Quanti portieri sono stati soprannominati “gatto” per via dei prodigiosi riflessi. Tanti. Addirittura l’argentino Hugo Gatti ci si chiamava di cognome. Il problema era poi meritarselo appieno quel nomignolo, perché è chiaro che se fai il portiere una certa reattività fa parte del bagagliaio di serie. In caso contrario cambi ruolo, oppure sport che forse è anche meglio. Ebbene in Sudamerica, a cavallo tra gli anni ‘60 e i ‘70, non si poteva parlare di gatti neri applicati al calcio e non riferirsi contemporaneamente a Ladislao Mazurkievicz, perché lo sguardo fulmineo e i movimenti di quel portiere non li aveva nessuno.
Cercavano di imitarlo, di essere un po’ come lui, ma era come per un aspirante attore scimmiottare Marlon Brando. Figuraccia garantita. E se davvero volevi imparare il mestiere, allora dovevi rubare con gli occhi e mettere a frutto con fatica ciò che a “Ladi” riusciva quasi naturale.
EL GATO
Il portierone della nazionale uruguagia è scomparso il 2 gennaio del 2013, ma era nato nel giorno di San Valentino del 1945. Volendolo immaginare vivo, “el gato negro” oggi avrebbe 77 anni. Negro non perché fosse di colore (figuriamoci, il padre era di origine polacca e sua madre spagnola), ma per via del completo da portiere scurissimo, calzerotti compresi: il kit sobrio e insieme affascinante di tanti numeri 1 di un calcio che, nel bene e nel male, non esiste più. C’è in particolare un episodio che lo rende famoso e degno di un ideale parco delle rimembranze che altrimenti non gli sarebbe mai stato allestito nel corso degli anni.
Estadio Jalisco di Guadalajara, Messico. È il 17 giugno 1970, Brasile e Uruguay si stanno dando battaglia per un posto in finale ai Mondiali. Nei minuti finali del secondo tempo, il Brasile sta vincendo in rimonta per 3-1, quando Tostão da centrocampo lancia Pelé in contropiede verso la porta avversaria. Mazurkiewicz esce dai pali per chidergli la visuale, O’ Rey gli fa un numero da far impazzire le folle: finta di corpo a sinistra, deragliamento a destra dopo aver girato intorno al portiere senza nemmeno toccare il pallone.
Il 10 verdeoro riprende palla qualche metro più avanti e sia pure da posizione defilata scaglia verso la porta ormai sguarnita. La conclusione esce di due dita, forse anche meno. È il «non gol» più bello della storia. Fosse entrato quel pallone, si sarebbe comunque trattato di un evento: di fronte a sé Pelé non aveva un portiere qualsiasi e trarre in inganno uno come il super portiere dell’Uruguay ‘70 era privilegio di pochissimi.
LA CELESTE
Ladislao Mazurkievicz Iglesias (diffidare dalle omonimie canore) viene dunque ricordato soprattutto per una semi beffa subita nella semifinale di un Mondiale, eppure è sempre stato pessimo cliente per molti. Per altri, addirittura un incubo. Anche per Pelé, che ne aveva stima enorme (non solo sul piano tecnico) e che aveva fatto la sua conoscenza cinque anni prima in una semifinale di Copa Libertadores. Il 31 marzo 1965 il Santos viene infatti eliminato dal Peñarol di Montevideo, con il ventenne «Mazurka» chiamato fra i pali a sostituire il titolare. Un gatto, un istintivo, uno che sembra avere le molle sotto gli scarpini. Ma anche un uomo saggio che vuole sempre migliorarsi, un numero 1 che dà sicurezza alla difesa anche solo con la voce.
Non a caso viene ritenuto il più grande portiere nella storia della Nazionale di calcio uruguagia. La Celeste. E certo non per mancanza di scelta, l’Uruguay ha buona tradizione di portieri.
Il futuro “gato negro” nasce a Piriapolis, località balneare di stile italianeggiante, circa 100 chilometri da Montevideo. Raccontano le cronache che da ragazzo Ladislao avesse scelto la palla “sbagliata”: quella a spicchi. Che spreco, detta a posteriori. Gli piace il basket e lo pratica,ma non ha ancora incontrato se stesso, dunque non ha ancora consapevolezza del proprio talento calcistico. Di statura media e tecnica approssimativa, ha buone movenze e agilità non indifferente, ma oltre un certo livello la pallacanestro non fa per lui. Poi, un giorno, un osservatore del Racing Club di Montevideo nota un calciatore tredicenne dotato di un certo magnetismo innato: il giovane è del tutto acerbo e all’inizio vorrebbe giocare come centrocampista perché ha piedi buoni e visione di gioco, ma quel giorno manca un portiere. Sulle ali della necessità lo sbattono fra i pali.
