Il momento negativo del Milan rispecchia l'incapacità gestionale della sua dirigenza.
Idee, talenti e Maldini nuovo Direttore Tecnico. Ecco il riassunto del Milan 2019/2020 disegnato da Ivan Gazidis in una lunga intervista – con zero contraddittorio – sulla Gazzetta dello Sport il 29 maggio 2019 all’indomani della mancata qualificazione in Champions League da parte dei rossoneri diretti da Gattuso. Belle parole diventate fatti? No, visto l’esonero di Giampaolo e l’avvio di Pioli. Sorpresi? In tanti si, ma chi capisce di pallone non può essere meravigliato da questo avvio “luccicante” del Milan. 12 partite, 7 sconfitte, 13 punti e un rendimento più da medio bassa classifica che da zona Champions.
IDEE E BASI SOLIDE
Eppure, i proclami – farneticanti – della rovente estate 2019 erano tutti in una sola direzione: qualificazione all’edizione 2020/21 della Champions League. Quante volte è stato ascoltato il refrain durante luglio ed agosto “Siamo arrivati a 10 minuti dalla Champions, da qui si riparte!”. Un tempo questa serie di proclama era appannaggio dell’altra sponda del Naviglio, come cambiano i tempi. Il menù del Milan post Gattuso? Gioventù al potere e un tecnico votato al calcio offensivo sulla plancia di comando: Marco Giampaolo. Un maestro di calcio, prima ancora che buon allenatore. Con queste stigmate, il 17 giugno 2019, il mondo mass mediatico rossonero accoglie l’ex Treviso, Ascoli, Cagliari, Catania, Siena, Cremonese e Sampdoria.
Inizia l’era del calcio bailado made in Giampy. La scelta ha una logica ben precisa. Soldi per fare mercato sono pochi? Yes sir! C’è aria di smobilitazione generale e bisogno di valorizzare i pochi asset – giovani – preziosi in rosa? Obviously madame. Fatto 2+2 in via Aldo Rossi hanno pensato “Giampaolo è l’uomo giusto nel posto giusto”. Cantonata pazzescadi Maldini, Gazidis & co. Nel calcio, come nella vita, 2+2 può dare anche 5, come ci ricorda Orwell in quel capolavoro intitolato 1984 o Thom Yorke con i Radiohead nel disco Hail To The Thief.
Gioventù al potere e un tecnico votato al calcio offensivo sulla plancia di comando: Marco Giampaolo. Un maestro di calcio, prima ancora che buon allenatore.
Certo, chi lo nega, alla Samp l’ottimo Marco dimostra di saperci fare con gente del calibro di Torreira, Schick, Praet, Andersen. Tutti calciatori molto giovani comprati a pochi spicci dall’ottimo, seppure molto contraddittorio, Riccardo Pecini capo scout della Sampdoria dal 2014 al 2018, e rivenduti poi a tantissime palanche. Proprio la strategia sognata dalla famiglia Singer per il nuovo corso rossonero. Giocatori esperti? Chi ne ha bisogno! Sono costosi e difficilmente rivendibili.
Meglio affidarsi a giovani di belle speranze e che Dio ce la mandi buona. Proprio questa strategia, delineata negli ultimi mesi del 2018 fa storcere il naso a Gattuso. Le dimissioni più o meno consensuali del giugno 2019 sorprendono poco: è tempo di duro realismo nei corridoi di Carnago.
Lontani i tempi di Ibrahimovic o altri campioni arrivati a Milanello durante i famigerati Giorni del Condor. Ora le parole d’ordine della nouvelle vague sono due: programmazione e gioventù. I modelli? Borussia Dortmund e Lille. Per il tifoso milanista con un po’ più di memoria rispetto la media, le stesse parole che amava ripetere – anche in quel caso senza nessun contradditorio – Barbara Berlusconi. Era Milan delle due teste e dei tre padroni del quadriennio 2013-2017. Gli obiettivi di quel periodo? Come oggi, terzo posto e fare più strada possibile nella Coppa Nazionale.
