Calcio
16 Aprile 2024

A Mantova è sorto un profeta del gioco

Come Davide Possanzini ha costruito la promozione in Serie B.

Edmondo Fabbri, Italo Allodi, Dino Zoff, Karl Heinz-Schnellinger, Angelo Sormani e il Brasile di Pelè. Rispettivamente un grande allenatore, un grande dirigente, tre grandi giocatori e una grande squadra, che hanno scritto delle pagine importanti nella storia del calcio tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. I nomi non sono casuali, ma sono intimamente legati ad una piccola squadra di un capoluogo lombardo, che proprio nel corso di quei decenni fu protagonista di un clamoroso salto di categoria con pochi precedenti nella storia del calcio italiano, dai campionati dilettanti alla Serie A in soli quattro anni: il Mantova.

Quella squadra era stata portata nella massima serie proprio dai primi due nomi sopramenzionati, Edmondo Fabbri e Italo Allodi: i due si erano conosciuti sui campi da gioco, quando entrambi militavano nel Parma, e fu proprio l’allenatore romagnolo a volere con sé il dirigente veneto sulla panchina dei “Virgiliani”. Per entrambi era la prima esperienza in assoluto nei rispettivi ruoli. Il risultato, come detto, andò oltre qualsiasi aspettativa.



I due ebbero poi delle carriere totalmente differenti. Allodi all’inizio degli anni Sessanta venne chiamato dall’Inter di Angelo Moratti come direttore sportivo, per tentare di aprire un ciclo vincente: il risultato fu la nascita della Grande Inter, una delle formazioni più forti e vincenti della storia del calcio. Molto meno fortunato fu Fabbri, chiamato (e presto esonerato, dopo il mondiale del ’66) alla guida della Nazionale italiana reduce dal fallimentare mondiale cileno del 62.

Dino Zoff, Schnellinger e Sormani furono, come detto in precedenza, i tre calciatori più noti a militare nella compagine mantovana in Serie A: gli ultimi due fecero poi la fortuna del Milan di Nereo Rocco, che vincerà tutto in Italia e in Europa tra fine anni 60 e inizio anni 70, mentre la carriera del portiere friulano non ha certo bisogno di essere presentata.

In tutto questo cosa c’entra però il Brasile di Pelè? Anche qui la storia è semplice: in quegli anni la Nazionale brasiliana, guidata da O’Rey, era al suo massimo splendore, avendo vinto due Mondiali consecutivi (1958 e 1962), e si faceva ammirare soprattutto per il suo stile di gioco, improntato all’attacco e allo spettacolo. Una filosofia di gioco simile la stava sperimentando appunto il Mantova di Fabbri, naturalmente con le dovute proporzioni. Proprio in virtù del suo gioco propositivo e coinvolgente, i biancorossi lombardi vennero appellati da stampa e addetti ai lavori come “Il Piccolo Brasile”.

La nostra intervista a Dino Zoff

La storia successiva del club non fu però altrettanto gloriosa. Dopo essere retrocessi al termine della stagione 1971-72, il Mantova non riuscirà più ad approdare in massima serie, ma vivacchierà nell’anonimato delle serie minori per più di vent’anni, fino al primo dei tre fallimenti societari, giunto nel 1994.

Dopo circa un decennio i “Virgiliani” riusciranno ad approdare in Serie B nel 2005, salvo poi soccombere ad un altro fallimento cinque anni più tardi, nel 2010. Dopo essere nuovamente risaliti in un anno dalla Serie D alla Lega Pro, l’ennesimo (e ultimo) dissesto societario, avvenuto nel 2017, costringe i biancorossi a ripartire di nuovo dalla D, riconquistando il professionismo solo tre anni più tardi, sotto la guida del nuovo patron Maurizio Setti, già proprietario dell’Hellas Verona.


Il ritorno del “Piccolo Brasile”?


La gestione Setti si rivela però disastrosa dato che, una volta approdato in Serie C, il Mantova ottiene risultati sempre più deludenti, salvandosi solo all’ultima giornata al termine dell’annata 2021-22 e finendo poi per retrocedere in D al termine della scorsa stagione, prima retrocessione “sul campo” tra i dilettanti nella sua storia. Quando la società pare davvero aver toccato uno dei punti più bassi della sua storia, ecco che avviene il miracolo: il Pordenone, che si era salvato sul campo, rinuncia ad iscriversi al campionato di C per problemi finanziari e al suo posto viene fatto risalire di categoria proprio il Mantova.

