A Montecarlo si inaugura quello che nel tennis è noto come European swing. Si lasciano le Americhe, si risale l’equatore alla ricerca costante di un’estate mobile che il tennis ama e da cui dipende naturalmente. Si abbandonano soprattutto il cemento e i suoi scambi veloci; si dimenticano i suoni stridenti delle suole di gomma che fischiano, muovendosi vorticosamente da una parte all’altra del Green Set.
Si torna sulla terra. A Montecarlo il blu del cielo e del mare si è spartito le inquadrature con il rosso vivido della polvere di mattone nelle riprese aeree di Roccabruna. Istantanee che ci hanno proiettato immediatamente in un immaginario familiare, quello di un tennis caro all’Europa mediterranea. Una rivoluzione di costume, con la terra sollevata dalla brezza del Principato che sporca le divise immacolate dei tennisti, imbratta i calzini, si mescola al sudore sulla pelle.
Ma è una rivoluzione soprattutto tecnica. Già si legge la malinconia negli occhi dei big server, abituati con una spallata ogni due game ad avvicinarsi comodamente ai tie break in successione. Sulla terra la pallina perde l’inerzia della sua corsa, accentua le rotazioni. Chi gioca piatto vede i propri colpi perdere efficacia, meno penetranti, meno incisivi. Il servizio è una variabile non più determinante, ma solo uno strumento tramite il quale tessere la propria tela tattica.
Sì perché proprio sulla terra ogni quindici è destinato a durare a oltranza, non ci sono scorciatoie, colpi definitivi, ma solo una paziente costruzione del punto che richiede concentrazione e preparazione atletica perfetta. La terra non concede, pretende. Ecco perché è divisiva, la si ama o la si odia. Non stupisce allora che Daniil Medvedev, in crisi di risultati, abbia proprio sfruttato la stagione sul rosso per andare sotto i ferri e risolvere i suoi problemi di ernia.
«Questa è la peggiore superficie per giocare a tennis. A meno che non ti piaccia sporcarti come un cane».
Daniil Medvedev, Internazionali di Roma 2021.
A Montecarlo, la prossimità con il mare fa sì che i campi del Principato siano i più lenti del circuito, rendendo ancora più impietoso il ritorno sulla terra. Così capita anche che un habitué del rosso e annunciato campione del tennis del presente e del futuro, come Carlitos Alcaraz, stecchi. Verosimilmente ancora tarato sul timing perfetto che a Miami gli ha fatto sollevare il primo 1000 della carriera, il giovane di Murcia non è mai realmente entrato in partita contro un Korda preciso che ha eliminato subito uno dei più accreditati alla vittoria finale.
Non è andata meglio al numero uno mondiale. Finalmente alla prima apparizione annuale in un torneo di primissimo livello, Nole non avrebbe voluto inaugurare la propria stagione sulla superficie a lui meno consona. È sembrato (e non poteva essere altrimenti) un giocatore arrugginito, a corto di energie fisiche e lucidità mentale. Una condizione semplicemente incompatibile con gli sforzi richiesti dai campi del Monte Carlo Country Club.
Si può consolare tuttavia Djokovic: aver abbandonato a inizio settimana per mano del finalista del torneo fa un po’ meno male. Senza ombra di dubbio Alejandro Davidovich-Fokina è stato il mattatore della settimana monegasca. Accanto al suo nome sventola la bandiera spagnola, ma il suo cognome esotico maschera male le chiare origini russe. In particolare dai geni paterni, ex pugile professionista, l’Andaluso ha ereditato una naturale propensione alla battaglia che non ha mai esitato ad esibire sulla terra del Principato.
Una delle tante occasioni in cui Davidovich-Fokina si è ‘accomodato’ sulla terra del Principato. (Foto via Twitter).
Quello di Davidovich-Fokina è un tennis primordiale, fatto di colpi solidi e di un animo ribollente. Nella lotta si esalta, esulta senza malizia, ma nei suoi pugni sparati al vento c’è tutta la voglia di emergere. Non si risparmia il giocatore classe ’99, alla prima finale 1000 della sua ancora giovane carriera. Rimaranno impressi i suoi tuffi plastici, incuranti della posizione o della superficie. Dai recuperi a fondo campo alle voleé: ogni volta che Davidovich-Fokina vede la possibilità di arrivare a colpire una pallina lo fa, senza compromessi.
«Mi sono tuffato più volte, ma volevo solo rimanere concentrato solo sul punto successivo. Non mi importa più di tanto se mi esce un po’ di sangue o se mi sbuccio un po’ i fianchi».
Alejandro Davidovich-Fokina, conferenza stampa dopo la vittoria su Novak Djokovic.
Negli spogliatoi giurano sia ricoperto di ferite e cicatrici, ma lui le ignora e continua a giocare ogni punto come fosse l’ultimo. Un giocatore ancora imperfetto e certamente immaturo ma che, nella settimana in cui dalle colonne del Telegraph Briggs augurava al tennis “più provocazione e più spigoli”, certamente lo spagnolo rappresenta una ventata di novità e ribellione (positiva) nello sport dai gesti bianchi.
Brutto, sporco e cattivo. Così antitetico rispetto alla parata di star che ha popolato come di consueto le tribune del Principato. Da Neymar a Leclerc, da Verratti all’immancabile Principe Alberto II. Ma soprattutto così diverso dalla compostezza essenziale di Stefanos Tsitsipas che, dall’altra parte della rete, ha infranto il sogno di Davidovich-Fokina, e ha coronato un back-to-back riuscito solo ai giganti di questo sport.
Il greco, a differenza dello scorso anno, non ha difeso il titolo giocando un torneo da eletto del tennis. Ha affrontato svariati momenti di difficoltà, culminati nel folle quarto di finale contro Schwartzman, che però è sempre riuscito a gestire con grande lucidità. Il solo set perso (proprio contro l’argentino) testimonia un’affinità elettiva con questa superficie, che rimette finalmente Tsitsipas sulla mappa del gioco dopo mesi decisamente opachi.
Per Stefanos rimangono le certezze di un bagaglio di soluzioni pressoché infinito, che su questi campi sembrano essere più accessibili ai suoi colpi. Intorno alla sua figura non si placano le polemiche, il warning a ogni partita per coaching sembra essere il nuovo tormentone greco, dopo quello del toilet break che ha spopolato lo scorso anno. Ma Tsitsipas, che probabilmente non sarà il giocatore più amato del circuito, è un ragazzo di un’intelligenza rara, sfodera la sua migliore indifferenza e mostra come vincere sulla terra.
D’altra parte per vincere su questa superficie ci vuole sacrificio, dedizione e malizia: in fin dei conti non sorprende sia la superficie preferita dai tennisti latini. Archiviato il 1000 di Roccabruna la stagione continua e toccherà tutta l’Europa Mediterranea, sbarcando a Barcellona, Madrid, Roma e naturalmente Parigi. Nella convinzione di aver ritrovato un protagonista, nell’attesa della migliore forma di Nole e nel recupero di Rafa. Ma soprattutto nella certezza di una primavera di polvere, sudore e ora anche un po’ di sangue. Bentornati sulla terra.
Con la stagione sulla terra rossa si aprono le danze per il campione di Maiorca, quel Rafael Nadal che ha costruito su questa superficie il suo monopolio. Eppure le incognite sono tante, tra la mancanza dei big e le nuove stelle nascenti.
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