Tutto bello, per non dire bellissimo. Sulla carta. In un Milan stremato da 8 anni di lampante improvvisazione tecnica e manageriale, però, forse, c’era bisogno in fase di costruzione della squadra di un pizzico di concretezza in più. Rendere reale il modello “ingaggio giovani in massa e mi qualifico nell’Europa che conta” può funzionare su Football Manager o in qualche realtà di lingua anglofona, spesso non calcistica. Non di certo in Italia dove, in nove casi su dieci, sono mazzate volanti da ogni lato del quadrato: tecnico, mediatico, tifo ed economico.
Ora le parole d’ordine della nouvelle vague sono due: programmazione e gioventù. I modelli? Borussia Dortmund e Lille.
Il “The Process” alla Philadelfia 76ers o l’Arsenal del triennio 2007-2010 è impensabile da trasportare nel football tricolore. Qui bisogna vincere. Subito. La mentalità del tifoso medio calcistico – impaziente per natura – non concepisce il piacere dell’attesa. In una piazza come quella rossonera, poi, per colpa della storia post-moderna degli ultimi 30 anni, serve un plus: vincere giocando bene perché come ha scritto Sacchi nelle sacre tavole lasciate in eredità a Milanello nel 1991
“chi vince giocando bene, vince due volte”.
MILAN 2019 PARTE II, ODISSEA A MILANELLO
Abbinare bel calcio e risultati in piazze come Juventus, Inter o il Milan stesso è oramai impossibile. In un mondo – e qui prendiamo in prestito il sociologo polacco Zygmunt Bauman – che va sempre più verso l’istantaneità dei sentimenti, anche il calcio e il Milan si adeguano. Gli innamoramenti per l’allenatore di turno sono brevi e fugaci, quasi mai intensi. Il pragmatismo prima di tutto e qui risiede il primo degli innumerevoli errori societari di questi mesi. A Milanello e in via Aldo Rossi il tempo per lavorare su concetti e visioni di calcio non c’è. Allora perché Giampaolo?
Migliorare la qualità discreta di un roster mal assortito è il compito del tecnico abruzzese. Abbaglio (non) clamoroso. In giro per il mondo, solo un allenatore rientra in questa categoria e risponde al nome di Antonio Conte: anche Tonino da Lecce è un discepolo di Sacchi, oltre che di Lippi, ma a differenza del mago di Fusignano ha imparato ad essere flessibile tatticamente e comprendere le ritmiche temporali di un fu grande club.
Giampaolo è sembrato fin da subito un impositore, più che un propositore. O con lui o contro di lui.
Persino Sacchi e Sarri, nel loro fondamentalismo, sono sempre stati dei gestori di esseri umani, prima ancora che ottimi teorici e pratici sul campo. Gestire plasticamente una squadra come Milan, Juventus o Napoli implica comprendere con sensibilità gli ambienti che i calciatori vivono, ed i momenti in cui devono essere guidati o lasciati liberi sul campo.
In questo Giampaolo è sembrato fin da subito un impositore, più che un propositore. O con lui o contro di lui. Una sorta di kamikaze pronta ad esplodere o implodere sulla stagione del Milan, mantenendosi sempre fedele a sé stesso. Emblematica, in questo senso, la gestione di Paquetà, uno – in teoria – dei talenti più succosi a disposizione. “Un po’ troppo brasiliano” per i gusti dell’ex nocchiero milanista. Critica non troppo apprezzata dall’ex numero 8 del Flamengo, che fin da subito è parso remare contro il suo nuovo allenatore: niente di strano, canterebbe Giorgio Poi.
