Papelitos
28 Ottobre 2021

José Mourinho il dittatore

A Roma si governa solo con il pugno di ferro.

Fa un po’ sorridere leggere le dichiarazioni di chi, tifosi ma anche ex giocatori/allenatori e opinionisti, crede che Mourinho abbia perso il controllo di sé e stia facendo precipitare la situazione a Roma. Quello sfogo dopo l’imbarazzante trasferta norvegese (mai il portoghese aveva incassato 6 gol in carriera) è stato considerato frutto di rabbia estemporanea, di un allenatore che pensa esclusivamente a se stesso e non ha il coraggio di assumersi le responsabilità di una figuraccia, anzi preferisce scaricarle.

Eppure Roma, e Mourinho, non seguono le logiche correnti. Pensare che il tecnico si sia suicidato mettendosi contro metà spogliatoio, lacerandolo e umiliandone buona parte senza prima soppesarne le conseguenze, è allora poco credibile. Paradossalmente, il fatto che José avesse qualcosa in testa si è visto anche con la convocazione dei giovani primavera portati in panchina e le tribune reiterate inflitte a Borja Mayoral (l’anno scorso 17 gol), a Villar (con Fonseca autore di ottime prestazioni), a Diawara e Reynolds – senza considerare Kumbulla, non convocato per la partita contro il Napoli ma “perdonato” in vista del Cagliari.

Una mossa fin troppo punitiva per non essere ragionata e studiata, risultato unicamente della frustrazione del portoghese; un rischio evidentemente calcolato da Mourinho stesso, che così ha voluto lanciare diversi messaggi, interni ed esterni, come fatto a Cagliari con l’inserimento del classe 2003 Felix Afena-Gyan e non di Shomurodov, colpo di mercato estivo a dir poco misterioso (17.5 milioni per un ventiseienne dal curriculum anonimo, riserva per buona parte della scorsa stagione al Genoa).


Insomma, in questo modo Mourinho ha lanciato un triplice messaggio. Il primo alla proprietà, il più evidente e immediato: la rosa ha enormi limiti tecnici e strutturali, da colmare già in parte col mercato di gennaio; d’altronde, se decidi di prendere Mourinho, va bene la ricostruzione ma non puoi sperare di annaspare per anni, o che l’allenatore affoghi insieme alla squadra. Il secondo agli altri, ai titolari, a quei 13 giocatori ultraresponsabilizzati – «se si potesse giocare sempre con gli stessi lo farei» – e che nella partita con il Napoli hanno reagito nel migliore dei modi (senza contare Cagliari, un match talmente brutto e a bassa intensità che anche valutarlo diventa complicato).

Il succo anche qui è chiaro: state attenti che ora siete con me, vi proteggo pure dalle figuracce (Cristante e Mkhytarian erano entrati sul 2-1 nella trasferta di Bodø, Abraham e Pellegrini sul 3-1), ma dovesse cambiare qualcosa non mi farei problemi a spedirvi in tribuna, a privarvi dei diritti calcistici fondamentali. Mourinho ha così dimostrato di fregarsene delle prestazioni degli anni precedenti, del valore dei cartellini e della loro svalutazione, anche del buon senso. A Roma comanda lui e impone la sua legge: o si rispetta o si è fuori.

E qui arriva il terzo messaggio, lanciato a tutto l’ambiente (dipendenti, tifosi, media): la musica è cambiata, adesso a Roma si governa col bastone perché, da queste parti, solo questo linguaggio può essere capito.

Ma davvero qualcuno pensa che il portoghese non abbia studiato a fondo i limiti cronici dell’ambiente Roma, ormai patologici, emersi a intervalli di tempo regolari negli ultimi anni? D’altronde è anche una certezza del sentimento e dell’immaginario giallorosso: qui ha vinto solo Capello, che non guardava in faccia nessuno (per usare un eufemismo). José questo lo sa benissimo, è perfettamente consapevole che per sopravvivere nella capitale bisogna imporre una dittatura, fino al punto di privare una parte dei giocatori della stessa dignità. È spiacevole e crudo da dire, sicuramente non va di moda soprattutto di questi tempi, eppure le cose stanno così.


Alcune similitudini (come evidenziato dal Corriere dello Sport) ci sono con le sue dichiarazioni del 2009, all’Inter, dopo la disfatta in Coppa Italia contro la Sampdoria: «Adesso è più chiaro per tutti perché certi giocatori non giocano mai e scelgo sempre gli stessi. È colpa di tutti ma certe amnesie sono inaccettabili». Similitudini dovute ad elementi comuni tra le due piazze: quelle nerazzurra e giallorossa sono infatti storicamente masochiste, pazze e disperate, aspiranti suicide, instabili. Così le parole di dodici anni fa, così simili a queste, furono la spinta per imporre a Milano una legge totalitaria, antidemocratica. Ripetiamo, in queste occasioni non servono il buon senso o i buoni sentimenti, forse nemmeno la logica. Lo dimostra l’intervento di Daniele Piraino, agente di Diawara, che si è espresso così sul trattamento rivolto al suo assistito:

«Non so quale voglia essere il messaggio, non capisco. Perché? Deve espiare una colpa? E quale poi? Per una giocata infelice? O c’è una sollecitazione in vista del mercato di riparazione? Se fosse per questi motivi detti prima, e non invece per una scelta tecnica, magari dovuta a una condizione fisica a suo vedere precaria, o piuttosto ad un’incapacità di interpretare i dettami di gioco del mister, penso che Mourinho stia creando un disagio. Netto e immediato, su tutte le parti coinvolte visto che non lo starebbe arrecando solo a Diawara o a chi lavora per lui. È inspiegabile ma ci si adegua».

Piraino ha ragione, ma pensa troppo. Qui non c’entrano la morale e nemmeno la ragione, si tratta di rapporti di forza. Del comandante in campo che impone la sua legge straordinaria fondata sul credere, obbedire, combattere: e purtroppo, che ci piaccia o meno, in ogni dittatura c’è una minoranza che viene esclusa, marginalizzata e all’occorrenza anche “discriminata”.

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