manlio. E in testa, pensando a Zeman, ha quello che lo scrittore penserà sempre:
“Non credo nelle utopie come soluzione, però uno slancio utopistico è necessario”.
D’altra parte lui – come scrive proprio nel romanzo in vita di Z.Z. – “era convinto da un pezzo che certi brani di prosa sportiva, letti di straforo sui giornali, fossero degni di figurare accanto agli esempi più alti della poesia classica raccolti nelle antologie a uso delle scuole”. Pari pari a quelli di Manlio Cancogni. Anche se venuto su in momenti in cui non era così facile fare outing sul pallone: “Appartengo alla generazione in cui non si era certo degli intellettuali stimabili se ci si occupava di calcio” disse in una intervista, ricordando quando Montale nascondeva la Gazzetta sotto i faldoni di poesie. Cancogni amava così tanto i giornali e la prosa dei giornalisti (il prediletto: Bruno Roghi) da dire più volte che le partite di calcio, lui, preferiva leggerle che vederle.
Eppure in carriera aveva osservato anche dal vivo momenti memorabili dello sport italiano, a cominciare da Italia-Cile del Mondiale ’62 che gli costò una querela dal difensore azzurro David per un suo articolo sull’Espresso. Ma pure gli europei di atletica di Stoccolma del ’58, tanto per sottolineare la sua versatilità. Il ciclismo, altra grande passione: Binda, Girardengo, il francese Buysse (colpo di fulmine la visione di una foto mentre passava il Tourmalet nella tempesta), il tifo per Bartali, ma anche l’ammirazione per Coppi, cui dedicherà un epicedio formidabile, ricordandolo in una tappa sull’Appennino (“Vedendo avanzare quella sagoma potente avevo provato una sensazione di vuoto allo stomaco, e come se una mano estranea avesse sospeso le mie facoltà vitali”).
E poi ancora l’avversione per la Juve (nel ’76 sul Corriere pubblicò un pezzo intitolato “Le mie nozze d’odio con la Juve” che gli costò una telefonata di Agnelli, con cui però finirono per diventare amici) e l’amore, invece, per la boxe, il volo e soprattutto per l’ippica che fu il tema di uno dei suoi primi romanzi, pubblicatogli negli anni ’50 da Elio Vittorini nei suoi mitici “Gettoni” per Einaudi: La carriera di Pimlico. Sorprende – ma fino a un certo punto – quale fosse per lui il calciatore italiano più geniale (opinione peraltro condivisa con un altro versiliese poi romano d’adozione come lui, il critico letterario Cesare Garboli): l’ex milanista e bolognese Gino Cappello, protagonista tra le due guerre: “Quando giocava sembrava un paio di forbici, tagliava dentro gli avversari, con le finte li faceva cadere da una parte e dall’altra”.