Altri Sport
19 Aprile 2021

Maria Sharapova e lo spirito di gravità

La tennista russa è stata una grande promessa dello sport mondiale, mantenuta solo a metà.

3 Luglio 2004. Wimbledon, Regno Unito. Sul prato verde del campo centrale il pubblico assiste in un religioso silenzio ai palleggi di riscaldamento tra le due finaliste della centodiciottesima edizione. Ogni colpo alla palla rimbomba nello stadio, rendendo assordante la quiete che circonda le due tenniste. Da un lato gli occhi del pubblico in attesa si posano sui rapidi e potenti movimenti di Serena Williams, arrivata in finale in uno dei momenti fino a quel momento migliori della carriera e considerata da tutti favoritissima, dall’altro accarezzano la giovane numero 23 del mondo, Maria Sharapova, non ancora maggiorenne e sconosciuta ai più.

Posizione frontale, gambe leggermente divaricate, piedi affondati nel manto erboso dell’Olimpo del tennis. Maria si dilunga nel suo classico rituale al servizio. Ripensa a quante volte ha fatto quel gesto, a come sia diventato un meccanismo, esterno a sé: alienato, affinato e reso perfetto con la pratica. Due rimbalzi alla pallina e, appena prima che essa si liberi dalla mano, uno sguardo all’avversaria. All’unisono, la sfera gialla si alza dalla mano e il piede destro si unisce al sinistro. Il braccio nasconde la racchetta dietro la schiena e, dopo l’impatto, tutto il corpo viene trascinato in campo.

Una foto del primo torneo di Wimbledon in assoluto per Sharapova, nel giugno 2003. Foto di Bongarts/Getty Images
Una foto del primo torneo di Wimbledon in assoluto per Sharapova, nel giugno 2003. (Foto Bongarts/Getty Images)

Prima in campo, forte. Serena oppone d’istinto la racchetta, ma la palla termina un paio di metri oltre la linea di fondocampo. Quindici zero. Il primo game della finale vola via. Maria al servizio è una macchina. Secondo servizio al corpo, trenta a zero. Terzo servizio al corpo, stesso risultato. Williams avrebbe anche la possibilità di rientrare nel game, ma la Sharapova, dopo due errori non forzati, chiude i giochi con il quarto servizio al corpo. Nello sguardo torvo e preoccupato con cui Serena fa il giro del campo si legge tutta la sorpresa della tennista americana.

Il primo game di ogni set non è più importante di altri, ma i tennisti sanno bene il vantaggio psicologico che comporta. Maria, mentre si mette in posizione, ricapitola in testa la strategia preparata con il padre Yuri. L’unico scontro precedente con la Williams (6-4 6-3 a favore dell’americana) ha dimostrato come la russa non possa reggere l’avversaria in uno scambio prolungato. È cosciente che, se tentasse di fare a modo suo, Serena la liquiderebbe in un’ora. Tutte le possibilità di un successo risiedono nel precisissimo piano tattico: cercare le linee, sfruttare la velocità del campo per cercare di accorciare gli scambi il più possibile.

È una follia, ma funziona.

Sharapova scivola da un lato all’altro del campo con la stessa grazia con cui lo farebbe su una passerella di moda, resistendo alle continue sferzate di Williams ed estraendo dal cappello, proprio nel momento in cui sembrava aver perso il punto, un vincente strabiliante. Serena è basita. Per buona parte del set sembra cercare una scossa, un modo per riprendersi, ma più ci prova più ogni colpo diventa contratto, ogni azzardo un pentimento. Il tabellone in un attimo recita sei a uno. Non basta l’orgoglio della Williams che nel secondo set riesce a portarsi sul 4 a 2 prima di perdere quattro giochi di fila e la finale. Una nuova dea del tennis mondiale stava sorgendo.


Semina – 131


 

Viviamo in un arco temporale prezioso quanto instabile. In questo momento, la carriera della Sharapova è perfettamente divisibile in due sorta di macroaree temporali, ognuna di tredici anni, che costituiscono i due grandi motivi tematici della storia della tennista russa: la semina, ovvero l’incessante e accurato lavoro di preparazione al trionfo culminati con l’arrivo a Wimbledon da semi-sconosciuta e la vittoria, e poi la raccolta, ovvero quel momento in cui tutti gli sforzi e i sacrifici sarebbero dovuti venire al pettine.

Non è raro che dietro un atleta professionista si celi la figura del padre. Sono i genitori i primi a credere nelle potenzialità dei figli, a trasportarli in macchina per lunghe trasferte, ma Igor Sharapov non è stato, per Maria, solo un supporto o un tassista, ma il grande artefice del suo successo.

