Ci sono eventi in grado non solo di lasciare nella memoria ricordi e sensazioni felici, ma anche di renderci ciecamente fedeli ad essi. Eventi che siamo disposti ad idealizzare, rifiutando così a priori di metterli in discussione.
Il Mundial del 1982 ha i connotati perfetti per rientrare in questa categoria: la conquista dell’agognata coppa dopo un inizio claudicante; il carisma di Bearzot a guidare una squadra di uomini veri; il sentimento nazionalpopolare che si gonfia come una bolla, fino all’esplosione al gol di Tardelli; la storica foto della partita a carte sull’aereo a suggellarne l’immortalità.
Insomma, la narrazione perfetta del trionfo all’italiana, costellato di intralci ma brillante e coraggioso. Indelebile nella mente di chi ha vissuto quegli anni, intoccabile per tutti. Tranne che per Oliviero Beha. Beha, giornalista e scrittore di fama nazionale deceduto nel 2017, che proprio a causa di quel mondiale perse il lavoro e (a detta sua) ricevette minacce di morte. Il motivo? Aver portato avanti un’inchiesta, chiamata Mundialgate, in cui insinuava ciò che non poteva essere neanche sussurrato sottovoce: che la vittoria azzurra fosse corrotta.
Il nastro si riavvolge fino al 1984, due anni dopo la festa di Madrid. Oliviero Beha collabora con la sezione Sport di Repubblica, allora diretta da Eugenio Scalfari. Viene contattato da Roberto Scippa, funzionario dell’ambasciata in Camerun e calciatore locale, che gli rivela di come a Yaoundé circolino strane voci riguardanti il Mondiale del 1982.
La partita incriminata è Italia-Camerun, terza giornata del gruppo A, disputata a Vigo e conclusasi 1-1. All’Italia, dilaniata dalle polemiche dopo due scialbi pareggi con Polonia (0-0) e Perù (1-1), serve un punto per passare il girone e una vittoria per evitare Brasile e Argentina al turno successivo; il Camerun, dopo due zero a zero, è invece costretto a vincere a causa del gol segnato in meno.
La partita è quindi molto delicata e fin da subito la tensione paralizza il flusso di gioco, come nota anche Nando Martellini in telecronaca. L’Italia ha qualche buona occasione nel primo tempo, poi nella ripresa va in vantaggio con una carambola aerea di Graziani, sulla quale il portiere N’Kono, scivolando goffamente, non arriva. Neanche il tempo di mostrare il replay completo del gol ed ecco che arriva il pareggio africano di M’bida in spaccata, al termine di un’altra azione rocambolesca in cui metà della difesa italiana rimane di sale.
L’esultanza dei Leoni indomabili appare quantomeno spropositata considerando che il gol non è sufficiente a qualificarli, ed il match praticamente si conclude su quell’azione. Gli africani non affondano il colpo, desistendo dal provare il tutto per tutto: con il pareggio, seppur eliminati, tornerebbero a casa da imbattuti. Al triplice fischio appaiono sereni, ma è l’Italia a strappare il passaggio del turno: da lì in poi sarà un escalation fino alla Coppa.
Dopo la soffiata di Scippa, Beha e Roberto Chiodi – giornalista esperto di cronaca giudiziaria che al tempo scriveva per Epoca – ottengono l’ok da Scalfari e decidono quindi di imbarcarsi per Yaoundé. Dovranno rimandare di qualche mese rispetto al previsto a causa di un tentato golpe finito male, e il clima che troveranno in Camerun è ostile: finiranno anche in galera per una notte, come riportato anche dall’Unità.
Il punto di partenza è la ricerca dei calciatori coinvolti. I due giornalisti riescono a mettersi in contatto con alcuni di loro, e ciascuno darà versioni dei fatti molto diverse a riguardo, nel più classico scaricabarile di accuse in cui nessuno confessa, anzi attacca altri compagni di squadra o l’allenatore, il francese Jean Vincent. Tra questi c’è anche Roger Milla, indimenticata icona del calcio africano che, nel 1994, diventerà il marcatore più anziano della storia dei Mondiali.
«Ero solo in attacco, chiesi a Vincent di attaccare (…), ma lui ci ribadì di stare indietro – dirà ai due giornalisti – Se qualcuno ha preso i soldi è stato l’allenatore, adesso mi spiego perché ci fece giocare sulla difensiva».
Di tutt’altro avviso appare Teophile Abega, centrocampista fresco di Pallone d’Oro Africano: «Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, e Vincent ha svolto il suo lavoro correttamente». Ma quando i giornalisti lo rivedono nel pomeriggio, il centrocampista chiede un compenso per l’intervista appena rilasciata, confermando i forti dubbi sulle sue dichiarazioni.
Il viaggio-inchiesta in Camerun di Beha e Chiodi si rivela intriso di complicazioni continue, soprattutto a causa delle contraddizioni emerse dalle dichiarazioni degli interessati. I due riescono però a mettersi in contatto con Michele Brignolo, torinese emigrato in Camerun da più di vent’anni con più di un contatto importante a Yaoundé.
«So tutto della partita comprata. Mi pare che i soldi vennero dati all’allenatore e a cinque giocatori da un emissario italiano, credo fosse un medico. Però è inutile che vi racconti queste cose, tanto non potrete mai scriverle. Rendetevi conto che ne andrebbe di mezzo il buon nome degli italiani, che qui hanno in corso affari per miliardi.»
