Lasciare lo sport praticato non ha più lo stesso significato: a cambiare è l'atto stesso dell'andarsene.
Addio. Domani è un altro giorno. Avremo sempre Parigi.
Gli addii fanno parte della vita. Più di un punto a capo, la fine di un capitolo: cambiano i personaggi, il racconto continua. Ma se l’uscita di scena diventa più importante dello spettacolo?
«Considero il mondo per quello che è, – dice Antonio a Graziano all’inizio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare – un palcoscenico sul quale ciascuno recita la propria parte.»
Accade che nello sport un Campione debba terminare l’attività agonistica: ecco allora levarsi il tributo di gloria, il coro unanime e monocolore di ringraziamento e lode, magari qualche voce fuori tono a ricordare un eventuale gesto sopra le righe. Il servizio al telegiornale, il paginone sul quotidiano, le video-antologie. La linea temporale del commiato è sempre stata bene o male la solita: l’annuncio preveniva di qualche tempo l’evento dell’addio, il giorno deputato arrivava e, con il giro d’onore, il prefisso ex- andava a premettersi alle definizioni.
L’addio del campione era uno dei pochi episodi della carriera dove la dimensione del rapporto personale tra l’ormai ex e il suo pubblico aveva maggior rilevanza rispetto al resto, dove la dimensione di rito collettivo aveva la supremazia su qualsiasi altro elemento. Gli ultimi tempi, invece, hanno consegnato alla Storia dello sport esempi del tutto nuovi soprattutto a causa della diversa qualità del filtro mediatico imposto a questi eventi.
I casi più eclatanti riguardano due tra gli sportivi che più hanno segnato la loro epoca nelle rispettive discipline: Kobe Bryant e Usain Bolt. L’americano è il vero prototipo del grande campione che si ritira in chiave terzo millennio, molto probabilmente proprio per la sua natura statunitense: il suo abbandono del parquet è stato trasformato in una carovana errante di proporzioni – appunto – a stelle e strisce, in cui ogni apparizione del cestista è diventata un mini-evento d’addio: quale tifoso non sarebbe stato disposto ad acquistare un biglietto (più caro) per “l’ultima volta di Kobe a –riempire con nome di città-”? E tutto questo con risultati della squadra pessimi: i Lakers conclusero la regular season con 17 gare vinte e 65 perse, nonostante i 60 punti che una difesa un po’ permissiva ha lasciato segnare a Black Mamba nell’ultima estrema liturgia al suo altare. Un anno intero di interviste, dichiarazioni, battute, riferimenti all’addio tutti uguali; una ripetizione dello stesso contenuto all’infinito come è accaduto per l’uomo più veloce del mondo, uscito di scena nel modo peggiore: lightning Bolt, infortunato sugli ultimi cento metri della sua vita agonistica, dopo aver trascorso una stagione a tentare di nascondere una forma non ottimale, tanto da dover selezionare le gare a cui partecipare per evitare lo scontro diretto con le altre teste di serie del circuito.
Più vicino a noi, il lamento delle prefiche ha seguito il corteo di Francesco Totti, il cui esilio in panchina non sarebbe stato così complesso da giustificare senza un annuncio di troppo anticipato, e la risonanza nei media è stata più forte e costruita di quanto siamo stati abituati in Italia, anche per la disponibilità del personaggio ad avere un trattamento tale.
Ecco che allora vengono alla mente altri casi di addii di grandi sportivi: nel calcio, Lahm, Xavi o Puyol, per i quali il commiato è stata una questione più semplice, forse più naturale, eppure si parla di tre bandiere di grandi squadre del calcio mondiale. O come Contador, ultimo poeta della bicicletta, che ha detto addio prima di lasciare sulle strade iberiche una delle sue migliori prestazioni. Oppure ancora, tornando più indietro, si pensi a Zanetti, Maldini, Del Piero: nessuna teoria, nessuna processione interminabile, durante la quale ogni partita, ogni gara diventava una stazione della via crucis mediatica dell’addio. Niente di tutto ciò.
I casi citati, infatti, dimostrano anche che dire addio è una questione di stile. Con quale eleganza questi Capitani se ne sono usciti dai loro stadi, targa in mano e occhi lucidi? Con quale portamento un Marco Van Basten distrutto dagli infortuni ha detto basta, pur se in giacca di renna, jeans e camicia rosa?
È da decidere se si vuol essere padroni della propria figura fino in fondo o se si preferisce cedere il pound of flesh che quel grande usuraio che è lo show-biz viene a esigere al personaggio di turno come prezzo per un’uscita memorabile: un immolarsi alla sete dei media però non più giustificabile, se si parla di Sport.
Il Campione nell’ultima arena ha il diritto di chiedere qualcosa al suo pubblico, di esigere un momento dove tutto è solo per lui: “Ora, qui, non sono più io per voi, ma voi per me”. Se veramente lo sport mantiene un nucleo di pura emozione, questo non lo si trova solo nei tifosi, ma anche in chi quell’emozione l’ha generata e mantenuta. Bisogna allora, almeno nell’atto finale, essere disposti a restituire un po’ di quello che il pubblico ha preteso e che ad esso è stato regalato: senza voler mercificare anche l’ultimo afflato, senza i giri lunghi un anno di una biga mediatica con al traino un cadavere sportivo attorno alle mura di una Troia che, il mito insegna, finirà data alle fiamme.
Di fronte a un'ingiustizia che sa di sconfitta, Nibali ci insegna a perseverare nella pazienza. Invece della burrasca, il mare calmo, prima che il sole sorga.
Passato e presente dello sport in Corea del Nord, a metà tra rivoluzione e propaganda. Con particolare attenzione al calcio, lo sport più seguito ma anche quello meno vincente.