Guardare il dito e non la luna.
Il gesto della Curva Nord di cancellare il murale dedicato a Romelu Lukaku è figlio della rabbia e della delusione, senza dubbio. La vernice nera viene colata poco dopo che il simbolo della rinascita nerazzurra, autoproclamatosi re di Milano non senza il placet unanime dei tifosi, si è imbarcato in direzione Londra. «Ci avete tutti rotto i coglioni», esclama in uno striscione la Nord chiamando in causa società, dirigenza e calciatori e ricordando, non a torto, di come il legame più importante sia quello che lega il tifoso alla maglia, indifferentemente da chi la rappresenta.
Nello stesso giorno, Lionel Messi prenotava un volo verso Parigi chiudendo il suo ventennio in blaugrana. Addii che pesano, seppur con misure differenti, e che dividono.
C’è chi si limita a ringraziare (con malinconia) per il tempo passato assieme, ma anche chi punta il dito contro la poca lealtà. In fondo era stato lo stesso Lukaku durante la preparazione estiva a ribadire il suo ruolo di leader del gruppo. Ipocrita e traditore, lo ha rimproverato qualcuno soprattutto sui social, e molti lo hanno pensato. Allo stesso modo poco credibili sarebbero le lacrime della Pulga nella conferenza stampa di addio. Il tutto si riduce così al primato dell’economia (e del guadagno) sull’identità e la rappresentanza: il belga torna con il doppio dello stipendio attuale nel club che lo ha cacciato quando era un ragazzo – sai che goduria; Messi invece corre dal ricco PSG a guadagnare 35 milioni a stagione. Più che simboli, dei mercenari. Una semplificazione facile, fin troppo.
A parte interrogarsi sul perché non esistano più bandiere nel calcio – ma questo è un altro discorso su cui torneremo –, probabilmente è più facile sfogarsi con un singolo bersaglio, in carne ed ossa, piuttosto che con dei complicati processi economico-finanziari i quali, molto spesso, non si sa nemmeno con certezza da chi dipendano. Chi ha cancellato il murale dedicato a Lukaku, ed è un gesto anche comprensibile, cosa pensava però fino a ieri? Era davvero convinto che il belga fosse un simbolo dell’Inter? Va bene la trasfigurazione, fondamentale nello sport, ma fino ad un certo punto. Rendere Lukaku sindacalista dei colori nerazzurri solo perché si è caricato la squadra sulle spalle (per un paio d’anni) e l’ha condotta in vetta d’Italia, è un’operazione a dir poco ingenua.
Discorso differente ma neanche troppo per Messi: la pulce ha passato tutta una carriera con i colori blaugrana addosso. Con il Barcellona è diventato e rimasto il migliore del mondo, portando la squadra a conquistare trofei su trofei e a segnare la storia stessa del calcio. Eppure chi, in buona fede, potrebbe pensare a Messi come bandiera del Barcellona? Bandiera magari nella prassi calcistica, ma non nella teoria generale. Messi non è mai stato un rappresentante del barcelonismo a livello esplicito, né di quello “politico” né di quello valoriale. Si è sempre mostrato disinteressato a certe dinamiche ed è rimasto a Barcellona non tanto per il radicamento quanto piuttosto perché in Catalogna era riuscito a crearsi la bolla perfetta in cui il suo «genio autistico, dalle larghezze sconfinate e dai limiti precisi» (per citare Giancarlo Dotto) potesse essere coccolato e valorizzato al massimo. Riconosciuto e tutelato.
Amore, certamente, per Messi soprattutto e magari anche per Lukaku. Un amore a cui però corrispondeva un lauto compenso economico e, soprattutto, un’ambizione di vincere che non hanno più ritrovato. Certo Messi ha strappato con il Barcellona per le nuove e rigide regole della Liga, ma già l’anno scorso aveva espresso la volontà di cambiare aria per vincere e mettersi alla prova altrove.
«Lui, il ragazzo di Rosario, non ne sa nulla di cosa voglia dire essere Messi. Non se l’è mai posto il problema. Costretto a porselo dal giorno in cui un pianeta intero si è messo di buzzo buono a interrogarlo morbosamente. Essere Messi. La disgrazia, lo straordinario che diventa ordinario».
Giancarlo Dotto, “Il Dio che non c’è”, 2021
D’altronde, per passare da Re di una città a vassalli al servizio di un monarca non può bastare solo uno stipendio, seppur importante. E anche se fosse, non potremmo certo stupirci, soprattutto per dei professionisti che – come nel caso di Lukaku – non hanno un vero e proprio legame con la piazza che “tradiscono”. Che poi per quale motivo l’ex 9 nerazzurro avrebbe dovuto sposare la causa nerazzurra a vita? E, volendo essere cinici, proviamo a metterci nei suoi panni: cosa gli ha offerto l’Inter, a livello economico ma anche di narrazione, per poter diventare un milanese acquisito? Come possiamo aspettarci che un belga cresciuto calcisticamente in Inghilterra diventi simbolo dell’Inter “solo” per aver vinto uno scudetto da protagonista?
Questo non significa che ad esempio le lacrime di Messi non siano sincere, anzi! Tutt’altro. Piangere per quella scelta non è ipocrisia, ma vero dispiacere. È però il dispiacere di chi ha vissuto tanti anni in un luogo e lì è diventato grande (in tutti i sensi), non del traditore del barcelonismo. Così come per Lukaku: traditore, esattamente, di cosa? Diciamoci le cose come stanno, anche perché sappiamo come funziona il calcio contemporaneo. Se poi vogliamo trovare dei responsabili, questi non sono certamente i singoli che accettano determinati stipendi, bensì un sistema indifferente alla realtà che continua ad offrirli. Un sistema che consente sperequazioni e squilibri non più accettabili, di cui il “sì, lo voglio” è solo l’ultimo e più evidente passaggio. Rubando le parole dei The Rokes, sarà pure una «bella società fondata sulla libertà, però spiegateci perché se non pensiamo come voi ci disprezzate. Ma che colpa abbiamo noi».