Brignolo è un uomo potente in Camerun, tanto da presentare ai giornalisti un aggancio fondamentale per l’inchiesta. Si tratta di Philippe Koutou, vicecapo dei servizi segreti camerunensi.«Sapevamo prima di arrivare a Vigo che c’erano stati contatti tra i nostri giocatori e gli italiani. Così decidemmo di aumentare i premi, ma i giocatori non erano contenti, la somma era comunque cinque volte inferiore a quella già offerta.
(..) Pensammo ad un accordo a livello dell’allenatore (..). Ricevetti l’ordine di farli restare consegnati nelle loro stanze e di avviare un’inchiesta. Quelli che avevano preso i soldi furono costretti ad ammettere, a confessare. Erano i giocatori professionisti Milla, N’ Kono e altri due-tre. Il tramite dell’operazione era stato un italiano amico di Milla, ospite della nostra delegazione».
La storia di Italia – Camerun raccontata dai protagonisti azzurri.
Un italiano di nome Orlando Moscatelli, 45 anni, cuoco che vive a Bastia nella cui squadra militava proprio Milla. Moscatelli, secondo l’inchiesta, sarebbe stato l’uomo chiave. Beha e Chiodi vanno a trovarlo in Corsica. «Non conoscevo nessuno a Vigo (..), nella hall dell’albergo si avvicina un signore, che mi chiede di uscire per parlare. (..). Saliamo su una Audi marrone metallizzato, targata Taranto. Parliamo del più e del meno. Ad un certo punto mi dice “So che lei è molto amico dei giocatori africani… all’Italia serve un pareggio”. Rispondo che io conoscevo bene soltanto Milla.
“Ce ne vogliono altri – mi fa lui – “Milla non basta. Bisogna contattare almeno i professionisti: Tokoto, N’ Kono, M’ Bida. E anche Abega. Lei Orlando me li dovrebbe far trovare tutti e cinque insieme. Ci sono 30 milioni a giocatore, 150 milioni in tutto da spartirsi”. continua lui.
“In dollari?” gli chiedo io.
“Va bene, in dollari”».
Si sa poco altro sull’identità del presunto corruttore. I proprietari delle uniche due Audi marrone metallizzato immatricolate a Taranto prima del 1982 hanno negato di essere mai stati in Spagna, come appunterà Chiodi. Tuttavia, Moscatelli sostiene che alla fine il tentativo sfumò in un niente di fatto.
«Rimaniamo d’ accordo che mi avrebbe telefonato la mattina successiva, alle 10. Sveglio Milla. “Vediamo che cosa si può fare”, dice. Ovviamente è interessato: il loro premio-partita raggiungeva appena i due milioni di lire… Quando il signore richiama alle 10, io non ho ancora una risposta. Avrebbe ritelefonato a mezzogiorno. Non lo fece, e non so nemmeno come sia andata avanti la trattativa. Assistetti alla partita dalla tribuna. (..). La mattina dopo, molto presto, andai a Santiago di Compostela con la moglie di Vincent. Ci imbarcammo per Madrid.
Poi lei prese il volo per Parigi, io quello per Nizza. Aveva con sé e custodiva con grande circospezione una borsa piena di soldi...».
L’inchiesta, i cui dettagli sono stati pubblicati nel 2005 nel libro Trilogia della censura, porta Beha a subire un vero e proprio tiro al piccione. L’impronta gioiosa del Mundial è ancora fresca, e andarne ad avvelenare la purezza costituisce un affronto inaccettabile. Anche solo alludere ad un successo macchiato dalla frode (Fu vera gloria? Si chiede Roberto Chiodi su Epoca) non è permissibile.
La Figc ed il Coni negano le insinuazioni, dopotutto il viaggio in Camerun non aveva portato a nessun nome concreto legato all’ambiente. Le smentite arrivano anche da parte di Vincent e dei giocatori africani, dando il via ad un’abbuffata di querele che affosserà la fondatezza dell’accusa. Beha finisce nell’occhio del ciclone. Scalfari lo vuole fuori. «Come mi disse Carraro telefonicamente all’epoca – racconterà poi – “Lei non lavorerà più, ho parlato con il suo Direttore”. Trattavasi di Scalfari, che all’epoca dialogava con il potere terreno e non con quello divino. Aveva ragione quasi del tutto Carraro».
La carriera di Beha non si rivelò poi indissolubilmente legata a quell’inchiesta, ed il giornalista fiorentino riuscì ad imporsi comunque a livello nazionale. Ma il dubbio che avesse potuto aver ragione, almeno in parte, su quel tentativo di combine, alberga nei pensieri di chi conosce i dettagli di Mundialgate: tra questi uno dei più interessanti riguarda l’allora presidente della Federazione, Federico Sordillo.
Si dà il caso infatti che l’avvocato Sordillo fosse uno dei legali di Michele Zaza, boss camorrista detto Michele O’Pazzo, incontrato da Beha a Regina Coeli. Secondo il racconto di Zaza, testimoniato anche dall’allora segretario di Democrazia Proletaria Mario Capanna, Sordillo avrebbe chiesto a O’Pazzo degli agganci per muoversi agilmente in Spagna durante i Mondiali. Lo stesso Zaza, secondo il racconto di Beha, avrebbe esclamato beffardamente, in dialetto napoletano:
«Pertini avrebbe dovuto fare cavaliere a me, perché i Mondiali ve li ho fatti vincere io»