Nata il 19 aprile 1987 in una cittadina degli Urali siberiani, Njagan, Maria dimostra quasi subito un autentico talento per il tennis. Ha da poco compiuto quattro anni, quando le viene messa in mano la prima racchetta e comincia ad allenarsi, passando la maggior parte delle ore di luce di ogni giorno a provare diritti e rovesci. Nel frattempo, Igor ha già notato il talento cristallino della figlia ed è perennemente alla ricerca di stage o prove in cui la figlia possa essere notata da qualche maestro o qualche tennista.

Ci vogliono due anni di tentativi, prima che la Sharapova venga notata dall’ex tennista Martina Navratilova che consiglia il padre di portare la figlia negli Stati Uniti e di iscriverla all’IMG Academy di Nick Bollettieri, la stessa dove erano cresciuti André Agassi e Monica Seles. I coniugi Sharapov, che evidentemente hanno già puntato tutte le proprie carte sullo splendido futuro della figlia, non tentennano. In un attimo richiedono un prestito e avviano le pratiche per trasferire Maria e il padre negli Stati Uniti. Un anno dopo, quando atterrano, sul conto sono rimasti solo 700 dollari.

La nuova realtà non si dimostra accogliente. L’IMG Academy si rifiuta di finanziare gli allenamenti di Maria che, mentre il padre fa il lavapiatti per mantenere entrambi, prende lezioni da Rick Macci prima che nel ’97 la giovane russa venga finalmente accettata dall’accademia. È proprio il primo maestro a svelarci un particolare interessante sulla crescita tennistica della Sharapova. Il padre, preoccupato per la mancanza di efficacia di un rovescio ancora troppo brutto e meccanico rispetto al diritto, incoraggiò, per il periodo precedente al definitivo ingresso all’IMG Academy, l’allenatore a far diventare Maria una giocatrice mancina.

Una giovane Maria in azione il 21 giugno 2004 all'All England Lawn Tennis and Croquet Club di Londra, il vero nome di Wimbledon. Foto di Clive Brunskill/Getty Images
Una giovane Maria in azione il 21 giugno 2004 all’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Londra, il vero nome di Wimbledon. (Clive Brunskill/Getty Images)

Nell’epica sharapoviana che stiamo costruendo, gli anni successivi all’ingresso in accademia ricalcano perfettamente il topos letterario del cammino dell’eroe verso la consacrazione. A soli tredici anni – dopo il ritorno all’uso della mano dominante – esordisce nel suo primo torneo juniores, l’Eddie Herr International Junior Tennis Championship, dove, oltre al trofeo di prima classificata, le viene consegnato il Rising Star Award, destinato alla giocatrice più promettente. Le abilità per competere con “le più grandi” già ci sarebbero, ma la sua giovane età le impone la partecipazione a un numero limitato di tornei maggiori.

Nondimeno, la crescita di Maria continua incessantemente e, ogni volta che scende sul rettangolo di gioco, sempre più persone sembrano notare le potenzialità di questa giovane e bellissima russa. Il cammino dell’eroe verso la consacrazione non è mai semplice, ma sempre accidentato, lastricato di ostacoli e occasioni di perdersi. Allo stesso modo, Maria non può sottrarsi alla “gavetta” e nel primo anno da professionista le batoste sono tante e diverse.

Eppure, in uno sport in cui il talento è allo stesso tempo fondamentale e insufficiente alla formazione di un atleta solido, sono proprio quelle sconfitte a preparare la futura ascesa.

La “ragazzina del circuito” si qualifica all’Australian Open, ma esce al primo turno contro la Klará Koukalová. Lo stesso destino le è riservato a Indian Wells, Miami e Charleston e le – forse inaspettate – difficoltà impongono a Maria di tornare a misurarsi con i tornei giovanili. Ma la russa è ormai semplicemente troppo per le coetanee e trova, al primo torneo a cui partecipa (Sea Island), un’immediata vittoria che la ricatapulta insieme alle grandi, questa volta definitivamente.

Sharapova futurista. di Adam Pretty/Bongarts/Getty Images
Sharapova e Futurismo. (Adam Pretty/Bongarts/Getty Images)

Intermezzo


Se fossimo in un romanzo, Wimbledon sarebbe una tappa fondamentale nei piani dell’autore. Un evento marchiato con il pennarello rosso nella linea temporale, quello su cui si impernia la struttura della storia. Ottenuta la wild card per il tabellone principale dell’edizione 2003, Maria inanella una serie di convincenti vittorie e, prima di arrendersi al quarto turno, si prende anche la soddisfazione di eliminare la numero dodici del mondo, Jelena Dockic.

