Il 15 Marzo del 2001 usciva Pro Evolution Soccer per Play Station, segnando la storia dei videogiochi.
C’è una frase che accomuna tutti i ragazzi d’Italia, una frase che dai dieci anni in su ci siamo sentiti ripetere almeno una volta (al giorno): “lascia perdere quei videogiochi, non ti insegneranno nulla di buono”. E forse un po’ di verità le parole dei genitori ce l’avevano anche, visto che trascorrere le giornate nelle strade di una Los Angeles digitale, tra guerriglia e spaccio di bande, non è che insegnasse poi troppo.
C’è un gioco però, o meglio, una specifica modalità di un gioco, che ha trasmesso davvero qualcosa a chiunque l’abbia provata: stiamo parlando della Master League di Pro Evolution Soccer. Il gioco più bello di ogni tempo, specie nelle edizioni da PES 3 a PES 6.
I CAMPIONI DI PES, VECCHI AMICI
In un anonimo pomeriggio di metà febbraio, mentre mi accingevo a ripulire la cantina di casa, si è subito presentato un impolverato scatolone bianco, sopravvissuto a varie sedute di “decontaminazione” nel corso degli anni (probabilmente godeva di buone protezioni “dall’alto”). La scritta stampata su entrambe le facciate della scatola, nitida come sempre, parlava chiaro: PS2. In preda a un attacco di nostalgia ho collegato subito la console al monitor del computer e, in men che non si dica, mi sono ritrovato a pregare il perfetto avvio dell’unico CD rimasto ancora in bella mostra sullo scaffale affianco alla scrivania. Quello di Pro Evolution Soccer 6.
Avviatosi senza il minimo segno di intoppo (nonostante l’età), sono ripiombato in un menù che malgrado gli anni conoscevo a memoria, e da lì direttamente verso l’opzione “campionato Master“. Ecco allora che, con un veloce caricamento, mi sono ritrovato con alcuni tra i miei più cari amici dell’adolescenza: Ivarov, Stremer, Minanda, Castolo, Espimas, tutti lì, pronti alla “vittoria”. Uomini prima che pixel, amici prima che giocatori. Solidali compagni di viaggio.
Ivarov, il portiere, era diventato dopo un paio di partite la “saracinesca socchiusa”, perché quando gli avversari arrivavano a tirare in porta (un po’ troppo spesso) diventava un cinquanta e cinquanta, come da Gerry Scotti: o la palla entrava dopo una goffa papera del portiere, o quest’ultimo si prodigava in un clamoroso miracolo per salvare il risultato; Iouga, invece, il “tuttofare”, perché lo si poteva utilizzare sia come difensore centrale che come mediano in casi di estrema necessità.
Che poi diciamocelo, con quel gruppo di giocatori, in realtà, non si vinceva mai; spesso si perdeva, qualche volta si pareggiava, raramente arrivava il successo. Certo però che quando ciò accadeva, e in classifica si poteva registrare un “+3” sotto la voce “PES UNITED”, era una vera e propria festa. Per non parlare di quando, per un intero fine settimana, festeggiai insieme a un amico la conquista della “WEFA Masters”, l’equivalente dell’attuale Uefa Europa League, nonché l’apice in chiave trofei del “mio” gruppo. Altro che discoteche e locali, quella era adolescenza.
L’ETICA DELLA CARRIERA DI PES
Ma per quale motivo PES 6 e la sua “Master League” – presente anche nelle altre edizioni del gioco, questo va precisato – non dovrebbe rientrare nel sacrosanto “lascia perdere quei videogiochi“? La risposta è semplice: la Master League insegnava, negli ovvi limiti di un gioco digitale, valori tutt’altro che superflui.
Se oggi i ragazzini distruggono joypad come fossero soldatini per colpa di FIFA e della famosissima modalità Ultimate Team, con Ivarov e compagni perdere poteva essere dannatamente divertente. Già, perché al contrario di adesso, nella Master si partiva con una squadra tremendamente scarsa: per fare un paragone ormai puoi avere subito tra le mani Cristiano Ronaldo mentre un tempo dovevi accontentarti di Huylens, attaccante bulgaro esistito solo nelle fantasie dei programmatori, e che di certo non ricordava Berbatov.