La leggenda che avvolge l’episodio è abbastanza dettagliata: “el chichuito” (il ragazzino) para sei rigori in una partita. Un penalty parato può anche essere un colpo di fortuna, ma quando dagli undici metri il pallone si fa ogni volta materia plastica nelle mani di un ragazzotto che non dovrebbe nemmeno stare lì, scatta subito l’allarme da parte degli osservatori. “Chi è questo fenomeno?”, grida qualcuno da una tribuna. Da lì alla prima squadra è un attimo o giù di lì, ma per restare a buoni livelli bisogna lavorare parecchio. Il talento naturale da solo non basta mai. A 16 anni avviene l’esordio, in pochi anni ottiene due promozioni e poi arriva una chiamata a cui nessun normodotato potrebbe dire no: quella del Penãrol, la Juventus d’Uruguay.
A causa dell’indisponibilità del titolare Maidana, il ragazzo, ancora privo di esperienza internazionale, si ritrova in campo senza preavviso. «Vamos, hombre». L’avversaria è il Santos e l’occasione è la semifinale di Coppa Libertadores. Chiunque si spaventerebbe alla sola idea di scendere in campo. Con la massima tranquillità apparente lui para tutto con una naturalezza quasi irritante, la squadra di Pelé non passa e il Penãrol va in finale. Nella sfida decisiva gli Aurinegros soccombono agli argentini dell’Independiente, ma si rifaranno nell’edizione successiva contro il River Plate: come per magia, quell’anno la Libertadores finisce sul tavolo del presidente Gastón Guelfi. Medesimo destino nell’Intercontinentale, vinta contro il Real Madrid sul finire del 1966.
Sono grandi soddisfazioni per tutti i componenti della squadra, ma per qualcuno ancora di più. Manco a dirlo, contro le Merengues il portiere è uno dei migliori in campo.
«Mazurka» ha appena ventidue anni, eppure ha già vinto e parato praticamente tutto, oltre ad avere fatto pubblico sfoggio di uno stile inimitabile, minimalista ma esplosivo all’occorrenza, ai Mondiali del 1966: riesce a non far passare gli inglesi padroni di casa e a fine torneo viene votato come terzo miglior portiere della manifestazione. Quattro anni più tardi, di fronte alle alture messicane Mazurkiewicz si ritrova di nuovo al cospetto di Pelé, che diventerà un abituale avversario del numero 1 “celeste”. Se l’Uruguay arriva al quarto posto, grande merito va a chi ne difende la porta. Al termine della manifestazione la critica specializzata vota lui come portiere dell’ideale formazione “all star” di Messico ’70.
Nel 1971 Mazurkiewicz, divenuto una sorta di monumento vivente in patria, cerca nuovi stimoli e decide di trasferirsi in Brasile, a difendere la porta dell’Atletico Mineiro. Vince immediatamente il “Primeiro Campeonato Nacional de Clubes”, edizione d’esordio del campionato brasiliano a livello nazionale. Tre stagioni con i bianconeri di Minas Gerais, poi il Mondiale 1974 e una breve avventura europea: una sola stagione in Spagna, al Granada, miracolosamente salvato dalla “Segunda” anche grazie alle sue parate. Quindi il ritorno in Sud America con Cobreloa, America di Cali e di nuovo Penãrol nel 1981. In panchina trova Luis Cubilla, storico leader della selezione uruguagia, che facendo appello al grande carisma del portiere convince “el gato” a far da chioccia alla giovane promessa Fernando Alvez.
Per un solo anno però, visto che «Mazurka» preferisce smettere per trasformarsi in preparatore dei portieri.
Sa bene di essere ancora troppo forte per accettare di marcire in panchina poco alla volta, malgrado il passare degli anni. Meglio farsi ricordare al massimo dello splendore, come un felino che non perde un colpo. Negli ultimi anni Ladislao Mazurkievicz viene abbandonato dalla salute. Fa appena in tempo a vedere l’alba del 2013. Il 2 gennaio a Montevideo, “el màs grande de todos los arqueros” saluta controvoglia tutti, stavolta per sempre. Aveva 67 anni e soffriva da tempo di problemi respiratori. Tuttavia negli ultimi giorni di vita le condizioni si erano aggravate all’insorgere di complicazioni renali. Quegli stessi reni che in decenni di carriera lo avevano aiutato nel compiere balzi prodigiosi. Quelli di un gato negro, per l’appunto.