Non l'abbiamo fatto vivere, e neanche morire, in pace.
Con la propria morte Maradona ha, se possibile, superato l’ultimo ostacolo che lo separava dalla dimensione divina. Con essa il suo mito ha ripreso lo stesso vigore dei giorni migliori, se non di più: Buenos Aires e Napoli, Medina e Mecca del culto. La processione infinita, noncurante persino di una pandemia mondiale, e gli innumerevoli tributi nella Capitale; l’altare ai Quartieri Spagnoli, il battesimo del San Paolo nella seconda casa di Diego. Comprensibili manifestazione di affetto e dolore per l’icona.
Ma si sa, il confine tra idolatria e ossessione è piuttosto labile. Sfortunatamente, lo sviluppo mediatico delle vicende relative al Pibe sembra averlo varcato da un pezzo.
La stampa argentina, con cadenza quasi quotidiana, riporta aggiornamenti relativi alle circostanze della morte del Diez. Spuntano fuori con insistenza gli sfoghi delle figlie, accuse da parte della famiglia, della stampa, dell’opinione pubblica ora allo staff medico curante, ora all’entourage di Diego. Filtrano messaggi, note vocali, frammenti di privacy, qualsiasi cosa assicuri un tassello a una trama che – lungi dal risolversi – aggiunge un denso strato d’odio alla tragica morte di Maradona.
Un atteggiamento superficiale e speculativo che si muove nella disgrazia con la stessa leggerezza con cui lancia le bombe di Fantamercato. E a dire il vero non stupisce nemmeno troppo, ma un po’ ci inorridisce: questo sì. Abbiamo in passato sulle nostre pagine condannato la ‘bestiale’ spettacolarizzazione del dolore in vita, ma non credevamo di dover assistere anche a quella post mortem.
E se in fondo le notizie legate al suo decesso potrebbero giustificare quantomeno un giornalismo di inchiesta poco deontologico, è il Maradona specchietto mediatico che a tratti sfiora il macabro. Basta entrare nel sito web del più diffuso quotidiano sportivo argentino, Olé, per trovare in evidenza la sezione ‘Maradona’: qui, alla rinfusa, si alternano l’antologia dell’inutilità e la cronaca, passando dalla quantificazione del valore della Porsche posseduta da Diego a Siviglia alla ricostruzione dei suoi ultimi istanti di vita.
Pur di continuare ad accumulare click allora non ci si aggrappa al Diego calciatore o anche personaggio, che anzi merita di essere raccontato, glorificato e tramandato di generazione in generazione, come nelle migliori tradizionali orali antiche che immortalavano il mito; al contrario si fa appello alle dinamiche della morte, quasi in una telenovela horror, e a tutta la paccottiglia che ha circondato la sua esistenza.
Non si faccia però l’errore di pensare che sia una vicenda esclusivamente sub-equatoriale, con il classico distacco altero con cui noi europei abbiamo sempre guardato al mondo latino.
Anzi, stupisce la prontezza con cui tali notizie vengono riproposte alle nostre latitudini: i titoloni da clickbaiting anche qui sono urlati senza sdegno perché Maradona vende, e tutto ciò che vende si giustifica di persé. Ma pensiamo anche alla stessa maglia di Kappa a strisce azzurre e bianche, edizione speciale creata dal Napoli per ricordare Diego, che non a caso è l’unico capo non scontato nei saldi di fine stagione nello store online della squadra partenopea.
Il problema comunque è che Diego sta diventando un escamotage giornalistico, un nome di sicuro successo per un sistema mediatico che ha bisogno di icone (non importa se positive o negative) su cui ricamare: negli Stati Uniti, passando dal sacro del 10 argentino al profano della politica a stelle e strisce, senza più Trump gli ascolti e le visite dei principali media sono crollati a livelli inimmaginabili. L’impressione è che per Maradona, purtroppo, sia un po’ la stessa cosa: “se non parliamo di lui perdiamo ascolti”, parafrasando le parole del presidente della CNN Jeff Zucker.
Il mondo si è giustamente indignato per il selfie scattato dall’impresario funebre con la salma di Maradona, ma non ci vergogniamo a strumentalizzare la morte di un uomo per accumulare click con meccanismi che sfiorano il macabro: quasi a ricordare che, se il proverbiale carro dei vincitori è preso d’assalto, anche quello funebre non scherza affatto. Naturalmente, le circostanze della morte di Diego saranno approfondite e la giustizia seguirà il suo corso. Eppure questo atteggiamento, che oscilla tra la perseverante ricerca di un colpevole e l’ostentazione del ricordo del Diez, sembra essere proiezione del nostro senso di colpa.
Abbiamo costretto un uomo a sopportare un calvario. Il Maestro Galeano in El futbol a sol y sombra già nel 1995 tratteggiava con la solita, ineguagliabile lucidità:
“Non aveva impiegato molto a rendersi conto che era insopportabile la responsabilità di lavorare da Dio negli stadi, ma sin da principio capì che era impossibile smettere di farlo «Ho bisogno che abbiano bisogno di me», confessò quando già aveva perso l’aureola sulla testa, sottomesso alla tirannia del rendimento sovrumano, imbottito di cortisone, analgesici e ovazioni, incalzato dalle esigenze dei suoi devoti e dall’odio di coloro che offendeva.”
Sembra che trovare un colpevole a questa vicenda ci liberi da questo fardello, o almeno ci redima. Non abbiamo ancora capito la lezione più importante che ci ha consegnato la morte di Diego. Non l’abbiamo lasciato vivere in pace, lasciamolo almeno riposare in pace.
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