Per i tifosi biancorossi questa non è neanche la notizia migliore che potevano ricevere visto che, per la loro gioia, il presidente Setti leva le tende e cede tutte le sue quote all’imprenditore veronese Filippo Piccoli, che riesce anche a ripianare parte del debito societario. La risposta degli stessi supporters virgiliani non si fa attendere, e in breve tempo i tifosi del Mantova sottoscrivono più di 4000 abbonamenti, un record che da quelle parti non si registrava da più di un decennio.

La nuova società guidata da Piccoli decide di ripartire da due figure che destano grande curiosità nell’ambiente: sulla scrivania approda Christian Botturi, in qualità di direttore sportivo, reduce da un’ottima annata alla Pro Sesto (quarto posto nel girone A di C, con una squadra dal bassissimo budget che nelle stagioni precedenti si era salvata a fatica), mentre sulla panchina il nome scelto è quello di Davide Possanzini. Quello del 48enne marchigiano è un nome per certi versi sorprendente, considerata la poca esperienza in panchina come capo-allenatore, e rappresenta in tutto e per tutto una scommessa da parte del patron Piccoli.

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Passione ritrovata, qui in trasferta all’Euganeo di Padova (foto Mantova24, che ringraziamo per tutte le altre foto presenti nell’articolo)

Da calciatore Possanzini è stato il più classico dei bomber di provincia, con una carriera spesa principalmente tra Serie B e Serie C con qualche piccola comparsata in A. Da allenatore, il suo destino sembra poter essere quello dei grandissimi. Tornato nella sua amata Brescia nel 2013 come allenatore delle formazioni giovanili (Allievi Nazionali e Primavera), abbandona l’incarico in seguito alla chiamata dell’amico De Zerbi (i due si conobbero quando militavano entrambi al Brescia), che lo vuole come suo vice-allenatore al Foggia (2016).

Da lì in avanti Possanzini seguirà De Zerbi in qualità di “secondo” in ognuna delle sue esperienze in panchina (Palermo, Benevento, Sassuolo e Shakhtar Donetsk in Ucraina), fino a quando nel 2022 deciderà di separarsene, per tornare ad allenare la primavera del Brescia una seconda volta.

Possanzini ha comunque modo di fare la sua prima esperienza da capo-allenatore di una prima squadra: nel febbraio del 2023, infatti, viene chiamato dal Presidente del Brescia Massimo Cellino sulla panchina delle Rondinelle per tentare di salvare una squadra che sta colando a picco (in quel momento 16esima in classifica, in zona playout).



Le cose per lui non andranno affatto bene, visto che il tecnico marchigiano ha modo di disputare alla guida della prima squadra solo due partite, contro il Modena e il Benevento, entrambe terminate con una sconfitta per 1 a 0, che faranno precipitare la formazione bresciana al penultimo posto. Cellino lo esonera immediatamente dopo la sconfitta contro i campani, dopo una sfuriata negli spogliatoi contro i giocatori e lo stesso tecnico. Il patron del Brescia se la sarebbe presa in particolare con il tipo di gioco dello stesso Possanzini, accusandolo di “voler imitare De Zerbi con la costruzione dal basso, quando a questa squadra servivano i lanci lunghi per salvarsi”.

Dopo questa infelice e dolorosa parentesi, Possanzini torna ad allenare la Primavera delle Rondinelle, fino a quando in estate non riceve la chiamata del Presidente del Mantova Piccoli, che lo nomina, come detto, nuovo allenatore della prima squadra. Quella del patron dei virgiliani è una scommessa forte non solo per la poca esperienza del tecnico marchigiano, ma anche per le condizioni in cui lo stesso club mantovano si trova ad operare.

La formazione dei biancorossi era stata programmata per ripartire da zero dai dilettanti, con una rosa completamente rivoluzionata. Soltanto tre giocatori della precedente stagione erano rimasti in squadra, mentre tutti gli altri erano stati ceduti. Morale della favola: saranno addirittura 24 (sic!) i nuovi acquisti effettuati dal ds Botturi, quasi tutti a parametro zero.

Ho accettato l’incarico senza conoscere la categoria, non mi interessava. Mi è piaciuto poter scegliere giocatori con le caratteristiche che volevo, così è nato un gruppo nuovo e ripulito, con soli tre confermati“.

