Immaginare uno come Nando Martellini a commentare una partita di calcio al giorno d’oggi sarebbe semplicemente impossibile, nonché comico. Il modo di fare e di concepire la telecronaca del mondo del pallone nell’ultimo trentennio si è evoluto radicalmente (nel bene e nel male): sono cambiati gli uomini, cresciuti in un ambiente storico e culturale totalmente differente da quello delle vecchie generazioni, sono cambiati soprattutto i mezzi, con l’avvento delle televisioni private prima e di Internet, con social annessi, poi (fino agli anni Ottanta regnava il monopolio radiotelevisivo della Rai), ed è ovviamente cambiato anche il linguaggio, divenuto molto più tecnico e artificioso rispetto a prima.
L’arte oratoria della telecronaca si colloca ormai in un mondo a parte rispetto alla stessa partita che si commenta: per fare il telecronista oggi bisogna anzitutto imparare a memoria ogni singolo retroscena/curiosità su qualsiasi calciatore presente sul globo terracqueo, famoso o non famoso che sia, da qualunque nazione esso provenga non ha importanza (europeo, sudamericano, australiano, marziano… si deve sapere tutto di tutti).
Non conta soltanto cosa si dice quando si fa una telecronaca, bensì come la si dice, ed è questo l’aspetto più importante e significativo delle telecronache odierne. La voce dei telecronisti, un tempo quasi sommessa, viaggia oggi a decibel esagerati, alla continua ricerca dell’enfasi.
Esattamente tutto ciò che non caratterizzava le memorabili telecronache di Nando Martellini. Quando commentava una partita di pallone, Martellini si limitava a nominare il cognome – non il nomignolo o, peggio, il nome di battesimo – dei calciatori, restituendone fedelmente l’azione compiuta in quel momento. Guardava spesso gli album delle figurine Panini per riconoscere meglio i loro volti, così da evitare fraintendimenti e scambi di persona.
MARTELLINI E L’ARTE PERDUTA DELLA TELECRONACA
Le telecronache di Martellini erano le più semplici del mondo a livello linguistico, anche se ciò non significa che fossero banali, tutt’altro. Dopotutto se “giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che esista” (Johann Cruijff docet) lo stesso vale per le telecronache (ma con le parole).
Dire unicamente l’essenziale, ciò che si vedeva, e dirlo in modo preciso, sintetico e puntuale: queste erano le telecronache di Martellini, che, malgrado l’assoluta sicurezza che trasmetteva nei commenti, cadeva anch’egli, seppur raramente, in qualche gaffe: la più celebre fu sicuramente quella in cui, durante una partita della Nazionale azzurra ai Mondiali messicani del 1986, apostrofò per dieci ininterrotti minuti il centravanti Altobelli in “Jacobelli”, chiedendo poi il perdono dei telespettatori in diretta televisiva, nella maniera più genuina e sincera possibile.
Martellini conosceva la tattica e gli schemi delle squadre commentate, ma non li riteneva aspetti decisivi del suo mestiere: a lui interessavano le singole azioni dei calciatori e i gol da loro segnati, la base stessa del gioco (semplice e per questo così celebre). Probabilmente non sarebbe stato contento di vedersi affiancato ad una seconda voce per il commento tecnico, l’avrebbe visto come un qualcosa di superfluo.
Ma la principale differenza tra i telecronisti di oggi e il Nando Martellini di ieri sta nel modo di comunicare ciò che si vede, dall’impostazione vocale all’utilizzo del linguaggio: se il parlato dei primi è votato all’eccesso, all’iperbole, all’esclamazione, quello di Martellini era un tono di voce educato, tranquillo e rispettoso, che non osava mai farsi prendere dall’accecato entusiasmo, per rispetto sia della carica che ricopriva, sia dello spettatore che da casa doveva avere solo occhi per il match.
Martellini non esultava mai per un gol, quello era un “dovere” che spettava a chi vedeva la partita da lui commentata. Martellini non ragionava come un tifoso, a differenza dei suoi colleghi moderni, perché lui era un giornalista, e come tale seguiva la missione per cui era pagato: fare servizio pubblico, e farlo nel migliore dei modi.
Per lui il commento di una partita era un’arte nobile e popolare al tempo stesso, al servizio del cittadino di ogni età, classe sociale, fede e ideologia, che doveva essere accompagnato da un linguaggio chiaro, conciso e calmo, senza dover inutilmente alzare i toni per ogni azione, senza bisogno di inventare alcun neologismo per attirare l’attenzione, e senza gli asfissianti tecnicismi che ricorrono nei commenti odierni.