L’elasticità, nel credo calcistico di Giampaolo, non è contemplata. C’è da sorridere quando qualche cronista interno o vicino alla società sibila che il calcio è tutto meno che simmetrie e geometrie. Chi mette in dubbio questa filosofia destabilizza fin da subito l’uomo Giampaolo, uno tendente ai purismi, rispetto ai classici doppiogiochismi mediatici da grande piazza. Giampaolo è un puro nel modo di interpretare il calcio. Per certi versi simile alla visione artistica di Mondrian più che a quella di Dalì.
Nelle campiture di colore all’interno di quelle linee perpendicolari orizzontali o verticali, c’è la ricerca costante di formale perfezione del pittore olandese. Lo stesso si può dire per il Giampaolismo dove le linee di passaggio e gli spazi da occupare sul campo sono organizzati al centimetro, con consegne maniacali da rispettare per ogni giocatore. Ecco, nulla a che vedere con il casino organizzato della terza Juventus allegriana, che ha fruttato il solito doblete in Italia nel 2017 oppure con il pragmatismo bonario del suo predecessore Rino Gattuso.
Giampaolo è un puro nel modo di interpretare il calcio. Per certi versi simile alla visione artistica di Mondrian più che a quella di Dalì.
La spacconata di Giampaolo in sede di presentazione “testa alta e giocare a calcio”, più che un manifesto programmatico, è la risposta superlogica di uno specialista del mondo del pallone. Sa di avere poco tempo per conquistare l’ambiente Milan ed ha bisogno di slogan di forte impatto emozionale per avvicinarsi ad una dirigenza di palati fini e vincenti. Soprattutto se le idee e i valori che vuole trasmettere alla squadra sono difficilmente applicabili nel momento storico rossonero.
Associarsi ad una realtà come il Milan è complicato. In questo senso si può capire la marcia indietro sul 4-3-1-2 immediata del mister di Giulianova a caldo contro l’Udinese, per abbracciare un 4-3-3 più morbido e confacente alle esigenze dei giocatori in rosa. L’ex coach della Sampdoria ama giocare in maniera associativa. Che cosa vuole dire? È un fondamentalista dei numeri e chiede ai suoi ragazzi alcuni concetti non semplici. In fase difensiva, accorciare in avanti il campo senza aspettare gli avversari e in fase offensiva ricercare costantemente la verticalità e mai il fraseggio onanistico.
Lo stesso si può dire per il Giampaolismo dove le linee di passaggio e gli spazi da occupare sul campo sono organizzati al centimetro, con consegne maniacali da rispettare per ogni giocatore.
È un tecnico che ama il calcio fatto di possesso e verticalizzazioni continue, a uno o due tocchi massimo. A suoi chiede di pensare finché giocano: frase all’apparenza banale, ma nemmeno più di tanto considerando come sono stati vinti gli ultimi scudetti in Italia. Grandissimo teorico e pratico di un pressing compatto e votato alla pressione e riconquista del pallone nella metà campo difensiva avversaria, con Giampaolo si è provato ad andare in un livello di comprensione del gioco differente rispetto agli standard più sobri, ma comunque rispettabili, di Gattuso. Risultato? Esonero dopo 7 giornate e fine delle trasmissioni.
UNA STAGIONE BUTTATA NEL CESTINO (PRIMA ANCORA DI INIZIARLA)
Fuori dai denti? La scelta di Giampaolo è una toppa clamorosa di Maldini. Ok fidarsi di Sacchi, ma solo se poi il mister abruzzese si tutela al 100%, mossa quest’ultima non compiuta dallo staff dirigenziale. Il nativo di Giulianova ci ha messo del suo poi, ma era da mettere in preventivo. Facendo paralleli con l’altra realtà milanese, è andato in panne proprio come Gasperini nel 2011/2012 o Frank de Boer nel 2016/2017.
