Una carriera tra aspettative e ricerca di se stesso.
Descrivere le distanze tra due luoghi nello spazio non è solo una questione di metri e misurazione. C’è tanto altro, ma non si tratta di fisica quantistica. Tra Rio de Janeiro e Zwolle, tra il Maracanà e il Mac³Park Stadion intercorre una distanza di migliaia di chilometri, ma la distanza più evidente è quella calcistica: da un lato il tempio del futebol, dall’altro un anonimo stadio nella provincia olandese il cui nome sembra quasi la caricatura di un computer.
Ma se è vero che il calcio è un frangente della vita in cui le dimensioni convenzionali non comandano, c’è anche un altro punto di vista da tenere in considerazione. A sei anni di distanza dalla svolta improvvisa del suo percorso calcistico, Mario Götze si ritrova non solo a dover ricostruire una carriera che da allora ha subito una curva imprevedibile, ma anche a voler ritrovare sé stesso. Il 19 ottobre infatti, quando mette piede sul terreno di gioco per la prima volta con una squadra non tedesca nella sua carriera, il PSV Eindhoven, ha inizio per lui un nuovo capitolo.
In questo momento Götze non vuole scappare dal calcio, ma semplicemente ritagliarsi un suo spazio, cosa a cui ha rinunciato per troppo tempo. La prima uscita è positiva: il talento tedesco gioca esterno destro del 4-4-2 di Roger Schmidt solo sulla carta, in realtà si muove in tutto il campo offrendo ai suoi compagni una linea di passaggio in più, uno scarico sicuro, per poi ripulire il pallone e cercare una soluzione verticale. Arriva anche il gol, dopo pochissimi minuti: un difensore del PEC sbaglia il retropassaggio, lui si inserisce in area, salta il portiere e deposita in rete.
Una dinamica per alcuni versi simile al gol che l’ha portato alle cronache mondiali, quello che ha consegnato la Coppa del Mondo alla Germania. Il suo umore è totalmente diverso da allora, è maturato passando attraverso momenti negativi. Può sorprendere pensare che tra i due il momento migliore è quello con la maglia nera della squadra di Eindhoven, o quantomeno quello più sereno, meno travagliato.
Ma torniamo un attimo indietro, 14 luglio 2014. Dopo la vittoria del Mondiale, Götze è una centrifuga di emozioni. Ha passato un mese buio, in cui non è mai riuscito a convincere del tutto il ct Löw. Tante panchine, un gol contro il Ghana nei gironi e poi una serie di prestazioni senza capo né coda che lo tengono, a pochi giorni dall’ultimo atto contro l’Argentina, con l’umore sotto i tacchi. Un bagliore di convinzione lo porta a pensare con più positività alla partita del Maracanà: questa è una pietra miliare della sua carriera, ma anche una condanna.
Forse è il focus sbagliato, quando si parla di Mario Götze, ma non si può fare a meno di partire da quella notte di mezza estate. Lui in realtà rifugge proprio questo, non vuole essere “quello del gol in finale”. Un fardello troppo grande da portare, arrivato troppo presto. Realizzare a 22 anni il massimo sogno di qualunque altro calciatore al mondo rischia di porre troppo in alto l’asticella, oltre che di svuotarti. Hugo Lloris, capitano della Francia campione del mondo, ha espresso perfettamente questo sentimento in un’intervista dello scorso anno.
«Dopo i festeggiamenti della Coppa del Mondo ti senti totalmente vuoto. Mentalmente e psicologicamente. […] Mi ricordo che ho avuto bisogno di stare per un giorno intero a letto, per staccare un po’. Mi sentivo completamente vuoto. E sapevo che non mi sarei neanche potuto godere le vacanze perché c’era già la nuova stagione in arrivo»
Bisogna distinguere, però, i due casi: per il portiere del Tottenham è un traguardo arrivato all’apice della carriera, in un momento in cui stava per iniziare la sua parabola discendente; per il trequartista tedesco doveva essere la certificazione di una carriera dal grande destino. Guardiola aveva già deciso di puntare su di lui e aveva in mente grandi progetti tattici: l’idea di farne un nuovo Messi, un attaccante ombra per liberare spazi in cui si sarebbero inseriti i compagni. Come sappiamo, la pratica non è stata all’altezza della teoria (e delle aspettative): Götze non riusciva ad essere tranquillo, a giocare il suo miglior calcio.
«Lui pensa solo a ciò che succede dentro al rettangolo di gioco, tralascia l’aspetto umano e non guarda al di là di se stesso o della gente. I giocatori sono anche esseri umani e andrebbero anche considerati fuori dal campo»
dice di Pep in un’intervista del 2016. Ma non significa che Götze odi il calcio: negli scorsi mesi ha tenuto a ribadire come l’aspetto economico sia secondario, e come vorrebbe vincere la Champions League prima di ritirarsi. Inoltre crede ancora di poter essere utile a Löw: appena arrivato ad Eindhoven ha dichiarato che vuole mettersi in forma per vincere in campionato, tenendosi anche pronto per un’altra chiamata della Mannschaft.
Qual è la colpa di Götze, quindi? Dove ha sbagliato, se ha sbagliato? I problemi fisici, causati da un malfunzionamento metabolico, sono solo un lato della medaglia. Tanti giocatori passano attraverso noie muscolari o di altro genere ma riescono a venirne fuori – basta guardare il suo ex compagno Coman, che ha superato una serie di problemi alla caviglia e adesso si è stabilizzato nel nucleo della squadra campione d’Europa in carica.
