La storia del Dortmund, la storia del Muro Giallo.
Demistifichiamo ogni credenza sin dal principio. L’amore dei tifosi per il Borussia Dortmund è antico, il “Muro Giallo” no. Il battesimo di questa parete del pianto avversario si tiene il 21 maggio 2005 e cavia del giorno è l’Hansa Rostock, squadra agli antipodi del Dortmund fin dai suoi natali. Il Dortmund fino agli anni ’60 è solo uno dei tanti Borussia dal tifo caldo. Le donne da queste parti mentono ai figli e pure a loro stesse: “Vedi, il cielo è rosso perché Dio sta cuocendo i biscotti”. Ma quel colore lo si nota sia sopra il capo sia sotto i piedi, al “Rote Erde”, allo stadio “Terra rossa”, vecchia casa del Dortmund che lo accompagna alla Coppa delle Coppe 1966.
In finale pure gli avversari s’adeguano alla cabala cromatica: sono i Rossi d’Inghilterra, i “Reds” di Liverpool; quell’1-0 sancisce il primo successo tedesco in Europa, e il Dortmund diventa il primate di tutti i Borussia. Trecentomila persone festeggiano in piazza: dal concittadino centrocampista Aki Schimdt al confinante Stan Libuda, provveditore circense di fascia che ha segnato il gol vittoria. Viene sì da Gelsenkirchen ma l’astio verso lo Schalke, seppur già maturo, attenderà ad esser vendemmiato, perché non si sta celebrando la vittoria del Dortmund ma quella di tutta la Ruhr.
I successivi quattro anni dei gialloneri li scandiscono tre peccati capitali. Capofila è l’accidia: industrie di carbone e acciaio si stanno accartocciando, gli operai se ne ravvedono in tavola e alzano la voce, il club si abbacina del nulla in cassaforte e ammutolisce. Poi l’avarizia: gli accordi con l’allenatore Zebec e il giovanissimo Heynckes sono troppo esosi, iniqui per dei tedeschi vincenti in Europa. Faranno il favore d’incarnare il Fußball in altre squadre. E poi la superbia: Schimdt si ritira, Libuda torna a casa sua (allo Schalke), Emmerich viene svenduto; i rimpiazzi sono modesti tanto quanto lo sta diventando tutta la Ruhr. Nel 1972 il Borussia Dortmund retrocede. La squadra è scesa per restare in Zweite, i tifosi lo capiscono: i gialloneri nell’ultima gara interna sono guardati da 3000 occhi, 1500 superstiti. La piazza è deserta: sei anni in più e 300.000 persone in meno. Borussia non è la Ruhr.
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Quegli assenteisti potranno disertare la squadra ma non la città, il lavoro, le abitudini, e ogni operaio con un amico giallonero si fa raccontare, magari con saltuarie scrutate, come procede l’ascesa di quel rettangolo prefabbricato che affianca e sovrasta il “Rote Erde”, semplicemente standogli accanto. Gli operai ci lavorano dal 1971 con la fretta e la furia che solo uno scandalo può imporre. Il più grande del calcio tedesco, lo “Scandalo Canellas”. Denunce di combine, marchette da migliaia di marchi, giri loschi ormai illuminati in tante squadra tedesche: il Colonia è colpevole e lo Stato punisce. I soldi per un’arena degna del Mondiale 1974 andranno in una città illibata, e Dormtund non è più sporca del solito. Così nasce il Westafalenstadion.
La lenta rinascita del Borussia Dortmund
Lo stadio nel ‘74 è monumentale, gli accoliti al contempo troppo facinorosi ed esigui: in media sono 8.900 disordinati dalla nomea cazzottara, incapaci d’organizzarsi per meglio tifare o delinquere con sgomento del club, passivo nello sperare che le due azioni non comincino a diventare sinonimi. A separare i due significati si prodiga un 18enne: come il suo Dortmund, Peter Noisten è in ritardo di una classe e, se il suo anno è perso, almeno spera di riacciuffare quelli sciupati dalla sua squadra.
Egli riesce ad incontrarsi segretamente con il suo idolo in campo, il portiere giallonero Bertram, a cui scappa la promessa: “Se raduni dei tifosi, io partecipo alle riunioni”.
Questo è il mandato che trasforma quel Peter Noisten bocciato a scuola nel Pater Noster dei fan-club gialloneri, trasmutando gli 8.900 cani sciolti in 25.400 salvatori della società. Tutti i nuovi membri devolvono al club la tassa d’iscrizione, fomentano i passanti in ogni straße a salvare il Dortmund dal milione e trecentomila marchi di debito, lesinano in guerriglie e aprono pure un asilo sotto la loro Südtribüne. Il presidente Gunther nel ’75 intasca, ringrazia e si gode stadio, città e tifosi di prima classe, al fianco di una squadra che viaggia ancora in seconda.