Normalmente, l’obiettivo di un gioco è vincere. Sempre. Il miracolo di Pro Evolution Soccer consisteva, all’opposto, nel divertire attraverso la sconfitta.
Ed era proprio questo il bello. Oggi lo spirito del tempo dice Tutto e subito!, soprattutto per i più giovani. Nulla a che vedere con l’antica consapevolezza di dover ogni volta far l’impresa per portare a casa almeno un punticino. PES riusciva a restituirti il valore della pazienza e del sacrificio, in attesa di tempi migliori, s’intende; ti metteva di fronte ad un’intelligenza artificiale incredibilmente forte. Normalmente, l’obiettivo di un gioco è vincere. Sempre. Il miracolo di Pro Evolution Soccer consisteva, all’opposto, nel divertire attraverso la sconfitta. Anche perché vincere subito, si sa, annoia.
GLI AMICI (QUELLI VERI)
Al giorno d’oggi, poi, per sfidare un amico basta una connessione ad internet. Ai tempi di PES 6 invece l’unico modo per sfidare un amico era quello di andare a casa sua. E spesso, quello che “partiva per la trasferta” doveva anche portarsi il joypad perché, nel lontano 2006, anche solo l’idea di provare a lanciarlo per terra dopo una sconfitta equivaleva a mesi e mesi di console sequestrata dai genitori, o nel più fortunato dei casi all’impossibilità di giocare.
Pomeriggi memorabili, in cui certo PES era il centro ma forse contava più il contesto: gli amici, la merenda, le risate e il divertimento, che è reale solo quando condiviso; se c’è una cosa di cui, con il passare del tempo, sento maggiormente la mancanza, sono proprio quei pomeriggi e in particolar modo quel pomeriggio.
Era un mercoledì di giugno e, nonostante i circa quaranta gradi che si potevano percepire nella mia angusta cameretta, io e Marco (nome di fantasia) eravamo lì a giocarci una finale. La finale della “WEFA Masters”. I patti, erano chiari: quarantacinque minuti a testa più recupero. Stessa regola in caso di supplementari, mentre nel remoto caso in cui si fosse arrivati ai rigori, ne avremmo tirato uno ciascuno.
Castolo, Ivarov, tutti i miei amici avevano bisogno del mio amico.
Un bambino di undici anni con ogni probabilità avrebbe giocato da solo quella partita, ma Marco era “l’amico più forte”, quello che a volte per compassione mi lasciava anche vincere, quindi avevo bisogno di lui. Castolo, Ivarov, tutti i miei amici avevano bisogno del mio amico. La scelta si rivelò vincente: dopo i suoi primi quarantacinque minuti, andammo negli spogliatoi in vantaggio per uno a zero. A insaccare era stato proprio Castolo, abilmente comandato da Marco in una serpentina tra le maglie dei difensori della Lazio.
Nel secondo tempo, quando le redini del gruppo passarono tra le mie mani, arrivò il pareggio: Tommaso Rocchi all’epoca era infallibile sotto porta. Galvanizzato dall’idea dei supplementari, e quindi di tornare a giocare, Marco consigliò a Iouga il “tuttofare” di passare a una formazione prettamente difensiva (sì, Iouga era anche quello a cui affidare le tattiche in mezzo al campo). Fortuna volle che, per errore, sbagliai tasto, scegliendo la via del pressing.
Fu così che nel giro di pochi istanti – quando alla fine dei tempi regolamentari mancavano appena cinque minuti – conquistai tre corner consecutivi da cui arrivò, all’ultimo tiro dalla bandierina, il micidiale colpo di testa di Stremer. Due a uno e filmato di premiazione ancora stampato nella mente. Perché ogni volta che in televisione mi capita di guardare una partita di Europa League (spesso, per via della mia fede calcistica) la testa non può fare altro che tornare a quell’afoso pomeriggio e a quel gruppo di eroi. Perché quello non era solo un gioco, era la Master League.
Scrittore di gialli tradotti in tutto il mondo, autore di successo di opere teatrali, racconti sportivi e serie tv, ma prima di tutto tifoso del Napoli. Maurizio de Giovanni ce ne parla in questa lunga chiacchierata.