Sorge spontanea una domanda allora: come è possibile che Maldini, Gazidis, Boban e Massara, tutti enormi conoscitori di calcio e di ciò che circonda il mondo Milan, non sapessero che tipo di coach si stavano mettendo in casa? Al netto della narrativa piena di retorica al miele sul Giampaolo-maestro-di-calcio (con annesso neologismo scritto sopra), il quadrumvirato non era a conoscenza delle asperità caratteriali del mister abruzzese e della totale fede da corrispondergli nei primi ed inevitabili momenti di difficoltà? Verrebbe da dire no, tant’è vero che le bordate – per mezzo stampa – di Boban arrivano fin dal post gara contro l’Udinese. 26 agosto 2019, prima giornata di campionato. Il resto è storia nota.
Come è possibile che Maldini, Gazidis, Boban e Massara, tutti enormi conoscitori di calcio e di ciò che circonda il mondo Milan, non sapessero che tipo di coach si stavano mettendo in casa?
Secondo capo d’accusa da imputare alla società. La conduzione di un mercato estemporaneo, impantanato tra FFP finanziario da rispettare e un rosso in bilancio – notizia di questi giorni – di 146 milioni di euro che ha portato all’esclusione rossonera dall’Europa League nel giugno scorso. Se a questo scenario al dir poco apocalittico si aggiunge la mancata cessione di alcune risorse di supposto pregio tecnico come Suso o Kessie, les jeux son fait.
Il mercato vive di viaggi ad Ibiza (Theo Hernandez 22,5 milioni di euro), imposizioni americane su dritta dell’ascoltatissimo responsabile degli scout rossoneri Rafael Moncada (il suo omonimo Leao quasi 30 cucuzze), seconde o terze scelte (Bennacer 17 milioni) e un sottobosco variegato di improbabili come Krunic (8), Duarte (11) e Rebic (5 milioni di prestito oneroso + 25 di diritto di riscatto sul bilancio 2019).
Secondo capo d’accusa da imputare alla società. La conduzione di un mercato estemporaneo.
Solo per quest’ultimi tre citati, la bilancia commerciale segna nella nota spese 24 milioni di euro. Non bruscolini, per un Milan che spende complessivamente 102 milioni di euro nella sola sessione estiva e ne incassa appena 35 (fonte Transfermarkt) la maggior parte proveniente dalla cessione di Patrick Cutrone ai Wolves. Il tutto senza comprare un terzino destro tale da essere chiamato tale (parziale scusante? Nel ruolo – di forti – ce ne sono pochi in circolazione, c’è da riconoscerlo), un centrocampista alla Matic, tanto per intendersi, in grado di mettere fisico e geometrie a disposizione dei compagni e una punta da 15 gol stante le probabili difficoltà di Piatek.
SINGOLI: I (NON) CURIOSI CASI DI REBIC E SUSO
Proprio Rebic è l’emblema di una certa casualità in fase di scelte. Dopo aver dato la caccia tutta l’estate ad Angelito Correa, seconda punta all’occorrenza ala dell’Atletico Madrid, a tre giorni dalla chiusura del mercato, Boban-Maldini-Massara virano sul tuttofare offensivo dell’Eintracht Francoforte e della Nazionale croata. Un atleta generoso, ma tecnicamente rivedibile, con un gioco fatto di corsa e quantità che c’azzecca ben poco con la richiesta di un trequartista, all’occorrenza seconda punta, fatta da Giampaolo ancora a fine giugno.
L’arrivo di Rebic è una gallianata da monarchia stanca e decadente, e che ora si paga cara, visto che il ruolo preferito del croato è l’ala destra in un attacco a 3. La stessa zolla di terreno dove pascola solitamente Suso, uno dei tre giocatori più tecnici in rosa.
Sull’8 andaluso si potrebbero scrivere di ogni. Per tutta l’estate è stato coccolato e viziato da Giampaolo, che sperava di ottenere dallo spagnolo lo stesso rendimento di Gianluca Caprari, ex ala sinistra con il vizio del gol – scuola Roma – riciclato sulla trequarti splendidamente nell’ultimo anno e mezzo alla Sampdoria. Uomo ottimista l’abruzzese. Suso, dopo i primi anni di carriera in costante pellegrinaggio tra centro e fascia, prima con Rodgers – all’epoca coach del Liverpool – e poi con Inzaghi e Gasperini, trova il suo karma territoriale nella fascia destra d’attacco.