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La telecronaca per Martellini era solo un semplice, ma efficace, mezzo al servizio dello spettatore che guardava la partita, e la voce era lo strumento unico e imprescindibile che accompagnava le immagini in movimento dei calciatori in campo: le telecronache di Martellini erano votate al minimalismo (parole scandite lentamente, toni sempre pacati, si raccontava solo ciò che si vedeva), contrapposto in questo senso al massimalismo delle nuove telecronache (parole scandite rapidamente, toni sempre impetuosi, abuso costante dello “storytelling”).
Nando Martellini aveva coltivato sin dall’infanzia due grandi passioni, lo sport e la politica: inizialmente era intenzionato a lavorare nel secondo ambito, tanto che conseguì la laurea proprio in Scienze Politiche a Roma.
Egli conobbe il mondo sportivo nel 1936, quando assistette in prima persona alle Olimpiadi di Berlino (i biglietti del treno glieli regalò il padre come premio per i buoni voti conseguiti a scuola), divenendo testimone tra gli altri delle gesta di Jesse Owens, e anche della nostra Nazionale di calcio, che nella capitale tedesca conquisterà quello che è tutt’ora il suo unico oro nello sport di squadra per eccellenza.
L’INGRESSO IN RAI
Nel 1944, a 22 anni, entrò a far parte dell’EIAR, l’azienda radiofonica dello Stato, che di lì a pochi mesi avrebbe cambiato denominazione in RAI. Qui Martellini si occupava di politica estera, cronaca nazionale e cronaca sportiva, finché due anni dopo, nel 1946, l’allora responsabile dei servizi giornalistici della RAI Vittorio Veltroni (padre del politico e giornalista Walter Veltroni), lo “obbligò” a fare una scelta, che ovviamente gli avrebbe segnato l’intera carriera.
“Veltroni mi prese in disparte e mi disse che se avessi continuato a raccontare lo sport e poi la benedizione del Papa in Piazza San Pietro, la gente si sarebbe immaginata il Papa con il Pallone sottobraccio. Per cui mi impose di scegliere tra la cronaca e lo sport. Io scelsi lo sport, e non me ne sono mai pentito”.
Nando Martellini
Nello stesso anno della “scelta di vita”, Martellini esordì come radiocronista sportivo nella partita di campionato Bari-Napoli, mentre il suo esordio come telecronista è datato 1958, nell’amichevole internazionale tra Inghilterra e Unione Sovietica.
Oltre alle partite di calcio, Martellini ha prestato la voce anche a quello che una volta era il primo sport nazionale, il ciclismo, diventando, a partire dal 1948, anche uno dei cronisti ufficiali del Giro d’Italia, per poi occuparsi anche dell’altrettanto prestigioso Tour de France: Nando commenterà le due competizioni ciclistiche più importanti per oltre un ventennio, dagli anni Quaranta sino ai Settanta.
La voce del nostro, malgrado ora totalmente devota all’arte sportiva, fu comunque scelta per commentare importanti eventi di cronaca, come i funerali di Luigi Einaudi e di Papa Giovanni XXIII. Esordì come telecronista della Nazionale Italiana nel trionfale Europeo del 1968 giocato in casa, ma la vera gloria (sia personale che collettiva) la ebbe due anni dopo, nei Mondiali messicani del 1970.
Per la verità Martellini doveva alternarsi nelle telecronache dei match azzurri con l’illustre collega Nicolò Carosio, celebre per essere stato uno dei pionieri delle radiocronache in Italia, nonché primo radiocronista assoluto della Nazionale (raccontò i Mondiali vinti nel 1934 e nel 1938) e nel 1970 si apprestava a commentare, stavolta come telecronista, il suo settimo Mondiale, insieme appunto al buon Martellini.
Carosio commentò il primo match, Italia-Svezia (terminato 1 a 0 per gli azzurri, con rete di Angelo Domenghini), mentre a Martellini toccò il secondo, Uruguay-Italia, lo scontro decisivo per il primo posto nel girone (0-0). A reti bianche finì anche il terzo e ultimo incontro, Italia-Israele, ma fortunatamente il punto raccolto bastò agli azzurri per scavalcare i sudamericani, che persero 1 a 0 contro gli svedesi, e terminare il girone in prima fila.
Quel match passò involontariamente alla cronaca per un fatto che destò molto scalpore, parecchie polemiche e addirittura tensioni diplomatiche, con Nicolò Carosio coinvolto in prima persona (leggi articolo sopra). Per colpa di un malinteso che costerà la carriera a Carosio, Martellini diventerà il commentatore ufficiale degli azzurri.
MARTELLINI, IL TELECRONISTA DEL SECOLO
Così, dopo aver narrato i vittoriosi quarti di finale contro il Messico (4 a 1 con reti di Riva e Gianni Rivera), Martellini si ritrovò a commentare la semifinale contro la Germania Ovest (che per accordi contrattuali avrebbe dovuto fare Carosio), quella che passerà alla storia come “La partita del Secolo”, ma che sarà solo il primo di tre match leggendari della nostra Nazionale ai Mondiali e che Martellini avrà l’onore di commentare.
