L'epica e drammatica rivalità tra due uomini tremendamente diversi.
La storia dell’odio tra Muhammad Ali e Joe Frazier ha un inizio preciso. Nel 1970, mentre era ancora escluso dalla boxe professionistica per il suo rifiuto di combattere in Vietnam, Muhammad Ali stava lavorando alla sua autobiografia. Voleva dunque conoscere meglio Joe Frazier, uno dei protagonisti della sua storia e al tempo campione mondiale dei pesi massimi in carica. L’occasione arrivò in una mattinata d’agosto. Entrambi vivevano a Filadelfia ma, per motivi diversi, quel giorno dovevano recarsi a New York City.
Frazier offrì quindi ad Ali un passaggio a bordo della sua Cadillac decappottabile. A quel tempo Ali non solo ammirava sinceramente Joe Frazier, ma, come ha raccontato nella sua autobiografia, “fra tutti quelli che fsvolgevano la mia professione era proprio lui che avrei voluto avere come amico”. Viceversa, durante il tragitto, Frazier identificò Ali come un modello per lui, gli offrì un lavoro come sparring partner (dopo più di tre anni fuori dal ring, ad Ali sorsero le prime difficoltà economiche) e confessò di voler dare a suo figlio il nome di Muhammad.
Arrivati nel cuore di Manhattan, Frazier accostò con la sua auto al marciapiede della 52esima Strada. Posato un piede a terra, Ali fu subito acclamato da una folla di persone che ignorò invece Joe Frazier. Mentre rilasciava qualche autografo, Ali sfidò Frazier davanti a tutti: voleva affrontarlo in quell’angolo di strada “per dare una lezione a quel buffone”. Lo stava stuzzicando: la sua stima per Frazier non era certo svanita. Anzi, in quel momento stava fantasticando su quanto sarebbe stato bello “se Joe Frazier avesse frequentato casa mia e io casa sua”. Nel frattempo, come Ali ha scritto nella sua autobiografia:
“Frazier se ne stava ai margini della folla, con il cappello da cowboy sulle ventitré. Ma quando i nostri occhi s’incontrarono, rabbrividii. Il suo sguardo era quello di un pistolero venuto in città per misurarsi con il più svelto a sparare. Non c’era né invidia né gelosia, solo una fredda, metodica valutazione, perché sapeva di dovermi battere sul ring prima che il mondo riconoscesse in lui il vero campione. Annuì lentamente e risalì in auto. Le possibilità che avevamo di diventare compagni, di essere intimi amici, erano scomparse”.
La storia dell’odio tra Ali e Frazier non è soltanto una storia di sport. È la storia di due personaggi che hanno avuto ruoli diversi nella società americana degli anni Sessanta e Settanta. È la storia di due modelli e allo stesso tempo di due riflessi di quell’epoca. Ali era il pugile nero che si sentiva più afro che americano e che aveva rinunciato agli anni migliori della sua carriera per non partecipare ad una guerra che riteneva ingiusta. Frazier era il pugile nero che amava la sua Patria e che cantava con orgoglio l’inno nazionale, attirando in questo modo le simpatie dei bianchi.
Sulla rivalità tra Ali e Frazier si potrebbero scrivere le stesse cose che ha scritto il premio Pulitzer David Remnick sulla rivalità tra Floyd Patterson e Sonny Liston:
“A distanza di quasi quarant’anni [dalla prima sfida tra Ali e Frazier ne sono passati ormai cinquanta, N.d.R.], ora che la boxe è diventata un evento marginale nella vita americana, tutto questo carico di simboli accumulati sulle spalle di due uomini che se le davano per soldi sul quadrato suona vagamente ridicolo. Ma per decenni la boxe è stata uno spettacolo cruciale in America, ed essendo uno sport così minimale, uno contro uno, una battaglia fatta con le mani, senza palle, mazze o racchette, venivano facili le metafore della lotta, e soprattutto della lotta razziale”.
Come ha ben spiegato David Remnick, per anni gli organizzatori cercarono di contrapporre a un campione nero un rivale bianco: Jack Johnson contro Jim Jeffries, Joe Louis contro Max Schmeling, Sugar Ray Robinson contro Jack LaMotta. Nel confronto tra Patterson e Liston, prima, e tra Ali e Frazier, poi, era necessario trovare qualcosa che li differenziasse politicamente, socialmente e sportivamente.