La destinazione però s’avvicina nel ’76 e Gunther, aziendalista quanto basta per avere il calcio in indifferenza, affronta il fanatismo pallonaro con raziocinio d’industria. Il Dortmund arriva ai playoff contro il Norimberga, avversario dal tratto insolitamente comune: l’allenatore. Tale Horst Buhtz siede sulla panchina giallonera ma s’è già riservato il posto su quella degli amaranto, Gunther decide quindi di mandarlo in bianco con anticipo e intronizza con saggia fretta e pragmatica furia il nuovo allenatore, Otto Rehhagel. Gli spareggi, però, incombono. Il 38enne tedesco non ha tempo d’istruire ma abbastanza per parlare, forse ciò che gli riesce meglio, e regala agli spalti del Dortmund tre infarti (documentati in tribuna), due vittorie, e soprattutto una promozione in Bundesliga.
La risalita butta alle spalle il ricordo della retrocessione, l’ottavo posto in Bundes dell’anno dopo lo trasforma presto, troppo, in reminiscenza. Si è obnubilati dall’incedere del nuovo attaccante Burgsmuller, dalla goliardia dell’esterno Lippens e dai tifosi stessi che, finalmente, lambiscono una leggerezza agognata per cinque anni di lotte con la società. Nel ’78 il giornale Der Spiegel rompe l’idillio: “Sull’orlo della bancarotta il Borussia Dortmund ha mobilitato i teenagers, istigato i membri del club e ora, con le casse piene, la dirigenza ha licenziato i tifosi”. Queste esatte parole danno voce a quel Peter Noisten, l’abbozzato capomastro del Muro Giallo a cui è ora impedito d’entrare nella sua struttura:
“Ci avevano tolto la rivista, il logo e mi avevano bandito dal campo. Ma io ci andavo lo stesso, nella tribuna opposta, dove la sicurezza non mi avrebbe riconosciuto”.
La fitta più intensa della stagione, però, lo trafigge nello scontro tra il Borussia decadente (il suo) e quello impertinente di Mönchengladbach: un 12-0 nel quale i fohlen di Udo Lattek calpestano un Dortmund rotto all’esterno e spaccato all’interno, in caduta verso un fondo che pensava d’aver già toccato.
La seconda rinascita delBorussia Dortmund
Il barile è ormai vuoto. Saluti ben salati a Rehhagel con carissimi commiati a Gunther. Il Dortmund in cerca di un nuovo presidente elegge un avvocato di 32 anni che del Messia non ha neanche l’età, ma quantomeno dovrà essere un salvatore. Il cognome dal prodromo ingannevole è “PallaRuvida”, “Rauball”, smentito con la prima scelta di pregio in panchina: Udo Lattek. Quell’allenatore già campione d’Europa con il Bayern Monaco e gongolatore ufficiale del recente Gladbach, prodigo di dodici pere vendute gratis al Borussia Dortmund.
Con la recente nemesi si torna al sesto posto e tutto ciò che si decide funziona. Ma la tragica morte del figlio di Lattek, Dirk, lo spinge a lasciare la Germania, destinazione Barcellona. Rauball a Dortmund deve arrabattarsi, con stilosa compostezza, e assume l’uomo scartato dagli avi dirigenziali, quel Branko Zebec tanto pretenzioso da aver chiesto un equo compenso al Dortmund ’66, grasso del successo europeo ma ruzzolante in Zweite sei anni dopo. Nel frattempo Zebec aveva solleticato altri interessi, in tutta Germania, diventando anche il capostipite della larga famiglia “Meisterschale” a Monaco di Baviera.
L’entusiasmo monta, l’82 si presenta come una stagione d’ascesa e la squadra si posiziona abbastanza in alto: ritorno in Coppa Uefa. È stato un anno positivo, gli esami sanguigni di Zebec, pure: troppo ebbri per un fegato in marcescenza e un cervello ora limpido dal genio e ora ebete dalle foschie alcoliche, mortali solo sei anni dopo. Il presidente non può che esonerare l’ennesimo allenatore di un Dortmund magnetico di malocchi, tanto truci da rassegnare anche Rauball, più anziano del Messia ma senza essere riuscito a salvare nessuno. E adesso il Dortmund non ha più neanche un presidente.
