Altri Sport
14 Giugno 2018

Michael Jordan: The Last Shot venti anni dopo

L'ultimo canestro, l'ultimo gesto con cui termina l'epoca di una generazione intera. Da quel momento, da quel 14 giugno 1998, il basket non sarà più lo stesso.

14 giungo 1998, 14 giugno 2018. Fanno venti anni, tondi tondi. In mezzo ci è passato di tutto o quasi. Intanto Roberto Baggio non gioca più, ma anche Michael Jordan le sue Nike le ha appese da troppo tempo. Smise quando si era già nel nuovo millennio, Mj, ma ormai i ricordi più belli da tramandare ai posteri li avevi già scritti. Washington come ultimo sfizio, Chicago cassaforte delle vere imprese. Quando per noi l’America era ancora troppo lontana.

Nottambuli però lo eravamo già diventanti, anche se le parabole ancora non occupavano ogni singolo terrazzo italiano. Da lì arrivava Tele +, Flavio Tranquillo e Federico Buffa fieri contribuenti di una Bulls mania che aveva contagiato un po’ tutti, propagandosi a macchia rossonera. Dov’era l’Illinois? Dove c’erano Jordan, Pippen e Rodman. Era quella la geografia Usa. E dopo quel 14 giugno non sarebbe più stata la stessa.

 

 

La notte del Last Shot non si è mai persa nei ricordi. Gara 6 delle finali Nba, Bulls-Jazz come la stagione precedente. Michael Jordan è al suo ultimo atto, malgrado non lo abbia ancora annunciato ufficialmente. Potrebbe giocare ancora una partita, se la serie non finisse quella sera, ma in ogni caso si è fatto largo il più che fondato sospetto si sia davanti ai titoli di coda. Quelli veri però, perché i precedenti, lo stesso Michael aveva finito per cancellarli. Nel ’93 aveva già detto basta, salutato tutti, forse arrivato al punto più alto del suo strapotere fisico e mentale. Tre anelli di fila potevano bastare, la Lega ai propri piedi pure. A far da corredo, anche due ori olimpici. Jordan era semplicemente il migliore di una generazione ancor più dorata delle precedenti, ma in un’Nba diversa, ancora molto autarchica ma ai prodromi di una globalizzazione della quale è figlia l’attuale pallacanestro a stelle e strisce. Il decennio precedente era stato soprattutto affrescato dal gialloviola Lakers e dal biancoverde Celtics, sull’asse Los Angeles-Boston di quei Magic Johnson e Larry Bird ormai al crepuscolo. Poi era arrivato Mj a rimescolare le carte: gli anni 90 erano diventati solo roba sua, Jordan li aveva plasmati a propria immagine e somiglianza, diventando prima forte e poi anche vincente. Arrivato al titolo del 1993, poteva anche bastare così. Non fosse altro perché quel terzo alloro consecutivo segnava un’impresa che neanche Magic e Bird avevano mai centrato. E questo poteva saziare perfino la smisurata competitività dell’ormai ex baby prodigio di North Carolina.

 

 

C’era il baseball nei piani di Jordan, la volontà di poter primeggiare anche lontano dal parquet e realizzare finalmente il sogno di papà James, scomparso poco prima e col cruccio di vedere il figlio diventare il numero uno con mazza e guantone. Quasi un pegno per Michael, una mozione degli affetti impossibile da reprimere. Solo che le cose non erano andate come previsto. Sotto i suoi piedi, il diamante non aveva brillato. Vi resterà una stagione Mj, con numeri troppo normali per uno come lui, quasi dipendente dal successo e dalla voglia di superare chiunque gli si parasse davanti. In quell’habitat di lanci e battute era uno dei tanti. Forse gli avrebbe fatto addirittura meno male restare l’ultimo.

 

 

Il ritorno al basket ne era stato il naturale destino. Jordan aveva rimesso insieme i pezzi nel marzo 1995, 17 mesi dopo aver salutato. Ovviamente a Chicago, dove Phil Jackson non poteva perdersi l’occasione di ritirare su una nuova banda. Ma era sempre lo stesso Mike? La risposta gliela avevano data i playoff. Sbattuti fuori dagli Orlando Magic di Shaquille O’Neal e Penny Hardaway, i Bulls si ritrovarono a dover fare i conti con un Jordan diverso, minimamente intaccato sotto il profilo caratteriale ma estremamente lontano dai propri fasti atletici. Sarebbe servito ancora tempo. E neanche molto.

L’estate successiva, Jordan la passerà in palestra, senza darsi tregua. La serie con Orlando ne aveva esaltato insolite lacune, il lavoro doveva ripianare tutto, rimettere in simbiosi la volontà di sbrigare i momenti chiave di una partita con la capacità di riuscirvi veramente. Quando la palla a due si sarebbe rialzata, in ottobre, i bollenti mesi incollato al parquet si sarebbero rivelati preziosi. In più, Phil Jackson sapeva come riaccendere la macchina. Al ritorno a casa, Mj aveva ritrovato Pippen, ma la famiglia andava allargata. Coach Zen lo face portando Dennis Rodman da San Antonioe Randy Brown da Sacarmento. Nel frattempo, la capacità di rivoltare un match partendo dalla panchina aveva plasmato Steve Kerr e Toni Kukoč. Tutto era pronto, affinché Jordan potesse tornare re. E lo sarebbe tornato presto.

