Altri Sport
31 Gennaio 2023

Mickey Rourke e il pugilato come ricerca di sé stessi

La boxe come casa e libertà.

Fernando Pessoa scriveva che «ognuno di noi è più d’uno, è molti, è una prolissità di sé stesso». Ed è proprio così che si potrebbe sintetizzare la complessa parabola esistenziale di Mickey Rourke. Ragazzo di strada durante l’adolescenza, James Dean postmoderno negli anni ’80. Antidivo per antonomasia nel decennio seguente, attore caratterista nel nuovo millennio. Eternamente sospeso tra le luci della ribalta e l’oblio del sipario. Le sue continue trasformazioni – esistenziali e chirurgiche – ci testimoniano una ricerca, tanto spasmodica quanto fallimentare, del suo io più recondito. Tuttavia, è soltanto grazie alla nobile arte che Rourke (ri)scopre la sua identità. E ogni volta che indossa i guantoni è sempre una palingenesi:

«la boxe mi dà la libertà, io sul ring mi sento a casa» dice. Un legame antico e simbiotico, quello con il pugilato, che più volte ha aiutato Rourke a ritrovare la retta via.

Se dovessimo trovare un termine da associare al protagonista della nostra storia, sarebbe disagio. Perché Mickey Rourke – al secolo Philip André Rourke Jr – nel disagio ci nasce. Primo di due fratelli, viene al mondo il 16 settembre 1952 a Schenectady, una cittadina di sessantacinquemila anime nello stato di New York. Madre casalinga e padre falegname, i Rourke sembrano una delle tante famiglie statunitensi che dignitosamente si arrabattano inseguendo il sogno americano. Poi qualcosa si rompe: Mickey non fa in tempo ad incominciare le scuole elementari che il padre abbandona moglie e figli.

La mancanza della figura paterna fa piombare il piccolo Rourke in una spirale di malessere ed insicurezza, acuite dall’ingresso in famiglia del nuovo compagno della madre Annette: Eugene Addis, poliziotto di Miami. Ed è proprio lì, nel quartiere Liberty City, che il rimaneggiato nucleo famigliare si trasferisce. Per Mickey è un salto nel vuoto. Sradicato dal placido luogo di origine, il ragazzo è ora costretto a crescere in fretta: in un sobborgo difficile e a maggioranza nera, lui che è tra i pochi bianchi della scuola, deve imparare a difendersi dalle angherie dei compagni.

Soprattutto, deve sopportare gli abusi del patrigno. Addis ha problemi con l’alcool e perde facilmente le staffe: a farne le spese sono sempre Rourke e l’amato fratello Joey. Non potendo nulla contro le percosse del compagno della madre, il suo malessere esistenziale si traduce sulla strada, tra una rissa e l’altra.

Finché un compagno di scuola, Jimmy Rizzo, non gli mostra un sacco da boxe che tiene nel giardino di casa.

La sua attenzione è rapita da quell’oggetto cilindrico. È la sua salvezza: «presto capii che andare in palestra sarebbe stata la cosa migliore per evitare guai con la legge». Così, attratto dal senso di sfida intrinseco alla nobile arte, decide di mettere alla prova sé stesso. Iscrittosi alla Boys Club – palestra di Miami – vi apprende in fretta i fondamentali, trovando finalmente il modo di sublimare l’avversione nei confronti di Addis. Tuttavia, Mickey non è come i tanti ragazzini iscritti alla struttura.

Lui è un talento in potenza: a discapito dell’età – 12 anni – ha un’ottima struttura fisica, buoni colpi e rapidità nelle gambe. Ma soprattutto ha la fame di chi viene dalla strada. E gli allenatori della Boys Club se ne accorgono, tant’è che decidono di farlo salire sul quadrato. André – si fa chiamare così – esordisce nella categoria dei pesi gallo contro il coetaneo Javier Villanueva. Al suono della campana l’esito della sfida è scontato: Rourke ha la meglio. È il primo, vittorioso atto di un fulgido percorso nella boxe amatoriale.


Il boxe come rinascita e “seconda occasione” esistenziale: qualcosa di già visto, nel Belpaese, con l’esperienza di Pino Leto alla Vucciria.


Il nome di Mickey inizia a circolare tra gli addetti ai lavori e le sue indubbie doti gli schiudono le porte della 5th Street Gym, la celebre palestra di South Beach. Così, tra un allenamento e l’altro a fianco di Muhammad Ali e Jimmy Ellis, la carriera di Mickey prende il volo: tra il 1964 e il 1973 vince ventisette incontri – di cui 17 knockout – dei trenta combattuti, venendo sconfitto soltanto tre volte. Débâcles, tra l’altro, figlie di comportamenti antisportivi, non certo per carenze tecniche.