Nel giro di appena un anno, da quel viaggio in Cadillac alla riammissione di Ali nel mondo della boxe, l’odio tra Ali e Frazier aveva fatto in tempo a montare in tutta la sua grandezza. In particolare, era Ali a detestare Frazier. Lo dipingeva come un codardo, un ignorante, uno stupido, un gorilla, un uomo troppo brutto per essere un vero campione. Ai suoi occhi, Frazier era il nero che si comportava come un bianco, che si era integrato nell’ingiusta società statunitense. Era uno zio Tom, il campione dell’uomo bianco:
“Solo gli sceriffi dell’Alabama, i ricchi bianchi in completo bianco, i membri del Ku Klux Klan e forse Richard Nixon avrebbero tifato per lui”.
Frazier, che aveva passato l’infanzia a sgobbare in un campo di cetrioli e pomodori e l’adolescenza a drenare il sangue dei manzi in un macello, si sentiva ferito nel profondo. Non poteva accettare che Ali contestasse il suo spirito e il suo orgoglio afroamericano. Non poteva accettare che Ali potesse pensare di essere più nero di lui.
Come faceva notare, era Ali ad essere nato in un quartiere nero di Louisville che si poteva definire benestante se paragonato ad altri quartieri neri delle città del Sud degli Stati Uniti, dove vigeva una severa distinzione tra i bianchi e gli altri gruppi etnici. Era Ali ad aver frequentato regolarmente la scuola. Era Ali ad avere un allenatore bianco, l’italo americano Angelo Dundee. Era Ali ad essere stato finanziato da un gruppo di facoltosi imprenditori bianchi.
Tuttavia, sin dall’infanzia, Ali si era sentito “uno straniero”, discriminato dalla maggioranza bianca. Raggiunta la maturità, era stato attratto dalle parole di Malcolm X, si era convertito all’islamismo e quindi affiliato al gruppo religioso della Nation of Islam, guidato da Elijah Muhammad. Membri della Nation of Islam, compagni di battaglie politiche e sociali e viscidi parassiti che si approfittavano della sua generosità avevano iniziato a circondarlo.
E non sempre l’ascendente che avevano su di lui era positivo. Di questo ne era convinto anche Joe Frazier. Una volta, dopo l’ennesima offesa che aveva subito, si presentò a casa di Ali e, mostrandogli il dorso della mano, gli disse:
“La vedi? È nera. Non puoi togliermi ciò che sono. Te la prendi con un amico, e per cosa? Per fare colpo sui tuoi compari musulmani, per darti arie da grand’uomo?”.
Le posizioni politiche di Frazier erano molto simili a quelle di Ali, seppur non espresse con la stessa veemenza. Frazier aveva sostenuto l’amico quando venne condannato dalla Corte Suprema e fece di tutto – firmò petizioni, parlò di persona con autorità politiche – per cercare di farlo risalire sul ring. Pensava di avere meritato il suo rispetto. Ma Frazier, che aveva conquistato il titolo di campione mondiale mentre “The Greatest” era ancora sospeso, era ormai diventato il simbolo del sopruso subito e il bersaglio della rabbia di Ali.
Tra i due esisteva poi una differenza caratteriale radicale e insormontabile. Ali era insolente, strafottente, carismatico. Aveva un modo di comunicare potente ed efficace. Parlava velocemente e in rima, con parole semplici e dirette. Inventava slogan, poesie e ritornelli. Frazier era invece semianalfabeta. Era silenzioso, timido, ingenuo. Il Time lo aveva definito “goffo e incline all’introspezione, spesso propenso a sbalzi d’umore”. Era la sua umiltà, che spesso rasentava la deferenza, a renderlo gradito all’establishment Usa e sgradito, di conseguenza, ad Ali.
Nel 1971, una volta scagionato dalle accuse e riconquistata la licenza di pugile, Ali ottenne l’occasione che aspettava da quasi quattro anni: quella di poter tornare a lottare per il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. L’incontro con l’odiato Joe Frazier venne fissato per l’otto marzo al Madison Square Garden e fu subito ribattezzato “The Fight of the Century”. Era la prima volta nella storia del mondiale dei pesi massimi che si incontravano due pugili imbattuti. Era la prima volta che si sfidavano Muhammad Ali e Joe Frazier.