Davide Possanzini a La Gazzetta dello Sport

Il tecnico marchigiano si trova così in mano una squadra profondamente rinnovata nell’organico, reduce da un’annata fallimentare e da assemblare nei principi di gioco in un paio di mesi: l’obiettivo societario è quello di raggiungere la salvezza. Eppure fin dall’inizio della nuova stagione, l’aria sembra differente. Dopo aver pareggiato al debutto contro il Padova, i virgiliani ottengono infatti quattro vittorie consecutive, mostrando sin da subito dei principi di gioco molto moderni e convincenti: costruzione dal basso, possesso palla per tentare di dominare il gioco, circolazione veloce della palla a due tocchi e mentalità offensiva costante, orientata sempre alla ricerca del gol.

Dopo l’ottimo inizio arrivano però due sconfitte consecutive, una in campionato, con un 4 a 1 senza appello contro la Triestina, e l’altra in Coppa Italia, contro la Pro Patria per 1 a 0. Principio di crisi?

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Un pubblico sempre presente (foto Mantova24)

Tutt’altro, perché il Mantova e Possanzini sorprendono ancora una volta tutti gli addetti ai lavori e, come se nulla fosse accaduto, riprendono la loro marcia trionfale da dove l’avevano lasciata, riuscendo a realizzare la bellezza di 17 risultati utili consecutivi, caratterizzati da ben 15 vittorie e 2 pareggi. Un percorso semplicemente incredibile, che porta i biancorossi lombardi in testa alla classifica del Girone A di C, riuscendo non solo a salvarsi con largo anticipo, ma a puntare seriamente alla promozione in B vincendo il campionato.

Dopo la sconfitta contro l’Albinoleffe alla 24esima, il Mantova ottiene altri 10 risultati utili consecutivi (6 vittorie e 4 pareggi), e oggi può festeggiare il suo ritorno in Serie B a 14 anni di distanza dall’ultima volta.

Parlare di “miracolo sportivo” può risultare eccessivo, ma sta di fatto che quello realizzato da Possanzini con il Mantova è comunque un qualcosa di clamoroso, se si pensa alle difficili condizioni in cui versava la società lombarda prima dell’inizio della stagione. Una squadra che doveva solo cercare di non retrocedere, e che invece si è trovata a dominare il suo girone riuscendo ad unire qualità (il gioco brillante espresso) e i risultati (la promozione ottenuta). E non è forse esagerato affermare che a qualche tifoso mantovano di vecchissima data questa formazione possa aver ricordato, nello stile di gioco offensivo e spettacolare, proprio quel “Piccolo Brasile” che negli anni 60 aveva saputo incantare la Serie A.


Il Mantova di Possanzini: non di solo calcio vive l’uomo


Per via del tipo di gioco espresso, la gavetta effettuata prima di arrivare ad imporsi e i risultati eccelsi ottenuti, Possanzini è stato subito paragonato da addetti ai lavori e non a due tecnici che ne condividono il cursus honorum: De Zerbi, come detto, e Maurizio Sarri.

Sentendo le parole del diretto interessato ci si accorge subito che il suo modo di vedere – e fare – calcio sia intimamente connesso al periodo dell’infanzia. “Nella strada di periferia dove andavamo a giocare c’era un campetto d’erba con gli scivoli. Di solito stavamo lì. Ma quando c’erano le mamme con i bambini, ci spostavamo ai garage del condominio. Ricordo che lì sopra c’era un balcone. Ogni volta che tiravamo la palla alta finiva la partita perché la signora ce la tagliava. Così un giorno abbiamo deciso di giocare solo palla a terra, ed è da lì che è nata la mia idea di calcio”.

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Foto Mantova24

Ovviamente questi ricordi d’infanzia sono stati fondamentali non solo per il Possanzini allenatore ma inizialmente anche per il Possanzini calciatore, che infatti non giocava come il classico centravanti d’area di rigore, pronto a fare a sportellate e a difendere il pallone dalla marcatura del difensore avversario, ma anzi era più una seconda punta che amava svariare su tutto il fronte offensivo.

Una caratteristica che oggi il Possanzini allenatore chiede ai suoi calciatori, con la palla che “deve arrivare pulita davanti, solo così un giocatore mi può far vedere le sue qualità”.

Ed è stato proprio il percorso di studio per fare l’allenatore che lo ha portato a trovare le migliori soluzioni perché ciò avvenisse, trovando poi proprio in Guardiola e in De Zerbi delle visioni in comune: “Dopo aver chiuso la carriera da giocatore ho iniziato a studiare per capire quale movimento potesse essere migliore per smarcarsi o per fare una certa giocata, così guardavo tante partite e tanti allenatori. In quel momento storico lì c’era il Barcellona di Guardiola e cercavo di capire il meccanismo che c’era dietro. Subito dopo aver smesso di giocare ho fatto l’allenatore degli allievi e ho fatto il corso con De Zerbi. Abbiamo iniziato a parlare, ad avere dei punti in comune (…). Lui poi è andato a Foggia, qualche anno dopo, e quando io ho chiuso con le giovanili a Brescia mi ha chiesto se volevo raggiungerlo per fargli da secondo. Con lui ho fatto sette anni, quindi ci sono diverse cose simili.”