 

 

La restaurazione fu brutale, quasi troppo. Michael Jordan finì con superare non solo gli altri, ma addirittura sé stesso e quell’aurea già sufficientemente potente prima che il desiderio di dire stop lo correggesse momentaneamente al baseball. Fuori dai confini, soprattutto, Air Jordan finì con l’essere sinonimo di Nba. Nelle segrete stanze del potere si narra addirittura che qualcuno avesse cercato di riportare Magic sui campi, nel mal riuscito tentativo di ridare varietà a un prodotto ormai assoggettato all’uomo in 23.

Non solo, perché se il Mike più brillante si era forse visto nella parentesi precedente, quei Bulls arrivarono a surclassare per talento e profondità di roster la loro precedente versione, divenendo il punto fino al quale paragonare ogni squadra sarebbe venuta da lì ai vent’anni a seguire. Quel “sì, ma i Bulls…” che nell’immaginario di un trentenne di oggi batterebbero Golden State in quattro gare e al massimo avrebbero potuto lasciare le briciole alla Los Angels di Kobe e Shaq. La difesa a oltranza del passato, nonostante i confronti siano realmente impossibili. Ma per i figli dell’era Jordan il basket ormai è quasi rimasto orfano.

Sotto il segno di Mj, tutto tornò a brillare di rossonero. Nel ’96 paga dazio la Seattle di Gary Payton e Shawn Kemp, l’anno si inaugura la saga Utah Jazz e le notti iniziano a cambiare. Da una parte quello che Larry Bird aveva accostato a Dio e i suoi sodali, dall’altra quello Stockton to Malone che teneva in vita le speranze mormoni. Solo che le cose si erano messe male. Sotto 3-2 nella serie, Chicago va a Salt Lake City col rischio di abdicare. Arriva tardi, la sera precedente la gara. Cucina dell’albergo chiusa, Jordan ordina una pizza, la divora e fila al letto. Ma alle 2.00 inizia a sudare, in preda ai morsi di una febbre che lo ridurrà a uno straccio fino a un secondo dall’inizio della gara. Ma quando si toglie l’asciugamano che lo aveva avvolto per tutto il riscaldamento, gli Jazz si ritrovano davanti quello che forse è il Michael più incontenibile dell’intera carriera.

 

 

Se il 14 giugno 1998 la storia non è la stessa, per lo meno ci si avvicina. I Bulls però sono partiti male in stagione, raddrizzando le cose a Est solo in corso d’opera. Utah invece ha assaggiato così bene le Finals che punta dritto a tornarvi. Anche i playoff, dicono quanto le sorti possano essere equilibrate. In finale di Conference, Utah quasi scherza con Los Angeles e la archivia in quattro gare, dall’altra parte della cartina Chicago le deve sudare tutte le sette partite, prima di allontanare gli Indiana Pacers di Reggie Miller e Antonio Davis. Quando la serie si inchioda sul 4-3, il redde rationem tra Bulls e Jazz si allunga insieme alla sensazione possa essere anche l’ultima volta di Jordan. Questa volta definitiva. Se nel ’93 ormai pensava di essere arrivato all’apice, ora l’ha addirittura superato. Non solo gioca per il sesto anello, ma soprattutto per quel secondo three-peat in appena otto anni. Finisse in gloria, sarebbe il miglior the end mai visto fino ad allora.

 

 

Oltretutto le cose si mettono subito per il verso giusto. Sbancata Salt Lake in gara 2, le successive due vittorie al ritorno in Illinois spianano la strada verso il 3-1. Quando si scende sul parquet dello United Center per la terza volta di fila, tira aria di festa. Ma Karl Malone strappa i coriandoli. A Chicago il Postino ne imbuca 39, scherza con Dennis Rodman e ridicolizza Luc Longley. Utah rinasce proprio sul punto di morire, non basta Kukoč e neanche Michael, che il pallone della vittoria lo avrebbe comunque, a meno di un secondo dalla sirena. Errore, 3-2. Si torna al Salt Lake ed è una finale epico. Jazz e Bulls ci mettono una partita intera per rincorrersi a vicenda. Avanti l’una, poi l’altra. Poi pari, 83-83, a 53’’ dalla fine. Cestisticamente un’eternità, ma quella notte lo sarà ancora di più. Jordan ha appena messo due liberi che si è già dall’altra parte. Stockton palleggia, passa e taglia sul lato opposto. Questa volta non è lui ad andare da Malone, ma il Postino a ribaltare il campo. Tripla e Utah avanti. Rimane poco più di un’azione. Jackson chiama il più banale dei time-out. Tutti sanno dove andrà la palla, ma nessuno la può fermare. Michael riduce subito il gap in sottomano, ma gli Jezz hanno ancora un punto in più e la possibilità di pareggiare la serie. Ma Jordan vuole vincere. In post basso raddoppia Malone, gli arpiona il pallone e via dall’altra parte. Nessuno prova neanche ad avvicinarsi. The Last Shot inizia a 8.4 sul cronometro, quando Mj affonda verso la lunetta, poi sterza, torna indietro. Salta. Bryon Russell che lo marca, intanto, è già a terra. Non è un crossover, è una poesia. La meccanica di tiro rasenta la perfezione, neanche ci si giocasse una finale e il pallone pesasse chili e chili più della normale percezione umana. A 5.2 dalla fine il fruscio della retina è il frastuono più grande in Utah abbiano mai sentito. 87-86. Stockton ci riproverà, ma sarà inutile. Certo che poi Michael Jordan si ritirerà. Cos’altro avrebbe potuto fare ancora?

 

 

Il 14 giugno 1998 segna il passo, Mj effettivamente smette. Tornerà ancora, ma sarà solo bulimia da palla a spicchi. Forse è l’unico riuscito a non rovinare col rientro quel che negli occhi aveva lasciato. Anzi, lui si era addirittura superato. E per molti è ancora insuperabile.

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