I sostituti sono un buco nell’acqua e in bilancio il debito sale a 8.4 milioni di marchi. I fan scarseggiano quanto i soldi nell’85. Moneta tifante che si silenzia, pian piano, in tutta Germania dove le squadre portano a casa tanto panem con pochi circenses. Nel mentre Bernhard Langer e Boris Becker, nel golf e nel tennis, aizzano i novizi ad altri sport. Questi divi extracalcistici intaccano l’aura del pallone e santificano quella della pallina: il pubblico abdica dagli stadi, pure dal Westafalen, dove ora siedono 22.500 persone in media: altro che Muro Giallo. Con gli ultimi centesimi a Dortmund s’acquista la cenere da cospargersi in preghiera sul capo, chino davanti a Rauball, invocando la sua seconda venuta in società.
Lui accetta, salva, fa l’impresa esponendo i panni sporchi di rosso alla Federazione, accomodante nel concedere una licenza di Bundesliga, a patto che i vestiti si lavino in pubblico. Rauball ci prova: il debito da pantagruelico si restringe ad enorme, la stagione inizia per miracolo ma finisce all’inferno, nella genesi di quello che diventerà il Dortmund moderno: il “Dramma della pentecoste ‘86”, come ancora oggi viene ricordato. A fine anno il sedicesimo posto costringe e garantisce uno spareggio, si va a Colonia contro il Fortuna. Questa volta la buona sorte non porta in dote uno stadio, come nel ’72, ma solo un 2-0 da ribaltare in casa. Primo tempo al Westafalenstadion: 0-1 Fortuna, una televisione locale sentenzia la morte in itinere: “Il Borussia è retrocesso in seconda divisione”.
La calca giallonera raggela, poi: 1-1, 1-2 e 1-3. Rauball corre in campo, il pubblico lo invade e chi s’abbraccia è nostro fratello e chi non si bacia è sempre un parente ma solo troppo lontano, come quella Coppa del ’66 che nei ricordi, ora, cede il passo a questo giorno. Non quello in cui dici al mondo d’essere il migliore, ma in cui gridi a te stesso d’esistere ancora. Tanto basta a Rauball, questa volta autore del miracolo, purificatore di una coscienza scevra di dubbi: “basta essere presidente”. Ne arriva un altro d’avvocato, Gerd Niebaum, che non è certo Satana ma ne seguirà le orme, passo-passo, dal paradiso all’inferno. Insieme a lui, Michael Maier, fido chaperon sino all’ultima fermata.
“Il Dramma della pentecoste ‘86” è lo spartiacque tra gli altri tifosi e quelli di Dortmund, avvinghiati al rischio di declassare l’identità cittadina, personale, con una semplice retrocessione. Da quel momento il brulichio nella Südtribüne si rinforza, e aumenta, nonostante Steffi Graf con la sua racchetta indebolisca gli stadi della Germania, sempre più vuoti e subalterni allo US Open e Roland Garros. La scissione è netta: 22.400 abbonamenti al Westafalenstadion, 6.400 la media delle altre squadre nel 1992/3.
Prima stagione foriera dei diritti TV, piovuti sull’unica superstite tedesca in Europa, un Dortmund finalista di Coppa Uefa. Un BVB che si fregia dell’attacco mancino di Chapuisat, gli ordini elvetici del generale Hitzfeld ma, soprattutto, con 25 milioni di marchi in cassa. Soldi che rimpatriano i talenti tedeschi dal Sud delle Alpi: tornano Sammer dall’Inter, Riedle dalla Lazio e Möller dalla Juventus. I tifosi gioiscono e si confrontano con la società e nel ’95 si torna a vincere la Bundesliga.
L’amore e l’accordo perdurano sotto la capanna che ora è anche di proprietà del club. L’estasi si suggella nel ’97: Schalke 04 batte Inter in Coppa Uefa, Borussia Dortmund batte Juventus in Coppa Campioni. La Ruhr sconfigge l’Italia. Il predominio garba, eccome, una Germania che s’innova di tradizione con la “Regola 50+1” nel ’98: le squadre diventano compagnie, potranno vendere le azioni ai tifosi e comprare, ancora, e vincere, per sempre. Ma solo un club diventa subito un’azienda quotata in borsa: il Borussia Dortmund. Visione? No. Necessità, tacita. Il club spende per spandere un’immagine da investitore che in realtà è cieco.