Un’idea di gioco che lo stesso Possanzini difende a spada tratta, rifiutando però di essere definito come un “esteta fine a sé stesso”, anche perché il suo gioco oltre ad essere bello da vedere, come detto in precedenza, è anche maledettamente concreto: “Il genere umano tende a catalogare le cose e alcuni pensano che questo sia uno strumento che alcuni allenatori utilizzano solo per essere definiti esteti o perché gli piace farsi vedere. Io muovo la palla dietro perché se mi vieni a prendere si crea tanto di quello spazio che vado a fare gol subito: non lo faccio perché voglio uscire palla al piede perché l’obiettivo è sempre lo stesso, ovvero fare gol. Se c’è da calciare lungo si va anche lungo, non ci sono problemi, ma l’idea è che io devo svuotare per poter andare in quello spazio occupato.”

E a proposito dell’annoso dibattito tra giochisti e risultatisti, aggiunge: “Per me è una roba che non esiste, perché ognuno gioca a modo suo. Io cerco solo uno strumento diverso per vincere e non mi fermo a quello che già si sa. C’è gente che non si vuole aprire e conoscere nuove cose, mentre se sei curioso poi puoi scegliere quello che vuoi fare. Io non contesto chi vuole giocare con la squadra tutta dietro o ha altre idee, non mi permetterò mai di dire che fa anticalcio o robe simili”.



Il Mantova di Possanzini, al di là delle filosofie di gioco che ognuno ritiene più o meno valide, ha comunque convinto tutti, visti i numeri strepitosi ottenuti, e i numeri non mentono mai. Non ha soltanto (come prevedibile) il miglior attacco del campionato con 67 gol fatti in 35 partite, ma anche la miglior difesa, con soli 24 gol subiti (erano 22 in 34 match prima della matematica promozione): insomma guai a dipingere l’allenatore del Mantova come un dogmatico.

I biancorossi lombardi hanno inoltre dimostrato di essere una grande cooperativa del gol, con ben 18 differenti calciatori mandati in rete, calciatori che in campo si muovono in maniera fluida e continua, quasi come nel Calcio Totale olandese, attaccando e difendendo insieme, in massa.

Possanzini, nelle sue dichiarazioni, si è ovviamente soffermato anche sul rapporto umano tra allenatore e giocatore: “Una volta i calciatori erano più esecutori che interpreti, perché era il calcio che lo imponeva, ma adesso c’è una continua evoluzione. Io non impongo, non voglio esecutori, ma te le voglio spiegare le cose e ti voglio dare degli strumenti, delle informazioni. Poi il calciatore le usa come vuole e tutto dipende comunque da loro.”

Sono i calciatori quelli che concretizzano e mettono in campo le idee dell’allenatore, per questo instaurare dei rapporti umani convincenti e saper gestire uno spogliatoio è fondamentale, come spiega lo stesso Possanzini: “Io sono perdutamente innamorato dei miei giocatori perché alla fine sono loro che concretizzano l’idea che hai in mente. Non è solo l’idea che esalta la qualità ma la qualità che esalta l’idea (…). Mi hanno dato la loro disponibilità e di questo li ringrazierò sempre perché non ho fatto nulla per meritare la credibilità che mi hanno dato. Loro mi hanno dato tanto sia a livello umano che a livello tattico. Lo stesso ho fatto io con loro, e per me è stato un mix importante. Credo che questo sia un tesoro inestimabile, al di là del risultato.”

Parlando proprio della capacità di relazionarsi con i calciatori, Possanzini si mostra in disaccordo con i metodi “rigidi” di Luciano Spalletti, che ha vietato l’utilizzo della Playstation nel ritiro della Nazionale: “Se l’ha fatto aveva i suoi validi motivi. Ma i tempi sono cambiati, bisogna trovare equilibrio, anche noi tecnici dobbiamo adeguarci”. Anche se comunque lui ai videogiochi ha sempre preferito i libri, e non certo letture banali: “Mi è sempre piaciuta la Filosofia Zen e l’umanesimo. Credo nelle persone, credo ai vivi e non ai morti, come ho paura dei vivi e non dei morti”. Una frase che suona come una profezia.

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