La nostra intervista a un mito vivente del fútbol.
Guardando la sua carta d’identità si capisce subito che, nel suo destino, non poteva non esserci la pelota. Mario Kempes è nato infatti in una piccola cittadina della provincia di Cordoba, Bell Ville, dove è radicata la più antica e rinomata fabbrica argentina di palloni di cuoio. Monumento del calcio mondiale, ha partecipato a tre competizioni iridate, vincendo da protagonista e capocannoniere l’edizione casalinga del ’78. Versatile nei ruoli offensivi, è stato un attaccante prolifico e dotato della proverbiale garra argentina. Sensazionale interprete del “controllo orientato”, a lui sono stati ispirati cartoni animati e brani musicali.
Nella sua lunga carriera da calciatore, Kempes ha potuto contare sempre sulla presenza di autentici mostri sacri, sia come allenatori (Omar Sivori, Alfredo Di Stefano e Cesar Luis Menotti su tutti), sia come compagni di squadra. Nella sua Albiceleste hanno infatti brillato alcune tra le stelle più luminose del firmamento calcistico: su tutte, ovviamente, Diego Armando Maradona, a cui Marito non esitò a cedere la camiseta numero 10. Proprio il Pibe, grande estimatore del puntero cordobese , disse di lui: «ha messo il calcio argentino sulle mappe del calcio mondiale». Vero giramondo, da calciatore prima e da tecnico poi, oggi El Matador è un apprezzatissimo opinionista televisivo. Lo ringraziamo per la disponibilità e per averci concesso questa bella chiacchierata.
Lei è nato e cresciuto a Bell Ville, nella provincia di Córdoba e a circa 500 km da Buenos Aires (non a caso lo stadio di Córdoba le è stato intitolato). Com’era crescere nell’Argentina degli anni ’50, e coltivare sogni di gloria calcistici fuori dai radar della grande capitale?
Sinceramente, non credo sia stato un dispiacere. Sono nato a Bell Ville, mi piaceva Bell Ville e a Bell Ville ho passato la mia giovinezza. E un giorno, partii per Córdoba. Non conoscevo Buenos Aires. Nella mia vita sino ad allora, avevo viaggiato solo per qualche gita scolastica. Ma il calcio era sempre lo stesso a qualsiasi latitudine. Chiaramente, le cose cambiano tra il giocare nella tua città natale e nella capitale, ma il calcio esiste ed esisterà sempre in tutta l’Argentina. É un rito nazionale, non nasce e muore solamente a Buenos Aires.
Lei è un’icona del calcio mondiale e, come giustamente ha detto Maradona, è l’artefice dell’ingresso argentino nell’Olimpo del pallone. Avverte ancora la riconoscenza e il calore del suo popolo?
La riconoscenza della gente, devo essere onesto, la sento sempre. Tempo fa, pensavo che il mondiale che vincemmo nel ’78 non aveva la stessa importanza del mondiale vinto nel 1986. Mi sbagliavo. La persone hanno continuato e continuano ancora oggi ad apprezzare quello che facemmo nel 1978, nonostante la situazione del Paese. Mi sento molto orgoglioso di aver fatto parte di quella spedizione. Per quella frase è vero, Diego l’ha detta, ma io non ero il solo. Noi tutti 23 fummo gli artefici di quell’esperienza, all’interno di un momento estremamente complicato della storia argentina.
Per l’appunto: quel mondiale, nell’immaginario collettivo, resta quello di Videla, del regime e dei desaparesidos. Quanto le dispiace che il ricordo di un’avventura sportiva così esaltante venga sporcato dall’idea del condizionamento politico?
Questo ricordo si lega sempre alla nazionale del ’78. Disputammo il mondiale casalingo in un contesto difficile, ma i giocatori che rappresentarono l’Argentina andarono in campo per giocare a calcio, non per difendere il regime militare. Noi giocavamo a calcio, facevamo quello che sognavamo da una vita. Non credo che nessuno di noi sapesse molto di politica. Io no, ad esempio. Posso dirvi che giocai per il calcio argentino e per il pubblico argentino. A distanza di anni, mi considero ancora giocatore, allenatore e tifoso albiceleste. Credo sia impossibile spiegare le emozioni provate in quel momento: giocare il mondiale, in casa, per gli argentini.
In quel mondiale siglò 6 gol e vinse con merito il titolo di capocannoniere e migliore giocatore del torneo. Come ci si sente ad aver scritto la storia, per il proprio popolo, da protagonista?
Vi assicuro che, all’ingresso in campo per la finale contro l’Olanda, nemmeno mi ricordavo che, con due gol, sarei diventato capocannoniere del torneo. Quando indossi la maglia del tuo Paese, è impossibile pensare ai traguardi personali. Pensi solo all’obiettivo collettivo, a quello della tua squadra. Non sono mai stato un giocatore egoista. Mi accorsi dei premi personali, quello di top scorer e di migliore giocatore del torneo solo a fine partita e nella successiva cena con tutta la squadra.
Ma, lo ripeto, mai e poi mai in quei momenti pensavo al fatto di dover essere il miglior marcatore del Mondiale. Avevo fatto due gol in meno di Luque e Rensenbrink. Segnai il primo, proprio Rensenbrink fu a pochi centimetri da segnare e poi, grazie a Dio, segnai ancora. La soddisfazione fu enorme, ma il merito andava condiviso con i miei compagni di squadra. Loro mi aiutarono ad essere il migliore, e insieme vincemmo il nostro primo mondiale.
