Cultura
13 Marzo 2024

Mea culpa, mea maxima culpa

La Via Crucis che porta i giocatori sotto la curva.

Aleksej Anatol’evič Naval’nyj in carcere, poco prima di morire, leggeva il racconto “Nel burrone” di Čechov e ne scrive a un suo amico. Anche nello straordinario “Vita e destino” dell’ucraino Vasilij Grossman una madre ebrea scrive a suo figlio una lettera, dicendogli che avrebbe portato con sé due testi del grandissimo scrittore russo: “Una storia noiosa” e “Il vescovo”. Čechov insomma consola dalla sofferenza, porta l’uomo davanti all’uomo non per condannare ma per condividere la pietà; il dissidente Oleg Orlov, durante il processo che poi lo ha condannato a due anni e mezzo di reclusione per un articolo in cui attacca Putin, ha letto ampi brani del romanzo di Kafka “Il processo”. A sottolineare l’assurdità della sua situazione.

Forse sarebbe utile se all’ingresso negli stadi di squadre in crisi si potessero offrire i racconti di Čechov da leggere ai calciatori quando, con la cenere in testa, si avvicinano per essere offesi dalla curva. Succede sempre più spesso infatti che, dopo una sconfitta, una squadra si rechi verso i tifosi e, in silenzio, si faccia insultare. Una quaresima laica in cui gli atleti si lasciano fustigare come fossero vattienti, si dedicano all’autoflagellazione per espiare i peccati dell’ecce homo. Le parole della curva sono la rosa e il cardo: la prima è un pezzo di sughero con tredici pezzi di vetro (Cristo e i dodici apostoli, il pezzo di Giuda è più lungo) con il quale percuotono cosce e polpacci; il secondo è una spugna di sughero per asciugare il sangue. Ma anche questo fa parte della scena, è propaganda televisiva, infezione del sistema, teatrino finale, non c’è nulla di serio.

Chissà che non si arrivi a organizzare in allenamento il rito della penitenza, un po’ come si fa con l’esultanza dopo un gol. Dopo la testa china potremmo proporre la genuflessione collettiva, per far capire che l’importante è il gruppo.

Poche settimane fa la Salernitana, dopo la pesantissima sconfitta contro l’Inter, ha tenuto la testa calata davanti ai suoi tifosi; un atto di penitenza, forse un tentativo di trasformarsi in Malaussène, lasciarsi martirizzare per liberare la rabbia e riconciliarsi senza pericolose conseguenze. “Mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”. Offeso non Dio ma il pubblico. In genere si alzano lamenti moralistici, si piagnucola che è una vergogna subire la gogna allo stadio, insomma la solita predica fatta al calcio che continua però ad avere più peccatori che preti.



Diciamola una volta e per tutte: il calcio è odio, rabbia, razzismo, aggressione, bestemmia, minaccia, gioia, sberleffo, depressione, sfogo, bassezza, speranza, rivalsa, fame, sete, è così negli stadi di calcio di tutto il mondo, da Amsterdam a Buenos Aires, perché è uno sport truce e plebeo nonostante i calciatori siano diventate educande ricoperte di sponsor e di tatuaggi; lo stadio è un catino di zinco dove ribolle la ferocia. Il “Ti taglio la gola!” gridato da Juric a Italiano ha il senso profondo e bestiale del football, quello che viene dal sangue e manca alle parole di Gravina o ai giacca-e-cravatta di Sky.

Allo stadio si minaccia, si insulta, ci si azzuffa, si urla, si augura la morte, lo stupro, il tradimento, non c’è altro modus, non ce ne può essere un altro.

Ma, dirà, l’Opinionista di Moralitalia, che è cosa ben triste vedere catini di cemento gremiti di forsennati che costituiscono serio motivo di lamentela e, quindi, conviene che si trovi metodo onesto, facile e poco costoso, atto a rendere questi agitati parte costumata della comunità; propongo pertanto, previo decreto presidenziale, di interdire la visione delle partite e l’entrata negli stadi ai minori di anni 18 o di demolire gli stadi e farne macerie, bisogna proteggere i nostri piccoli indicando con un parental control il grado di diseducazione di un match pallonaro tra mazzate e mortacci tua.

A Udine, dopo le ingiurie razziste a Maignan, molti si sono difesi dicendo che lo chiamavano negro perché così si fa nel calcio ma non c’era intenzione di considerarlo davvero un kunta kinte, era una semplice burla da campo. Il calcio è infatti un’arena di rancori, raccoglie qualunque umore, non lascia fuori niente. Come sa Vinicius che provoca, irrita, urta i nervi e poi alza il pugno in aria alla Tommy Smith e John Carlos come rivendicazione dei diritti afro.