Le ottime prestazione le valgono l’ingresso nella top 50 del circuito e, nei mesi successivi, Maria si aggiudica i primi due titoli WTA in carriera in Giappone e Canada. Annaspare è utile, perché insegna a risalire a galla e a restare in superficie. Dopo un anno di gavetta, Maria è pronta a incontrare la storia, ancora su quel prato verde, a Wimbledon, il luogo migliore per diventare immortali.


Raccolta – 130


Il tredicennio iniziale di carriera l’aveva portata dalla prima racchetta al più grande trionfo tennistico. Nelle settimane successive a Wimbledon, sembrava che l’intero mondo che gira intorno alla pallina gialla fosse pronto a inchinarsi di fronte a una nuova dominatrice totale che sui palmi portava le stigmate della predestinata. Oggi Maria ha trentaquattro anni, e si è ritirata da oltre un anno con una bacheca ricolma di prestigiosi trofei: tra le 35 vittorie WTA ha ottenuto il Career Grand Slam, cioè vincere tutti i tornei dello Slam una volta in carriera (due volte il Roland Garros) e ha vinto l’argento olimpico a Londra 2012, diventando nel frattempo l’atleta donna più pagata del mondo.

Eppure la sensazione è che la raccolta non sia stata abbondante quanto avrebbe potuto essere, almeno rispetto alla semina, al grado immenso del suo talento. Ora infatti che il romanzo è giunto alla fine, le illusioni sono svanite e l’amaro in bocca si espande. Chi avrebbe creduto quel 3 luglio 2004 che la Sharapova, la quale sembrava pronta a prendersi il potere per almeno un ventennio, sarebbe arrivata a detenere il primato mondiale unicamente in cinque occasioni e per un tempo complessivo di solo ventuno settimane?

Maria nel suo habitat naturale: posa per i fotografi con il primo trofeo del Roland Garros tra le mani. Foto di Clive Brunskill/Getty Images
Maria nel suo habitat naturale: in posa per i fotografi con il primo trofeo del Roland Garros tra le mani. (Clive Brunskill/Getty Images)

In una piccola – ma meravigliosa – raccolta di scritti sul Tennis di John McPhee, si trova scritto che «nel tennis i meccanismi motori traducono la storia personale e il carattere in colpi e caratteristiche di gioco». Guardando oggi quella finale del 2004, si nota una certa differenza tra una giocatrice nervosa, contratta in ogni movimento, e una giovane che, con ogni suo colpo alla pallina, sembra comunicare spensieratezza e tranquillità.

A impressionare – e convincere tutti che sarebbe diventata la numero uno assoluta – non era la precisione dei suoi rovesci, il servizio puntuale o la disumana capacità di trovare linee impossibili, ma il suo temperamento. Maria era una giocatrice spaventosa perché emanava un’aura di imperturbabilità assoluta.

Il servizio è diventato il risultato di un rituale quasi magico. Foto di Cameron Spencer/Getty Images
Il servizio come risultato di un rituale quasi magico – e che non a caso si è inceppato in tante, troppe occasioni. (Cameron Spencer/Getty Images)

Ma in meno di un anno quel “distacco regale” scomparve. Forse fu proprio l’inatteso trionfo a Wimbledon a trasformarsi in un peso troppo grande da reggere, forse l’improvvisa luce dei riflettori, le sfilate, l’attenzione dedicata alle caramelle Sugarpova, forse il trattamento da diva, più che d’atleta, riservatole dalla maggior parte dei media. O forse la consapevolezza di essere mal sopportata dalle altre tenniste del circuito per il volume soverchiante delle sue grida ad ogni colpo, oltre che per la causa di tutta quella sovraesposizione, ovvero la sua irradiante bellezza.

Quello di cui siamo certi è che in campo, insieme a Maria, da quel giorno in poi scesero troppe distrazioni che non avrebbero mai dovuto fare il loro ingresso sul terreno di gioco. Un ingranaggio minuscolo era saltato e in campo l’imperscrutabile leggerezza degli esordi aveva lasciato il posto a una sofferenza ansiosa, turbata, che emergeva sul volto corrugato e preoccupato con cui scendeva in campo.

Il servizio devastante con cui aveva schiacciato la Williams a Wimbledon si era inceppato, così come i suoi fondamentali. Il talento resisteva, ma da solo non bastava. Una testimonianza simbolica di questa rottura interiore è il confronto con Serena Williams. Dopo la vittoria a Wimbledon, e un’altra a stretto giro di posta, Maria ha sempre perso per un risultato finale di 20-3 (l’unica altra vittoria è maturata per ritiro dell’avversaria).