Malgrado il solito tono composto e professionale tenuto per tutti i 120 minuti dei tempi supplementari, anche dopo il gol del definitivo 4 a 3 di Rivera, in cui esclamò un conciso “che meravigliosa partita, ascoltatori italiani!”, a fine partita Martellini quasi si mise a piangere per le troppe emozioni provate. A microfoni spenti, va da sé.
Ad ogni modo come fece notare lo stesso Martellini “il radiocronista al di sopra delle parti non esiste. È inconcepibile un uomo asettico, vaccinato a tal punto da risultare inattaccabile, pure in forma attenuata dal morbo del tifo”.
Tornando alle telecronache Martellini, dopo aver commentato il deludente Mondiale del 1974 (con gli azzurri allenati da Ferruccio Valcareggi eliminati al primo turno), e quello già più soddisfacente del 1978 (in cui la nazionale guidata da Enzo Bearzot arrivò sino alle semifinali), ebbe la massima gloria professionale e umana nel “Mùndial” spagnolo del 1982: dopo la “Partita del Secolo” del 1970, Martellini ebbe l’onore di commentare anche l’altrettanto iconica “Italia-Brasile 3 a 2”, che i brasiliani tutt’ora chiamano “La tragedia del Sarrìa”, per il nome dell’impianto in cui si disputò e soprattutto perché per i verde-oro fu una catastrofe calcistica.
Qui assistette in prima persona alla “resurrezione” calcistica e umana di Paolo Rossi, passato dalla squalifica per il calcioscommesse di due anni prima ad essere eroe di un intero Paese, protagonista assoluto con una tripletta della vittoria fuori pronostico su un Brasile che veniva da tutti gli addetti ai lavori dato come il favorito per la vittoria finale, visti i grandi nomi che lo componevano (Zico, Leo Jùnior, Sòcrates, Falcao tra gli altri…), ma che, pagando forse un eccesso di superbia nel volere attaccare a tutti i costi, non seppe contrastare l’efficace catenaccio e contropiede all’italiana messo in piedi da Enzo Bearzot.
CAMPIONI DEL MONDO
Ma fu nella finale del Santiago Bernabèu di Madrid tra Italia e Germania Ovest che la gioia si sublimò definitivamente: un 3 a 1 senza appello, dopo aver dominato i tedeschi in lungo e in largo per tutto il match, firmato dall’ormai eroe popolare Paolo Rossi, da un Marco Tardelli che si lanciò in un urlo impazzito di gioia destinato ad entrare nell’immaginario collettivo, e da Alessandro Altobelli.
Al fischio finale il nostro stavolta non riuscì a trattenere le proprie emozioni, e sarà l’unica volta in carriera in cui cederà all’urlo di gioia, gridando l’ormai celeberrimo “Campioni del mondo, Campioni del mondo, Campioni del mondo!” per cui ancora oggi è principalmente ricordato.
Definì quel momento il più bello della sua carriera da commentatore, e come non condividere: era pur sempre da 12 anni, da quella finale persa col Brasile per 4 a 1 nel 1970, che Martellini stava aspettando di poter finalmente vedere la sua Nazionale alzare la Coppa del Mondo, e provare le stesse emozioni che provò il suo vecchio collega Carosio 50 anni prima nel raccontare quei due successi.
“Io preparavo per ogni partita una cartella in caso di vittoria e una cartella in caso di sconfitta. Soltanto che, alla fine di quella partita, le emozioni immaginate alla macchina da scrivere erano così diverse da quelle provate sul campo che buttai via tutto e cominciai a parlare, con un entusiasmo tale che ad un certo punto venni interrotto dal regista spagnolo, che mi disse che entro un minuto dovevo smettere”, ricorda Nando in un documentario sulla vittoria del mondiale spagnolo, aggiungendo anche che “riuscì a capire quello che avevo detto ascoltando la registrazione, perché nell’emozione di quel giorno, tutto quello che avevo detto era indubbiamente dettato dall’entusiasmo, da un fervore, da una specie di raptus”.
In un’era in cui i telecronisti si emozionano anche forzatamente, gridando ed agitandosi per qualsiasi cosa accada nel rettangolo di gioco, a prescindere dall’importanza del match e a prescindere dalla qualità effettiva dell’azione, è da ammirare la sincerità di un uomo che ha dedicato tutta la sua carriera al massimo del rigore e della pacatezza, che viene paradossalmente tutt’oggi ricordato per l’unico momento in cui “ascoltò il cuore” e non il “cervello”. Per troppo cuore, in seguito ad un malore, lascerà la telecronaca della nazionale nel 1986 (Messico). Pizzul ne raccoglierà l’eredità, inaugurando già in un certo senso l’inizio di una nuova era del racconto tele-sportivo.