Alla vigilia dell’incontro Ali arricchì ancora la retorica del nero buono e emancipato contro il nero meschino e al soldo dei bianchi. Disse infatti che non avrebbe lottato contro un uomo solo, ma con esercito di uomini bianchi per dimostrare che lui era uno che, a differenza di Frazier, non avrebbero mai potuto sottomettere. Ali, nonostante fosse reduce da trentasei mesi di squalifica e da appena cinque di allenamenti, era sicuro di vincere l’incontro perché aveva “un motivo per vincerlo. Frazier invece non ce l’ha, è lì solo per i soldi”.
Joe Frazier aveva accettato di buon grado i due milioni e mezzo di dollari (oggi corrispondenti ad almeno una quindicina di milioni) che gli spettavano per l’incontro, ma aveva faticato duramente per diventare il campione mondiale dei massimi e non accettava che Ali potesse disconoscere il suo lavoro, i suoi sacrifici e il suo titolo.
Quella tra Frazier e Ali era una sfida interessante anche dal punto di vista tecnico. I due pugili avevano infatti stili e caratteristiche completamente differenti. Frazier si muoveva con pesantezza. Teneva le braccia in alto, pronto a sferrare quel gancio mancino che lo contraddistinse da tutti gli altri pugili mai saliti su un ring. Il suo coach lo chiamava Smokin’ Joe per la sua capacità di fare “uscire fumo dai guantoni”. Uno suo sparring partner aveva dichiarato che “farsi colpire da Joe Frazier è come farsi travolgere da un bus, con l’unica eccezione che il bus passa una volta sola”. Lo scrittore Norman Mailer aveva descritto le gambe di Joe Frazier come “due bassi gorilla che si spingevano avanti guadagnando terreno”.
Ali era invece un peso massimo atipico, con le caratteristiche di un pugile di venti chili più leggero. Come descritto dal suo coach, “era velocissimo. Rimbalzava di qua e di là. Sbam, bam, bam, e poi spariva. Se era bravo a colpire? A colpire sono buoni tutti. Chiunque pesi ottantacinque chili sa farlo. Il trucco è colpire quando l’altro non se l’aspetta”. Era infatti a lui più di tutti che si doveva l’introduzione nella boxe e nello sport in generale del connubio tra massa e velocità. Si muoveva per il ring danzando, schivando colpi con leggiadria e sferrando un jab dietro l’altro. Era bello, elegante, in completo contrasto con la cieca ferocia di Joe Frazier.
Ma l’Incontro del Secolo non era soltanto sport, politica, società, costume, religione: era anche (e forse soprattutto) una questione di soldi. Il giro d’affari aveva prodotto una cifra talmente esorbitante che, alla vigilia, il Wall Street Journal dedicò all’avvenimento un articolo in prima pagina. Le entrate totali si aggiravano sui 25 milioni (oggi corrispondenti ad almeno 170 milioni di dollari). L’incasso del Garden superava da solo il milione di dollari (circa otto milioni di oggi).
Un posto in prima fila era venduto ad almeno 150 dollari (che oggi sarebbero più di 900). I radiospettatori e i telespettatori erano almeno 300 milioni da cinquanta Paesi diversi. Come disse Ali, che al tempo era probabilmente il secondo americano più celebre dopo il Presidente Nixon,
“Va oltre il pugilato: questo incontro verrà guardato da persone e nazioni in cui non si segue la boxe. Persino dall’Arabia, dalla città sacra della Mecca, dalla Siria, dal Pakistan, dall’Estonia, dalla Russia, dalla Cina rossa, dal Vietnam. Questo è il più grande evento della storia di tutto il pianeta. E non perché c’è Joe Frazier”.
Gli spalti del Madison Square Garden, quell’otto marzo 1971, era animati da decine di celebrità. C’erano stelle del cinema, musicisti, artisti, atleti, politici. C’erano Marcello Mastroianni e Dustin Hoffman. C’erano Woody Allen e Barbra Streisand. C’erano l’ex vicepresidente Hubert Humphrey, il senatore Ted Kennedy e gli astronauti dell’Apollo 14, tornati dalla Luna da neanche un mese. L’evento era di tale portata che, mentre il premio Oscar Burt Lancaster aveva prestato la sua voce al commento dell’incontro per la tv a circuito chiuso, Frank Sinatra aveva dovuto reinventarsi fotografo della rivista Life per ottenere un posto in prima fila.