Un’ala come quelle che vanno di moda oggi, pronte ad entrare in campo per tirare dalla distanza o a giro. Tanti novelli Arjen Robben alla mercé del mister di turno in grado di utilizzarli. Peccato che talenti come il nativo di Groningen ne nascano uno ogni 40 anni. Nel caso di Suso siamo di fronte ad un buon giocatore, ma non dominante come l’olandese.
Il duo Boban-Maldini lo mette sul mercato. 30 milioni per le casse di Via Aldo Rosso fanno comodo, ma c’è un inghippo all’orizzonte. Nelle amichevoli precampionato il gaditano mostra sprazzi di buon calcio, tanto da convincere Giampaolo a dichiararlo incedibile e soprattutto centrale nel suo progetto tattico. La Società segue – per l’unica volta in 113 giorni – il diktat del mister e riesce nell’impresa di compiere l’errore chiave della stagione. Lo spagnolo appena le cose diventano serie si scioglie come neve al sole.
Nel caso di Suso siamo di fronte ad un buon giocatore, ma non dominante come l’olandese.
Dopo la prima sconfitta contro l’Udinese viene rimesso sulla fascia, ma è una costrizione tattica in piena regola per Giampaolo. Un all in dal sapore di vicolo cieco, con l’unico obiettivo di mettere a proprio agio uno dei presunti talenti a disposizione in rosa e non perdere la faccia. Suso è la pietra filosofale di questo Milan: arrogante con i più deboli e zerbino con i potenti, prendendo spunto da Frank Hi-Nrg. Decisivo con le piccole, minuscolo con le big.
Rimesso nella sua zolla di terra preferita, Suso non decolla e il Milan stenta. Il gol contro la Spal, che vale tre punti, è solo un brodino caldo di poco effetto su un malato con più di 40 di febbre. I fischi sono sacrosanti, l’atmosfera si surriscalda intorno a lui, viste le prestazioni inconcludenti del leader tecnico supremo dell’equipo. Da centro di gravità permanente all’ultimo degli stronzi, in un vortice da zero a dieci con lode e senza ritorno, al momento. Simbolo del degrado in cui avversa questo Milan decadente.
IL NUOVO CHE AVANZA
L’arrivo di Pioli è difficile da commentare. Una scelta, al netto di qualsiasi critica possibile da fare nei confronti di Giampaolo, veramente insensata. Gli elementi intravisti nelle partite dirette dall’ex mister viola sono talmente risibili e labili che non fanno altro che suffragare la tesi che affiora dalla classifica: 4 punti in 5 gare, 13 totali in 12 partite. Rovine da basso Impero Romano d’Occidente.
Dopo l’epica del Giampaolismo, ecco il Normalizzatore. Definizione subito smentita da Pioli stesso, autoproclamatosi “il potenziatore”. Il recupero del WM, la difesa a 3 e mezzo, i tagli delle mezz’ali, fino ad arrivare al revivalismo natalizio del 4-3-2-1: anche con Pioli slogan e definizioni si sprecano. Parole, parole ed ancora parole. Felicità per chi segue il Milan per lavoro, profonda depressione per i tifosi innamorati dei colori rossoneri.
L’arrivo di Pioli è difficile da commentare. Una scelta, al netto di qualsiasi critica possibile da fare nei confronti di Giampaolo, veramente insensata.
In questi primi vagiti di Pioli si nota una squadra psicologicamente debole. Nessuna novità al riguardo. Il gol di Calderoni, al debutto, è stato fin da subito la pietra tombale a qualsiasi ambizione di ripartenza milanista. La doppia sconfitta contro Roma e Lazio, intervallata dai 3 punti casalinghi singhiozzanti e lacrimanti contro la Spal, è la cartina tornasole di un gruppo senza i cosiddetti attributi cubici che si devono avere in dotazione quando indossi la maglia del Milan. La sconfitta contro la Juventus era già messa in preventivo nell’ambiente rossonero.