Paperone, molto più ricco di un Bayern futuribile, ma radicato, al contrario d’un Dortmund aspirante “grossista e rivenditore”. Un proclama letterale dello stesso presidente Niabaum nel giorno in cui annuncia la “goool.de”, compagnia interna al club dal nome internettiano (senza nemmeno possedere un sito online), che produrrà le divise della squadra: con il benservito a quegli incompetenti della Nike. Siamo nel 2000 e allo stadio si canta “Se vogliamo vi compriamo”, propaggine megalomane dai piani alti fino agli spalti, ora ricolmi di occasionali e ultras, divisi e giudici, l’uno dell’altro. Quantità che batte qualità nelle terrazze ma non sul campo. Luogo in cui 121 milioni (di marchi) portano Rosicky, Koller, Amoroso e la Bundesliga 2002 al Westfalenstadion: solido sul prato, crepato in tribuna ma ora venduto a “Molsiris”, un fondo d’investimenti immobiliari. Entro due anni, sarà impaurito più dei tifosi.
Lo stadio che era stato culla di fama deve però ingrandirsi, agghindarsi per la festa del Mondiale 2006 con un vestito troppo caro: 75 milioni di euro che il Dortmund ha già speso, ben prima e in altro e in anticipo di denaro che già non aveva. Ad esempio (oltre il marchio di vestiti) in un’agenzia viaggi targata “BVB” che nel fallimento ha la sua unica destinazione. Gli acquirenti del Westfalenstadion sono 5.780 soggetti singoli, ossia il gruppo Molsiris: investitori dai 5.000 ai 100.000 euro ciascuno e che hanno nel profitto l’unico, plutosanto, scopo. E il club li ripagherà con interessi dall’8 al 12% annuo; uno stadio per l’uno e tanti soldi per gli altri. Ma la crisi a Dortmund deve arrivare, se non nell’acciaio fumante questa volta nell’etere trasmittente, nella televisione che crolla insieme a Leo Kirch (il Rupert Murdoch teutonico) il quale deruba tutta Germania dei diritti sulla Bundesliga.
Borussia ricco, Dortmund infelice
I più oculati restano in piedi, chi vive a pagherò cade. Ci si potrebbe anche nascondere dietro al dito della Champions League, ma nel 2003 il Dortmund arriva terzo, all’ultima giornata, e tanti saluti alle apparenze. I giornali disvelano gli omicidi economici, gli assassini d’identità e le efferatezze sul futuro di un club che non ha più nulla: né la proprietà del campo né i diritti sul logo né quelli sul nome né i cartellini di Rosicky ed Ewerthon e Metzelder, già incassati come nuda proprietà per 15, putridi, milioni.
Nel 2004 Maier e Niebaum bussano anche alla porta del Bayern Monaco, ruotano il cappello chiedendo due milioni di euro, la pietà di Hoeness gli allunga la somma. Una morte reversibile solo da chi le tribolazioni giallonere le ha viste e vissute tutte al contempo: il solito Reinhard Rauball – ora più Matusa che Cristo – torna per la terza volta al Borussia Dortmund. Il 14 marzo 2005 potrebbe esserci la seconda fondazione del Dortmund, oppure la necessità di una nuova prima. A deciderlo sono 444 azionisti di Molsiris (ossia il minimo per votare) che si riuniscono, ascoltano e discutono per sei ore mezza: “Se richiedete oggi i soldi, noi falliamo” è la strategia della dirigenza.
I tifosi già scandagliano le cartine dei campi di periferia, ignoti anche ai TomTom, e la riunione infine decreta: il BVB non fallisce. Con la bile nella trachea si può tornare a respirare fiati profondi dal sentore acido, di una sbornia che però è già passata.
Tra gli ubriachi di gioia c’è pure colui che finisce questo inizio di viaggio, un 19enne all’anagrafe Daniel Lorcher e residente nella Südtribüne, luogo consacrato in extremis e meritevole di una nuova cerimonia in suo onore, quella della salvezza. In dieci settimane, con 5 chilometri di tessuto giallo, centinaia di uomini e un corso di cucito in comune si è pronti; Lorcher organizza tutto: alla prossima gara interna ogni spettatore avrà la sua bandierina. Chiunque sarà un membro della tribuna. Nessuno, è la regola, pregherà mai più per fare investimenti folli, avendo capito che lo scotto dell’arroganza non è altro che il più totale anonimato.
È il 21 maggio 2005, Borussia Dortmund-Hansa Rostock e poco importa del risultato. Perché a sud del centrocampo si affigge l’epitaffio al passato, il nuovo viatico per l’antico sentimento, un motto che da quello striscione finirà sulla bocca di ogni tifoso. Prima europeo, e poi del mondo: “Alla fine del vicolo oscuro brilla il Muro Giallo”.
Bibliografia:
Tor! The Story of German Football – Uli Hesse
Building the Yellow Wall. The incredible rise and Cult Appeal of Borussia Dortmund – Uli Hesse
Facciamo un viaggio alla scoperta dello spirito che ha animato le origini del nostro calcio, al riparo dalla compostezza e dal conformismo dell’attuale Serie A.