Almeno ad oggi, almeno in Serie A.
Dopo tutti gli episodi di ieri sera all’Olimpico, culminati con le parole di Mourinho a caldo «non fatemi parlare sennò la prossima in panchina non ci vado», diventa difficile essere lucidi e analizzare i reali rapporti di forza in campo. Perché volenti o nolenti rimane negli occhi, e nella mente, l’inquietante direzione di gara di Maresca, un arbitro già la cui designazione per un big match di Serie A equivale un po’ al terzo segreto di Fatima. Cerchiamo però di andare oltre. Sì perché al di là del fischietto di Napoli (neanche rimandato ma direttamente bocciato e senza appello), e al di là della comprensibile reazione di Mourinho e dei tifosi romanisti, c’è stata una partita in cui il Milan ha dimostrato ancora una volta di essere – al momento – la migliore squadra italiana.
Inutile girarci intorno: nel primo tempo, davanti ai 50mila dell’Olimpico, i rossoneri hanno imposto e dominato il gioco; fraseggiando con grande sicurezza, scambiandosi i ruoli, attaccando l’area di rigore in cinque e pressando sempre alti, togliendo fiato e palleggio alla Roma; quest’ultima ha reagito come ha potuto, con un paio di occasioni più di strappo che di ripartenza, estemporanee a confronto della perfetta orchestra rossonera. Nella sinfonia milanista infatti – in cui il risultato finale è molto, ma molto di più della somma degli strumenti, e in cui ciascuno sembra sempre sapere cosa fare (e ha costantemente più opzioni) – anche il valore dei singoli viene esaltato.
Ibrahimovic punisce ancora i giallorossi, ormai vittime preferite, e forse aveva già segnato nel momento stesso in cui era sceso in campo; Simon Kjaer, versione Cannavaro Germania 2006, erige un muro che a confronto quello di Berlino è una barzelletta. E poi tutti gli altri, responsabilizzati e apparentemente esaltati, sempre alla ricerca della giocata più difficile, del movimento più ambizioso, del passaggio meno scontato. Insomma il Milan sembra un meccanismo perfetto. È vivo, innovativo, gioca e vola sulle ali dell’entusiasmo, spinto dallo spirito calcistico del tempo.
È come se durante il football pandemico i rossoneri si fossero liberati e avessero accumulato certezze, riuscendo a sviluppare un carattere e una sfrontatezza che ormai prescinde dal peso del pubblico – tanto di quello di San Siro quanto di quello avversario. In questo processo Pioli è stato fenomenale, e forse ha stupito addirittura se stesso. È stato capace, come solo pochi sono in grado di fare, di leggere e anticipare le tendenze; di capire dove “stesse andando” il calcio contemporaneo, di non essere investito dall’onda acceleratrice della pandemia né di governarla, ma proprio di cavalcarla. E così, nel momento in cui la sua gestione venne preferita all’innovazione Rangnick (Stefano deve ancora ringraziare il suo santo in paradiso, ovvero Ibrahimovic), quella di confermarlo non fu una scelta di retroguardia bensì di avanguardia. A posteriori parlando.
“Pioli, che la «stampa bue» voleva sacrificare sull’altare del «professor» Rangnick, ha creato un’orchestra gradevole ed efficace, aggettivi che non sempre vanno a letto assieme”.
Così scrive il maestro Beccantini, e come dargli torto, che poi prosegue: «la differenza (ieri sera, ndr) era abissale. Di gioco, di velocità, di nervi saldi». La Roma mourinhana, torniamo a ripetere, ha cucinato con quel che aveva: poco, anche tra quei famosi 11 che secondo la narrazione ufficiale – di allenatore e media – sarebbero al livello dei migliori. Davanti in particolar modo i giallorossi faticano terribilmente, tra un Abraham la cui operazione simpatia sta pian piano lasciando spazio a prestazioni impalpabili, soprattutto con le grandi, e un Mkhytarian che, a guardare bene, in versione halloween ci sta già da tempo – sarà anche per la differenza di stile di gioco tra Fonseca e Mourinho, come sentenzia Di Canio: con il primo sempre nel vivo del gioco sulla trequarti, con il secondo costretto ad allargare, ad allungare e quindi a cedere.
Risultato: una Roma indiscutibilmente inferiore, appesa a Pellegrini in prima battuta o a Zaniolo in seconda, squadra nel carattere e nella predisposizione ma non nelle trame, a differenza degli avversari. Per un tempo e forse un’ora, con un Milan a tratti in versione Bergamo e prima che intervenisse Maresca a fare un gran casino, è stato questo il verdetto: i picchi di gioco del Diavolo, ad oggi, sono probabilmente quelli dell’intera Serie A. E però… c’è un però, perché in Italia sembra tutto fin troppo semplice. Si ripete a destra e a manca che il Milan è la più “europea” delle squadre, e probabilmente è vero, prendendo per buona un’etichetta molto vaga e problematica. Fatto sta che, malgrado le grandi prestazioni, in Europa i rossoneri non decollano (per usare un eufemismo).
L’impressione è quindi che il Belpaese sia la periferia del grande impero europeo, un luogo in cui una gran bella sinfonia come quella rossonera viene scambiata troppo facilmente per l’Inno alla gioia di Beethoven.
Si perché quando si mette peso e intensità nelle partite, ed è sufficiente per farlo anche un Porto, la musica cambia: passino le assenze, ma in terra lusitana ad esempio il Milan è stato proprio surclassato dal punto di vista fisico, del ritmo di gara, e anche caratteriale, cosa che qui da noi probabilmente non capiterebbe nemmeno con dieci/undicesimi fuori causa. Allora a volte, negli interminabili post-partita, c’è quasi l’impressione che parlando del Milan si faccia lo stesso errore di quell’architetto che aveva progettato una splendida biblioteca, costruzione perfetta, la quale però ogni anno sprofondava di 1 cm nel suolo. Non aveva calcolato il peso, il peso dei libri.
Ecco, in una Serie A mai così leggera e povera di idee, noi abbiamo dimenticato il peso. Crediamo che la competizione al vertice significhi competitività, che basti giocare da “squadra europea” per diventarlo davvero. Sia chiaro, questo non sminuisce gli enormi meriti e il percorso di crescita del Milan, della società e di Pioli: parliamo di quella che ad oggi è la squadra più contemporanea e innovativa del nostro campionato, quella con più idee e più coraggio; probabilmente, ora come ora, della migliore squadra italiana.
Eppure dopo averla vista strapazzare per un’ora fuori casa la Roma (tre anni fa semifinalista di Champions) e con tutto il rispetto per il percorso straordinario, per i giovani che hanno tempo di crescere sui palcoscenici internazionali, per Calabria, Bennacer e Ibra 40enne, non riusciamo ad abbandonarci al solo entusiasmo. Il Milan è una costruzione perfetta, oltre le più rosee aspettative, ma siamo sicuri che questa sia una buona notizia? E soprattutto, siamo sicuri di star calcolando il peso?