Vinicius vs Valencia, l’ennesimo atto

Torniamo alla Pasqua sotto la curva. Nel 2012 durante Genoa v Siena, sullo 0-4 la partita viene sospesa, i calciatori genoani sono costretti a togliersi la maglia da gioco dai tifosi perché indegni di indossarla, capitan Sculli va a parlare coi tifosi fino a essere abbracciato da uno di questi che gli dice qualcosa all’orecchio. Una confessione privata fatta in pubblico, il desiderio di riversare le colpe e le pene. Togliersi la maglia sul campo, metterle l’una sull’altra, fare mea culpa mea culpa mea maxima culpa, un confiteor calcistico che fa arricciare i nasini dei cicisbei incipriati di banalità.

Spezia v Milan 2-0, correva l’anno 2023. A fine partita i calciatori milanisti vanno verso la curva sud, restano in silenzio. Parla solo uno dei capi ultrà, un lungo monologo con Pioli che annuisce e i calciatori che ascoltano; un’altra quaresima. “Ci hanno solo spronato e stimolato a dare il massimo”, confessa Pioli nel dopogara. Tutto ridotto a un breve catechismo della finzione. Anche il Sassuolo, dopo i sei gol subiti in casa dal Napoli, ha sostato sotto la curva per ricevere il mercoledì delle ceneri. In silenzio, viso contrito, hanno dato luogo a una rappresentazione pasquale che dura qualche minuto prima di svanire negli spogliatoi. Le offese dei tifosi diventano il lavacro entro cui purificarsi, il fuoco dove bruciare e risorgere, se ci riescono.

“Tu sai quanto sono stato insultato: /quanto disonore, quanta vergogna! /Sono tutti davanti a te i miei avversari. /L’insulto ha spezzato il mio cuore /e mi sento venir meno. /Mi aspettavo compassione, ma invano, /consolatori, ma non ne ho trovati”.

Sal 69, 20-21

I calciatori accettano le male parole, sanno che allo stadio schiuma l’offesa, ogni errore è un atto d’accusa, non c’è compassione ma solo pathos; eppure ci si scandalizza come i farisei davanti alla verità. Il calcio è eleganza e violenza, ira e sporcizia. Enrico IV si reca a Canossa perché papa Gregorio VII durante la lotta per le investiture lo scomunica, costringendolo nel 1077 a chiedere perdono rimanendo tre giorni fuori le mura del castello di Matilde ´– che ospita Gregorio VII – in ginocchio anche di notte, durante una bufera di neve. A questo punto lo stadio potrebbe avere una piccola parte penitenziale dove la squadra, quando va male, può recarsi per essere denigrata dai tifosi. E chiamarla Canossa.



Il 19 maggio 2015 la squadra della Roma, dopo aver perso 3 a 0 in casa con la Fiorentina, va sotto la curva, alcuni ultrà sono arrampicati sulle cancellate, parlano soprattutto con De Rossi e Astori, non è quindi una via della cenere quanto una specie di rigurgito di malumore della curva. Un tennista non parla con un tifoso, nemmeno un pallavolista. Articolo 25 comma 9 del Codice di giustizia sportiva. «Durante le gare o in situazioni collegate allo svolgimento della loro attività, ai tesserati è fatto divieto di avere interlocuzioni con  i  sostenitori  o  di  sottostare  a  manifestazioni  e  comportamenti degli stessi che costituiscano forme di intimidazione, determinino  offesa,  denigrazione,  insulto  per  la  persona  o  comunque  violino  la  dignità  umana».

Capita invece che spesso si vada allo scontro, come nel caso di Donadoni quando allenava il Bologna; ebbe un duro battibecco con un tifoso durante gli allenamenti. Ma è il volto di Candreva della Salernitana, sotto la curva dopo la sconfitta con l’Inter, la summa theologica di questo calcio confiteor: il suo sguardo è un salmo penitenziale, ha una intensità che ricorda certi occhi dei quadri di Margaret Keane. Il silenzio dei calciatori dopo il lento avanzare sul prato verso la curva è l’ecce homo che rivela quanto il calcio sia capace di essere anche pubblico ludibrio e non abbia alcuna intenzione di diventare sport che corregga l’umanità. E neanche se stesso.


Davide Morganti è scrittore e giornalista, sceneggiatore e paroliere. Negli anni ha collaborato con diversi giornali, dalla Repubblica al Mattino, e ha scritto libri per Einaudi, Fandango, Neri Pozza. La sua ultima opera, Atlante della fine del mondo, ha segnato un piccolo caso editoriale.


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