Tattica e tecnica entrano poco in questo specifico quadro: è solo esclusivamente una questione di testa. Pioli poi ci mette del suo, con indecisioni sulle scelte – Piatek o Leao? Leao o Piatek? solo per restare al centro dell’attacco – e mancanza di alternative credibili in alcuni ruoli chiave, soprattutto in difesa. Unico raggio, tenue, di sole, il rendimento di Theo Hernandez.
L’ex Real Madrid, in un contesto di barbaria tecnica, rara sta dimostrando di valere tutti i soldi spesi e soprattutto di essere un giocatore formidabile sulla sinistra nelle progressioni offensive palla al piede. Persino da Milan dell’ancien regime. Appena sufficiente, sino alla gara con la Roma, l’apporto di Rafael Leao, punta portoghese tutta da smerigliare e lucidare in un contesto meno caotico rispetto quello rossonero.
C’è da lavorare seriamente se si vuole rimettere il Milan nella parte sinistra della classifica. Sembra una burla, ma i prossimi match contro Napoli, Parma, Bologna e Sassuolo saranno cruciali. Per comprendere se questo Mian pieno di cicatrici e malmesso può risalire la corrente oppure per iniziare a mettersi l’elmetto (se sono in grado) e lottare per i bassifondi della classifica. Con buona pace dei benpensanti e cronisti prezzolati al seguito della squadra.
MILAN 2019 PARTE I: LA GRANDE OCCASIONE, PERSA
La verità, al netto di ogni possibile perbenismo, è la modestia della rosa rossonera. Il 2018/2019 è stato un anno particolare per tanti motivi. Come prima cosa, la soglia punti per la zona Champions, mai stata così bassa dal 2013, anno guarda caso in cui il Milan acciuffa il terzo posto ai danni della Viola in quel di Siena. Secondo campo d’analisi, direttamente collegato al primo punto: il livello tecnico-tattico del campionato ha permesso a squadre come il Milan di Gattuso di potersela giocare fino in fondo per traguardi anomali rispetto al valore reale del gruppo.
Grande parte dei motivi sono da ricercare nella debacle delle romane, divorate tra faide interne per i giallorossi e concentrazione massima sulla Coppa Italia per gli Inzaghi boys. Terzo punto, l’immaturità rossonera nel portare a casa i tre punti in partite chiave come il 2-2 casalingo contro l’Atalanta nel girone d’andata e il sanguinolento 1-1 di Parma nel ritorno. 4 punti in più avrebbero significato musichetta. 4 punti frutto di immaturità, ma che hanno portato una cecità in fase di mercato veramente deleteria.
Dettagli tutt’altro che banali. Al Milan l’unica certezza di questi anni è solo l’instabilità gestionale che sta divorando pasito a pasito il fu club più titolato al mondo. E allora scusali Marco e perdonali Rino, la colpa non è sicuramente (tutta) vostra di questo scempio.
Conclusione necessaria. Sono tifoso rossonero, ma non per questo privo di oggettività e senso critico nell’analisi della situazione. Quella che avete letto spero sia un’osservazione il più possibile approfondita e lucida dello sprofondo rossonero di questo 2019. Il fu club più titolato al mondo è diventato nel giro di 8 anni un Conte Mascetti qualsiasi in bilico tra un passato nobiliare, un presente di supercazzole prematurate e un futuro pieno di ombre e stenti. La gestione tecnica e mediatica del Milan dal 1994 ad oggi, meriterebbe poi la stesura di un romanzo. Questa però, è un’altra storia.
Dopo cinque giorni di ricatti, il fine settimana diventa una terra selvaggia in cui il singolo può finalmente rifugiarsi. Insomma per Junger era il bosco, per noi il calcio del sabato e della domenica