Ma a rubare la scena erano state soprattutto le migliaia di spettatori afroamericani. Ce n’erano di ingioiellati e impellicciati che sostenevano Frazier e altri con lunghe tuniche e capigliature eccentriche che tifavano per Ali. Come ha raccontato Gianni Minà, il giornalista italiano che più di tutti è stato vicino ad Ali, quella che andò in scena era
“la più grande festa nera della storia americana: l’esplosione della nuova borghesia di colore e della nuova generazione che chiede alla propria etnia di avere un’altra dignità”.
Alla fine dell’incontro, Bob Arum, uno dei migliori promoter di pugilato di tutti i tempi, disse che “l’elettricità in quello stadio è stata la cosa più incredibile che abbia mai visto”. Un ronzio incessante, che si alimentava di ogni provocazione di Ali e di ogni gancio sinistro di Smokin’ Joe. Ali era ancora arrugginito: le gambe erano pesanti e i riflessi appannati. Eppure fino alla sesta ripresa, quella in cui aveva previsto – come faceva spesso prima di un match – che l’avversario sarebbe caduto al tappeto, Ali sembrava il favorito per la vittoria.
Nel corso di quel round Frazier aveva invece continuato ad attaccare a testa bassa, con ancor più determinazione e sicurezza. Ali lo aveva paragonato a un robot: “Lo carichi e lo lasci andare. Tu lo colpisci, ma lui continua ad avanzare. È davvero bravo a picchiare: non ha tecnica ma è molto forte e resistente. Su cinque-dieci pugni che sferra solo uno ti colpisce, ma, quando ti centra, ti distrugge”.
Quel pugno arrivò nell’ultima ripresa, la più spettacolare ed emozionante. I due pugili erano stremati. Ali aveva cercato di tenere l’avversario a distanza con i suoi jab. Frazier aveva invece continuato a colpire al corpo fino a quando, con un gancio sinistro portentoso, forse il più famoso nella storia della boxe, era riuscito a metterlo al tappeto. Quel gancio aveva un significato particolare per Joe Frazier, che era consapevole che non avrebbe mai più vissuto una notte come quella. Appena il suo pugno sinistro si era abbattuto sulla mandibola di Ali, Frazier raggiunse tutto quello che aveva inseguito nella vita: il rispetto, di Ali e degli amanti della boxe.
Dopo quel colpo, “The Greatest” si era rialzato e aveva portato a termine l’incontro ma perse ai punti per verdetto unanime. Frazier non rimase soltanto campione del mondo dei pesi massimi ma ottenne anche il riconoscimento (seppur momentaneo e annacquato) di Ali:
“Adesso sì che sei un vero campione, adesso sì che non bisognerà più dire che sei un dilettante. Adesso, non prima, perché prima usurpavi un titolo che io non avevo mai perso”.
Era la prima volta che riconosceva pubblicamente la superiorità di un avversario. Dal canto suo, Frazier commentò:
“Siamo due uomini, tutti e due con tanti figli. Ognuno è fatto a modo suo. Per questo Clay non mi è simpatico, ma nemmeno antipatico. Io so parlare con i fatti, lui con i fatti e con le parole, troppe parole, come nei primi round del match. Ma poi ha dovuto chiudere la bocca, o meglio ha dovuto usarla soltanto per respirare, per sopravvivere alle mie mazzate. E così è stato fino alla fine del match. I fatti gli hanno dato torto, gli sono rimaste solo le parole, questa volta. Succede ogni tanto a chi parla troppo”.
L’odio tra i due, dopo una brevissima tregua, tornò con la forza di una nuova onda che si infrange sulla battigia. Ali ricordò a Frazier di “non essere troppo orgoglioso della tua vittoria su di me, perché quel giorno io ti ho mandato all’ospedale e tu sei finito”. Frazier dopo l’incontro, per usare le parole di Gianni Minà, “in faccia sembrava un mascherone del Carnevale di New Orleans, un viso martoriato, malamente nascosto dietro un paio di occhiali da sole”.