È vero che ognuno se la vede col proprio fisico a suo modo: può essere un punto di forza come una debolezza. Ma se si pensa che sia questo il punto di rottura, in Götze, probabilmente si sbaglia. La sua colpa, se così si può definire, è stata un’ipersensibilità a tutto ciò che gli è accaduto intorno. I primi anni a Dortmund sotto l’ala di Klopp, gli insulti alla sua famiglia dopo il trasferimento a Monaco, le pretese di tifosi e addetti ai lavori durante gli anni in Baviera.
Tutto questo l’ha soffocato. Se si aggiunge un’autocritica anche troppo severa, il quadro è completo. In molti hanno confuso la sua introversione con una certa arroganza. In un’intervista a Kicker risalente al suo ritorno al Dortmund, ci ha tenuto a specificarlo:
«Non penso che la mia immagine cambierebbe se mi facessi intervistare al termine di ogni partita. Alcuni sono introversi e altri estroversi»
Una bulimia di contenuti che affligge l’appassionato moderno, che vorrebbe sapere anche il più piccolo dettaglio sul proprio beniamino di turno. Talvolta è più affascinante cogliere aspetti sottili da un movimento senza palla, da un incoraggiamento al compagno, da un’esultanza ad un gol. Il linguaggio del corpo, in un momento come quello della partita in cui materia e spirito si fondono, esprime molto più di fiumi di parole sottratti con la forza.
Si parla di un giocatore atipico, ma di un ragazzo che sa essere non banale anche dal punto di vista umano. Forse quello che fa storcere il naso a molti osservatori, quando si parla di lui, è proprio questa forza di volontà silenziosa, che non è espressa con vigore fisico, ma con l’affermazione della sua insofferenza nei confronti dell’apparato mediatico. Un apparato da cui ha fatto una gran fatica a liberarsi, ma che con gli anni ha imparato via via a destrutturare.
La carriera di un calciatore d’altronde non assume una traiettoria lineare, ma è composta alternativamente da lunghi momenti di stallo o fasi di forma strabilianti, intervallate da fatica e sacrificio. Una sorta di pendolo schopenauriano, insomma, ma la narrativa spesso non è di questo avviso e vede nel calciatore di successo il protagonista di una fiaba per bambini: la difficoltà iniziale, le peripezie e la sconfitta finale del nemico.
Ma chi lo dice che l’unico risultato accettabile per un calciatore di talento è una carriera vissuta costantemente tra i più performanti al mondo? Certo lo esigono i tifosi, i risultati, le statistiche, ma la parabola sportiva a volte può servire anche per ritrovarsi o semplicemente per trovarsi. Molti ragazzi arrivano alla ribalta ancora acerbi, spesso avendo vissuto per anni solo nel mondo del calcio, giovanile e poi professionistico; non hanno potuto accumulare esperienze e sono costretti a vivere di aspettative. Ecco perché anche un mondo come quello del calcio, con tutti i suoi corollari, può servire a scoprirsi.
Il gol contro il PEC Zwolle, seguito da una rete al volo contro il Granada in Europa League, è stato il primo di Götze lontano da una squadra tedesca, che sia di club o selezione nazionale. Per la prima volta, il classe ’92 si è allontanato dalla propria comfort zone, che aveva cercato di nuovo nel momento di maggior difficoltà a Monaco, tornando alla casa madre giallonera.
Tuttavia, guardando con attenzione la rosa del PSV, salta all’occhio la presenza di diversi giocatori tedeschi guidati dal teutonico Roger Schmidt, uno dei maggiori rappresentanti del calcio tedesco degli ultimi vent’anni, teorico del gegenpressing: insomma, esattamente il brodo primordiale in cui è cresciuto il pupillo di Klopp, che ha inoltre deciso di vivere ad Eindhoven, a 150 chilometri da Dortmund. Una scelta nuova che però spiega come in fondo Götze sia troppo legato alla sua concezione di calcio naturale, quasi adolescenziale, senza stare troppo a pensare alle sfide o agli zeri dello stipendio che gli avrebbero offerto altrove.
Una filosofia forse un po’ troppo chiusa, quella di rimanere nella propria bolla calcistica, ma che riporta alla dimensione infantile e ludica di questo gioco. Nel torneo parrocchiale avremmo preferito giocare nella squadra sgangherata con i nostri amici di sempre oppure giocare con i più forti dell’oratorio, arroganti e presuntuosi? Non penso ci siano molti dubbi.
Non è difficile distinguere la passione dall’ossessione: la prima richiede sforzi e sacrifici, la seconda porta a snaturare sé stessi in maniera inumana. Götze ha preferito, in tutta naturalezza, rimanere nei limiti della prima in ogni passo della sua carriera: il trasferimento al Bayern è il sogno realizzato di un ragazzo che non può rinunciare alla grande occasione nella squadra più forte di Germania.
Il ritorno al Borussia però è quello del figliol prodigo, che si è reso conto di quanto la vita della città non sia adatta a lui. Spostarsi in un campionato mediaticamente meno rilevante, ma tecnicamente affine al proprio stile, è allora un modo come un altro per ribadire le priorità: divertirsi in primis, senza dubbio anche vincere e competere. L’importante è farlo, sempre, alla propria maniera.