Nel 1982 probabilmente la Selección era più forte di quella del 1986, forse persino di quella campione del ’78: lei, il genio di Diego, la mano di Menotti. Per molti argentini vedere lei e Maradona condividere lo stesso terreno di gioco è stato probabilmente il punto più alto della storia albiceleste. Cosa non ha funzionato?
Ritengo che non fossimo del tutto concentrati sull’obiettivo. Ricordo benissimo che, quattro anni prima, eravamo totalmente concentrati a vincere il mondiale. 24 ore su 24. Erano pochi i momenti in cui potevamo uscire per vedere le nostre famiglie o staccare dalla nostra routine. E questo ci aiutò. La tv per vedere le partite era molto piccola. Talmente tanto che era come se non potessimo seguire nemmeno i nostri avversari. Ma la cosa più importante è che eravamo un gruppo unito, sempre. Nel 1982 non fu così, nonostante avessimo una rosa migliore, con giocatori molto più famosi a livello globale. Ma l’equilibrio che trovammo nel ’78, e che immagino trovarono nel 1986, non arrivò mai in Spagna. Questo è stato.
Le ’sue’ nazionali erano squadre veramente sudamericane (nel 1978 lei era uno dei tre giocatori che militavano in Europa). Ormai questa equazione si è ribaltata, e trovare nelle convocazioni giocatori militanti nel campionato nazionale è diventata l’eccezione più che la regola. Come influisce questo aspetto nelle dinamiche di una Nazionale?
Ci sono commissari tecnici che cercano di disputare i tornei con i giocatori che giocano nel campionato locale. In quel caso, il ct Menotti intuì che in Argentina “esiste il calcio” e non si ferma solamente a Buenos Aires. Per questo considero la Seleccion del ’78 come la Seleccion nacional. Proprio perché vi presero parte giocatori del campionato, fatta eccezione per il sottoscritto. Devo ringraziare Menotti che mi convocò, nonostante giocassi all’estero. Vincemmo, diventai capo cannoniere e miglior giocatore del torneo. Grazie, lo voglio ripetere, al sacrificio di tutti, anche se definire “sacrificio” giocare a calcio e disputare la Coppa del Mondo con la maglia del tuo Paese lo reputo esagerato.
Passando invece alla sua esperienza di allenatore giramondo, lei accettò un ingaggio dalla Fiorenzuola (Serie C2) e uno dal Casarano, società pugliese di Serie D. Come mai colse quelle proposte? Non capita spesso di vedere un Campione del Mondo guidare una squadra di dilettanti…
Non è raro vedere ex campioni del Mondo iniziare ad allenare dal basso, partendo da zero. Esistono molti ex campioni o grandi giocatori che hanno cominciato la loro carriera in panchina dalla serie minori. Solo pochi fortunati non hanno seguito questo percorso. Mi sarebbe piaciuto molto allenare lì, ma alla fine saltò tutto. Sono cose che succedono durante la carriera ma non voglio guardare al passato, preferisco godermi il presente.
Sul finire degli anni ’70 la stampa spagnola, complici i due trofei Pichichi (capocannoniere), la identificava come “uomo immagine” della Liga. Con il Valencia vinse una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa europea. Lo ricorda come il momento più alto della sua carriera?
Ah, a Valencia fu un’esperienza incredibile: il feeling con la gente, non solo con i tifosi, era ottimo. Il rapporto era stupendo e non solo per quello che feci in campo, ma anche per il rapporto che avevo al di fuori. Credo che le persone mi ricordino soprattutto per questo. Noi calciatori dobbiamo sempre ricordarci che la nostra vita non finisce al triplice fischio dell’arbitro, ma continua al di fuori, quando entri in contatto con le persone. Questo più di tutti è stato l’aspetto che mi sono portato dietro da Valencia.
Tornando alla (sua) patria: diceva Hugo Tocalli che «il potrero è una scuola di calcio e di vita, dove si gioca duro, si impara a dribblare, a rischiare un tunnel o un sombrero, cose che non ti insegna nessun maestro». È così importante la cultura del potrero in Argentina? E quanto conta nella formazione di un giocatore?
La fortuna, se possiamo chiamarla in questo modo, di molti di noi era che non vi erano scuole calcio. Partivi direttamente dalle squadre delle serie minori della tua città. Iniziai nel Talleres di Bell Ville. Prima, però, molti di noi venivano direttamente dalla strada, dove i campi erano di terra e pietra e non di erba. Le porte non erano come quelle degli stadi, ma quattro pezzi di legno di fortuna che formavano una porta. E in quel modo i ragazzi si abituavano a giocare a calcio. Ovviamente, quando entri in uno stadio pieno di tifosi, le cose cambiano. Non è un passaggio semplice, ma ci si abitua. Il calciatore vero si abitua sempre, a tutto.
La sua seconda, anzi terza vita: quella da commentatore, per cui è molto stimato e apprezzato. È un mestiere che le piace o un modo per non distaccarsi dal pallone, amore di una vita?
Mi piace molto. Commento quel che vedo, non sono tifoso di nessun club, se non di quelli per cui ho giocato. Il Valencia, il River, il Rosario Central, l’Institudo, l’Hercules, le squadre austriache. Per il resto, osservo sempre come gioca una squadra o l’altra e amo il calcio come il primo giorno. Ricevo tante critiche, positive e negative. Questo mi piace perché quando finiscono le partite “il tavolino del bar serve proprio per discutere”.
A maggior ragione di questi tempi è d’accordo con Eduardo Galeano, per cui il calcio senza tifosi è come un ballo senza musica?
Guarda, ti rispondo così: una partita senza tifosi è come una minestra senza sale. E una domenica senza calcio, per me, è come se non esistesse.
Ringraziamo Giovanni Guido per la preziosa traduzione