Aveva passato quasi un mese in ospedale, un tempo sufficiente per far credere a qualcuno che fosse addirittura morto. Ma dopo quattro mesi, tornato finalmente in condizione fisica e mentale, aveva cominciato ad allenarsi. Ali, nascondendosi dietro il suo esibizionismo, si era vantato di non aver accusato i suoi colpi. Anzi, si diceva temprato e ancor più motivato.
Nel frattempo, nel gennaio 1973, dopo due incontri con i carneadi Terry Daniels e Ron Stander, Frazier perse il titolo dei pesi massimi a Kingston, in Giamaica, contro un’altra leggenda del pugilato, George Foreman. Fu un combattimento irrispettoso della sua grandezza: Frazier andò al tappeto sei volte prima che il match fosse interrotto nel secondo round, dopo appena 4 minuti e 35 secondi.
Ali, dopo l’incontro con Frazier, si era battuto ben tredici volte (una sola sconfitta contro Ken Norton, con annessa frattura della mandibola) e voleva insistentemente la rivincita con Frazier, anche se in palio non c’era più il titolo mondiale. Fu in questo periodo che ritrovò l’allegria e l’entusiasmo. Come ha scritto Jonathan Eig, autore di una monumentale biografia di Ali,
“la sconfitta e quel grave infortunio lo avevano spinto a riconsiderare la sua vita, a rallentare, a staccare il telefono e a passare più tempo con i figli”.
Prima del secondo incontro con Frazier decise infatti di allenarsi lontano dalle distrazioni, in uno sperduto posto di montagna a due ore da Filadelfia. Era accompagnato da un’atmosfera ciarliera e circondato da amici, parenti e compagni di battaglie politiche e sociali. Il suo viso, dopo tredici anni di professionismo, era ancora liscio e bello come quello di un ragazzino. Sul volto di Frazier la boxe aveva invece lasciato il segno. Lui continuava a dire di sentirsi ancora forte,
“però qualcuno dice che non sono più quello di prima e soltanto il dubbio che abbia ragione mi mette di cattivo umore. Io ho sempre fatto, bella figura, salvo che nell’incontro con Foreman, quando ho sbagliato tutto. Non mi piacerebbe finire male lunedì sera, e non solo perché ho di fronte Ali, ma anche e soprattutto perché io sono uno di quei campioni di cui la gente si deve ricordare come di un personaggio serio, come di un uomo che ha saputo esprimersi con la dovuta misura sul ring, quella misura che purtroppo sovente è mancata ad Ali”.
Era turbato, Joe Frazier. Sapeva di aver perso in parte l’abilità nell’incassare, la sicurezza di trovare prima o poi un pugno capace di stendere l’avversario e la stabilità emotiva che gli permetteva di resistere fino all’ultimo istante.
Qualche giorno prima del match, che doveva nuovamente tenersi al Madison Square Garden il 28 gennaio 1974, Ali e Frazier si riunirono in uno studio televisivo. Quello che doveva essere un confronto dialettico si trasformò presto in un confronto fisico, con i due pugili a rotolarsi ridicolmente per terra. Ali detestava Frazier e il suo modo di essere, la sua apparente indifferenza verso le cause civili da lui tanto strenuamente portate avanti.
Non sopportava l’eleganza eccentrica e chiassosa di Smokin’ Joe, le sue pellicce di visone e la sua Rolls-Royce. Odiava i suoi amici bianchi. “Cassius – Frazier, come molti mezzi di informazione, continuava a chiamarlo sempre con il suo nome da schiavo, cosa che non lo rendeva certo più simpatico agli occhi di Ali – è sempre uguale: fa di tutto per trasformare questo incontro in una guerra, in un odio tra due uomini. Non è così, non deve essere così”, gli aveva risposto.
Curiosamente, come spiega Jonathan Eig, Ali “aveva tormentato più i neri dei bianchi. Con i bianchi tendeva a scherzare. A volte arrivava perfino a elogiarli per la loro intelligenza e la loro durezza. È possibile che per i match con i pugili bianchi avesse la sensazione di non doversi impegnare più di tanto per far vendere biglietti. Al contrario, nei confronti dei neri era capace di esibire una vera e propria rabbia. Tentò di disumanizzare molti dei suoi avversari neri, così come avevano tentato di fare a lungo i suprematisti bianchi. Aveva etichettato Liston un brutto orso, Patterson un coniglio ed Ernie Terrell uno Zio Tom. (…) Un comportamento decisamente perverso, se si pensa al tempo che aveva passato a elevare la propria razza. E ora, prima della rivincita con Frazier, stava toccando il fondo. I suoi attacchi erano più meschini, più personali e più sprezzanti”.