Insomma, numeri niente male che, già nel 1969, spingono i maestri della palestra ad assurgere Rourke al ruolo di sparring partner del popolare pugile cubano Luis Rodríguez, uno che aveva vagheggiato di sfilare la cintura dei pesi medi a Nino Benvenuti. Ma quando l’approdo al professionismo pare ormai ad un passo, complici un paio di infortuni – veri o presunti – Mickey si allontana dai ring. Non scordiamoci che Rourke è un irregolare, un romantico che agisce d’impulso. La vita metodica dell’atleta non gli si addice. A lui interessa piuttosto capire fin dove può spingersi per sfidare i propri limiti e conoscersi.

Abbandonato dunque il pugilato e senza un diploma in tasca, svolge alcuni lavoretti saltuari per sbarcare il lunario. Finché non arriva la recitazione. Dopo aver preso casualmente parte ad una pièce universitaria, capisce che vuole fare l’attore e con i soldi prestatigli dalla sorella vola a New York e si iscrive all’Actors Studio. Come nella boxe, anche nel campo della recitazione Mickey denota grande talento e ben presto inizia a farsi largo tra i colleghi. Dopo aver interpretato alcuni personaggi minori in svariati film e quando ormai sembra sul punto di lasciare perfino il cinema, nel 1983 arriva la grande chiamata: Francis Ford Coppola lo vuole – nei panni del coprotagonista – in ‘’Rusty il selvaggio’’.

La carriera dell’ex pugile di Miami decolla. Tre anni più tardi, con il successo di ‘’9 settimane e 1/2’’, è una star internazionale. Nel 1987 la critica lo elogia per le sue interpretazioni in ‘’Barfly – Moscone da bar’’ e in ‘’Angel Heart’’. Mickey, ricorrendo ad un’espressione cara agli americani, ha raggiunto l’apice del suo gioco: lavora per Coppola e Cimino, è tra gli interpreti più richiesti e Adrian Lyne – che lo diresse nel succitato ‘’9 settimane e 1/2’’ – anni dopo dirà che “se fosse morto dopo Angel Heart, sarebbe stato ricordato come un James Dean o un Marlon Brando“.

Una bella intervista di Bonolis a Rourke di qualche anno fa

Tuttavia, Rourke fa di tutto per rifuggire dall’etichetta di divo che gli è stata cucita addosso. Tinseltown e le sue dinamiche gli stanno strette, «è tutto finto» dice. Boicotta ruoli in pellicole di spessore e si rende insopportabile sui set; si parla di lui più per la burrascosa relazione con la bellissima Carré Otis e lo sfoggio di amicizie pericolose che per i film in uscita. In più si rifugia in un tunnel di alcool e droghe che ne minano la reputazione. Hollywood gli volta le spalle e lui non fa che suffragare questa tendenza. Ma quando sembra scivolare inesorabilmente verso il baratro, allunga la mano verso un solido appiglio al quale già si era aggrappato: la boxe.

«Cercavo delle risposte, solo il ring con le sue regole poteva tornare a darmele».

E infatti è subito una catarsi. Tornato in palestra Mickey Rourke si desta, riscoprendo quella disciplina e quel rigore che gli erano mancati negli anni precedenti. È il 1991 e questa volta, complice la sua notorietà, scala l’ultimo gradino del cursus honorum pugilistico: passa al professionismo. In tre anni, disputa 8 incontri in giro per il globo portando a casa 6 vittorie e due pareggi. Combatte come massimo leggero contro avversari che, più che pugili, sono figuranti di bassa lega. Ma a Rourke poco importa di quel circo mediatico – in cui è protagonista assoluto – poiché guadagna, fa guadagnare e soprattutto ritrova sé stesso.

A 43 anni, ottenuta maggiore stabilità, appende i guantoni al chiodo. Consapevole delle sue doti attoriali, tenta dunque di rientrare nel mondo del cinema. Prima, però, si sottopone a interventi chirurgici volti a rispristinare l’antica bellezza, ormai compromessa dai pugni incassati. Sebbene gli esiti delle operazioni stravolgano i lineamenti di Rourke, Hollywood gli apre nuovamente le porte e sul finire degli anni ’90 si rimette in carreggiata interpretando ruoli minori.

La rinascita professionale scocca negli anni Duemila per merito di Robert Rodríguez che lo scrittura in ‘’Once Upon a Time in Mexico’’ prima e in ‘’Sin City’’ poi. Ma se il volto deturpato dalla chirurgia sembra relegarlo – nonostante il plauso della critica – al ruolo di caratterista, è con il fortunato ‘’The Wrestler’’ (2008) di Darren Aronofsky che ritorna protagonista. Nei panni di un lottatore alle prese con un’esistenza travagliata, non può che rispecchiarsi. È la sua interpretazione più personale. Più di una volta la vita ha tentato di mettere al tappeto Rourke, senza riuscirvi. E oggi Mickey, che ha 70 anni suonati ed è risorto nel segno del pugilato, continua a combattere «thougher than the rest», come canta il suo amico Springsteen. Più duro degli altri, più forte di tutto.


L’autore ringrazia l’articolo di riferimento che lo ha avvicinato a Mickey Rourke: Mickey Rourke, mezzo divo mezzo pugile, di Lorenzo Longagnani (I Fiori del Male).

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