Sharapova inaugura la nuova linea di cioccolata del suo marchio di dolciumi. Foto di Andreas Rentz/Getty Images
Sharapova inaugura la nuova linea di cioccolata del suo marchio di dolciumi. (Andreas Rentz/Getty Images)

Il 26 gennaio 2016, durante un test di routine, Maria Sharapova, ormai ventinovenne, risulta positiva a una sostanza vietata (da ben 25 giorni), il meldonium. L’8 giugno successivo, l’ITF pronuncia una sentenza dal sapore di triste e amaro epilogo: la tennista russa viene squalificata per due anni (sanzione poi abbassata a 15 mesi). L’annuncio sottolinea che la pena non è dovuta all’assunzione del farmaco proibito, ma al tentativo della tennista di nasconderne l’uso alle autorità.

Così Maria si è ritrovata, forse per la prima volta da quel giorno del luglio 2004, sola, quasi abbandonata. Tuttavia, proprio nel momento di maggior difficoltà, mentre i giornali di tutto il globo si interrogavano sul suo oscuro destino dandola già per spacciata e i principali sponsor risolvevano unilateralmente il contratto con la tennista, Sharapova ha trovato nuove motivazioni: ha continuato ad allenarsi per mantenere la forma necessaria al futuro ritorno in campo, si è iscritta al Business Executive Program ad Harvard e, soprattutto ha trovato il tempo per riflettere finalmente sulla propria vita e sulla propria carriera.

Un fermo-immagine del documentario uscito a inizio 2017 su di lei, "The Point"
Un fermo-immagine del documentario uscito a inizio 2017 su di lei, “The Point”

Da quelle riflessioni – nonostante l’avvicinarsi dell’agognato ritorno sul terreno di gioco, è emersa un’autobiografia dal titolo Unstoppable: my life so far, un libro nato forse per un sincero tentativo di trovare un senso al proprio vissuto, forse generato dall’amara, dolorosa e rassegnata consapevolezza di essersi lasciata gli anni migliori alle spalle, e di aver già raccolto quanto poteva. In diversi passaggi del libro, Maria parla della sua rivalità con Serena Williams:

“La gente spesso si chiede perché io abbia così tanta difficoltà a battere Serena; lei mi ha dominato negli ultimi dieci anni, mi ha battuto 19 volte su 21. Spesso si parla della sua forza, il suo servizio, la sua testa, di quanto il suo gioco si adatti al mio e, sicuramente, c’è molto di tutto ciò; ma per me, la vera risposta era lì, in quello spogliatoio dove io mi stavo cambiando e lei si stava disperando.

Penso che Serena mi abbia odiato per essere stata la ragazza magrolina che l’ha battuta, contro ogni pronostico, a Wimbledon”.

Se questo è il sincero risultato di una riflessione sulla propria vita, la risposta che cercavamo è tutta qui. In queste parole scorgiamo la sofferenza di una giocatrice pronta a rivangare un successo vecchio di tredici anni, nell’estremo tentativo di dimostrarsi superiore a una tennista che – al suo contrario – è riuscita a ingoiare quell’enorme mostro interiore fatto di ansie e paure, in campo e fuori, diventando l’indiscussa donna da battere.

Una recente immagine uscita come copertina del New York Times Magazine
Una recente immagine uscita come copertina del New York Times Magazine

La chiave di Maria Sharapova è in questo complesso di inferiorità. È nella matura e dolorosa consapevolezza di essersi fatta sedurre dalle ammalianti lusinghe del mondo esterno, sacrificando – su una china di direzione totalmente contraria all’eterna rivale – la concentrazione e l’abnegazione che l’avevano portata sul tetto del mondo a solo 17 anni, e perdendo quella leggerezza nel giocare che aveva fatto innamorare tutti. Il ritorno in campo non ha regalato gioie da romanzetto digeribile, anzi, Maria Sharapova ha dovuto scontrarsi con la nuova consapevolezza di essere invisa non più solo alle rivali, ma – per la prima volta – anche a una parte del pubblico.

Da allora, malgrado impegno e volontà, non abbiamo più ammirato la Sharapova a cui eravamo abituati. Dal 2017 al 2020 è stato un saliscendi di risultati più o meno buoni, di parziali scalate alla classifica WTA e prestazioni altalenanti. Tutto ciò fino al ritiro, annunciato a 32 anni, tramite interviste rilasciate a Vanity Fair e Vogue. La causa? Il fisico, che non reggeva più e soprattutto non “recuperava” più. Per questo motivo, solo una volta smesso con il tennis, ha potuto sciogliersi e confessare in una diretta con Novak Djokovic:

“Sono stata troppo testarda negli ultimi due anni con il mio fisico. Ho faticato molto perché continuavo a pensare che sarei riuscita a superare questo ostacolo. È stato in qualche modo un sospiro di sollievo non dover più lottare contro il mio corpo”.

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