Sul ring, Frazier lottò con tenacia, anche se con poca lucidità. Provò a sfoderare il suo micidiale gancio sinistro ma Ali, agile e veloce, glielo impedì perché, come lui ripeteva sempre, “le mani non possono colpire ciò che gli occhi non possono vedere”. Ali questa volta riuscì a danzare, a muovere le gambe, a tenersi lontano dalle corde e a legarsi alla nuca di Frazier per attutire la forza dei colpi ai reni. Era stato Ali a dare il ritmo al match, tenendo a distanza Frazier e costringendolo a “tirare di scherma”. Smokin’ Joe restò comunque in piedi fino all’ultimo round, con il volto completamente tumefatto e una ferita sopra l’occhio sinistro. Aveva fatto di tutto per strappare la vittoria ad Ali, che se l’era aggiudicata ai punti per verdetto unanime.
L’accordo per un terzo incontro venne stretto diciassette mesi più tardi in occasione di un match vinto da Muhammad Ali contro Joe Bugner. La scena è talmente spettacolare che sembra ricavata dalla sceneggiatura di Rocky: probabilmente le cose non sono andate così, ma è così che sono raccontate nell’autobiografia di Ali. Dopo quella vittoria su Bugner ottenuta davanti agli occhi di Frazier, Ali si presentò in conferenza stampa e annunciò che si sarebbe ritirato. A quel punto Frazier si fece avanti e disse:
“No che non ti ritiri. Hai bisogno di me quanto io ho bisogno di te”.
I presenti iniziarono a incitare Joe Frazier e Ali, per zittirli, rispose:
“Come è possibile? Io ho travolto George Foreman e ancora non mi credete. Mosè ha fatto piovere fuoco dal cielo, ha trasformato l’acqua in sangue, ha fatto aprire l’oceano. Voi continuate a dubitare di me che ho compiuto ogni sorta di miracoli. Ma non si dirà mani che mi sono ritirato per non incontrare qualcuno. Se Joe Frazier vuole un altro incontro… lo avrà!”.
Dietro di Ali spuntò urlando Don King, l’organizzatore di match di pugilato più famoso della storia:
“Il terzo superincontro! Il terzo superincontro è varato! Muhammad Ali e Joe Frazier s’affronteranno per la terza e ultima volta! La decisiva! Per vedere chi è veramente il più grande peso massimo! Accadrà a Manila il primo ottobre”.
A Quezon City, un distretto di Manila, la capitale delle Filippine, tornò ad essere in palio il titolo mondiale. Ali lo aveva infatti riconquistato l’anno prima a Kinshasa in un drammatico incontro con George Foreman. Mentre quello con Foreman era stato definito “The Rumble in the Jungle”, il terzo episodio della trilogia Frazier-Ali era destinato a passare alla storia come “The Thrilla in Manila”.
Ali infatti, disseppellendo il suo odio per Frazier, si era presentato in conferenza stampa con un gorilla di gomma che aveva iniziato a colpire, dicendo:
“It will be a killa and a thrilla and a chilla, when I get that gorilla in Manila”.
Ali passò la vigilia per le strade, incontrando la popolazione locale, facendosi fotografare con celebrità, firmando autografi, scherzando con gli amici e deridendo il “brutto e stupido” Joe Frazier, l’uomo con “la pelle di un serpente e le movenze di un animale”.
Smokin’ Joe era arrivato a Manila con l’aria di “uno che deve recitare l’ultima scena di una bella storia che però è alla fine”, usando le parole di Gianni Minà. Smokin’ Joe spese il suo tempo allenandosi, come scrisse un giornale filippino, “solo come un ladro di notte”. Frazier aveva infatti chiesto al Presidente Marcos di poter fare footing alle 4 del mattino, un’ora in cui nelle Filippine, un Paese al tempo libero ma non troppo, vigeva il coprifuoco. Per Frazier, la corsa mattutina era una fuga dall’atmosfera di freddezza, di indifferenza, che Ali aveva creato intorno a lui.
Alle 10.45 del mattino, nel caldo torrido dell’Araneta Coliseum, erano radunate 28mila persone. Altri 700 milioni di spettatori da 65 Paesi del mondo stavano vedendo l’incontro alla televisione o lo stavano ascoltando alla radio. Il match è stato probabilmente il più drammatico che la storia ricordi. Ali continuò a istigare Frazier, lo derise, lo offese, gli urlò: “Picchiami, gorilla!”. Smokin’ Joe non lo voleva soltanto battere. Lo voleva uccidere. Durante l’incontro andò a segno 440 volte “con pugni che avrebbero fatto crollare una città”.
Nella cronaca del New York Times, il giorno dopo, si leggeva che “il match è stato di Ali dal primo al quinto round. Poi dal sesto all’undicesimo, Frazier ha tirato fuori l’anima al suo eterno avversario. Nelle ultime tre riprese Ali ha riconquistato la sua anima e ha costretto Joe a sputare la sua”. Prima dell’inizio del quindicesimo ed ultimo round, l’allenatore di Frazier, Eddie Futch, vedendo il suo atleta letteralmente accecato dal mitologico jab di Ali, gettò la spugna.
Nel frattempo, per consolare il suo ragazzo, gli sussurrò:
“È finita, ma nessuno si dimenticherà di quello che hai fatto oggi”.
Ali ammise infatti che “qualunque cosa io abbia detto di Frazier in pubblico, so nel profondo di me stesso di essere stato sul ring con uno dei più grandi pugili di tutti i tempi”. Frazier si era battuto con una tale foga che Angelo Dundee, lo storico allenatore di Muhammad Ali, disse che, se Futch avesse aspettato ancora un istante, sarebbe stato lui a ritirare Ali.
Entrambi rischiarono la morte durante quell’incontro: Frazier, che dopo giorni aveva ancora gli occhi tumefatti e tracce di sangue nell’urina; Ali, che quando venne a sapere di aver vinto, fece giusto in tempo ad alzare le braccia al cielo prima di accasciarsi a terra. Quell’ultima sfida, terribilmente cruenta, lasciò per sempre il segno non solo nella storia del pugilato, ma anche sulla pelle dei due campioni.
Eppure, in questa storia di odio e di riappacificamenti, dopo che i pugni furono messi da parte, c’era ancora spazio per le parole. Anche dopo la fine della sua carriera, Ali continuò a nutrire questo sentimento di odio e di amore per Frazier, incoronandolo come “secondo più grande campione di tutti e tempi” e redarguendolo con parole come queste:
“Frazier e tutti quelli che mi hanno incontrato dovrebbero ringraziare il loro Dio che io sono nato e che sono il presuntuoso che sono o che voglio apparire. Altrimenti non avrebbero mai conosciuto una vera notorietà e non avrebbero mai guadagnato i soldi che hanno guadagnato solo per il fatto di aver potuto aspirare per un momento a essere un contraltare al mio successo”.
D’altro canto, anche Frazier riconosceva che fosse merito di Ali se “ho guadagnato tutti i soldi che non avrei mai guadagnato se lui non fosse stato quello che è”, ma aveva avuto anche l’ardire, nell’anno in cui Ali accendeva il tripode delle Olimpiadi di Atlanta con il viso e il corpo stravolto dal morbo del Parkinson, di concludere così la sua autobiografia:
“Ora la gente mi chiede se mi senta male per lui, ora che le cose non stanno andando così bene per lui. Nessuna speranza. Non mi sento male. Vogliono che io lo ami, ma io aprirò la sua tomba e incendierò il suo sedere quando il Signore deciderà di prenderselo. Avete visto cosa il Signore gli ha fatto. Lo ha buttato giù. Clay mi ha sempre preso in giro, come se fossi un cretino, picchiandomi sulla testa. Ora guardatelo: parla a fatica ed è ancora lì fuori a fare rumore”.
E poi ancora: “La gente non ha capito questo signore, non ha capito chi sia. Bene, ora ve lo dico io: lui ha più cura di sé che di chiunque altro. Sì, Clay è così occupato a essere il Più Grande che non riesce a vedere i serpenti che sono aggrappati ai suoi pantaloni. Ora le chiacchiere non esistono più. Ha fatto qualcosa che al Signore non è piaciuta. Lui è un fantasma e io sono ancora qui. Ora parliamo di chi ha realmente vinto quei tre match”.